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CARDINI, Franco L_Islam è una minaccia (Falso!) (2016)

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Aline Rocha

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Idòla
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Franco Cardini 
“L’Islam 
è una minaccia” 
(Falso!) 
Idòla | Laterza
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© 2016, Gius. Laterza & Figli
www.laterza.it
Progetto grafico di Riccardo Falcinelli
Prima edizione marzo 2016
Edizione 
1 2 3 4 5 6
Anno
2016 2017 2018 2019 2020 2021
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Questo libro è stampato su carta amica delle foreste
Stampato da
sedit - Bari (Italy)
per conto della Gius. Laterza & Figli Spa
isbn 978-88-581-2369-0
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Alla memoria di Khaled Muhammad al-Assad, 
studioso e cittadino esemplare, 
martire dell’Islam e della scienza, 
decapitato a Palmira il 18 agosto 2015 
per aver difeso strenuamente 
un patrimonio dell’umanità
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Ecco: sono arrivati i Mori, avanza già la mezzaluna,
e sulle mura di Palermo, di Granada e Barcellona,
non parlano latino (la pelle la hanno scura)
han fatto a pezzi un frate (il papa ne ha paura)
non sanno il Paternoster, distruggono le vigne,
non mangiano il maiale, han mogli a cento e mille.
Guerra, guerra nel nome del Signore dalla Francia 
[all’Inghilterra, 
per la fede e per l’onore...
(Sergio Endrigo, L’Orlando, 1962) 
– Credete voi che ’l Turco passi questo anno in Italia?
– Se voi non fate orazione, sì.
– Naffe! Dio ci aiuti, con queste diavolerie! Io ho 
una gran paura di quello impalare.
(Niccolò Machiavelli, La Mandragola, 
atto terzo, scena terza)
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Indice
Premessa xi
1. A voler essere pedanti 3
2. Uno spettro s’aggira... 19
3. Paura, timore e prudenza 33
4. I fondamenti dell’islamofobia 44
5. “L’Islam moderato non esiste” 54
6. “Islam e Modernità sono inconciliabili” 66
7. “Esiste un solo Islam” 79
8. “I musulmani sono tutti uguali” 89
9. “Il Corano è un libro di guerra” 101
10. “Europa e Islam sono nemici da sempre” 110
11. “I musulmani ci odiano” 140
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X indice
12. “I musulmani stanno invadendo l’Occidente” 153
13. “Il jihadismo è una macchina compatta 
e organizzata” 162
14. “Viva le primavere arabe” 169
15. Eurabia felix 177
 In conclusione/inconclusione 191
 Glossario 205
 Orientamento bibliografico 209
 Indice dei nomi 213
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Premessa
È difficile scrivere la Premessa a un libro di que-
sto genere. Azzardarsi a farlo significa in qual-
che modo ipotecare il futuro: una scommessa 
molto simile al tentare Iddio. Significa mettersi 
in gioco affermando o proponendo qualcosa che 
sarà verificato da tutti non fra dieci o cento anni, 
e nemmeno fra qualche mese: ma subito, seduta 
stante, hic et nunc o quasi.
Gli storici sono, in genere, cattivi profeti: spe-
cie quando temono di dir cose che potrebbero 
farli passare per altrettante Cassandre. D’altron-
de, quando andava di moda un certo determi-
nismo comunque déguisé (magari travestito da 
mediocre storicismo), azzardare qualche cauta 
profezia era più facile e comunque più ammis-
sibile: per quanto, poi, si dovessero affrontare 
delusione, irrisione e disincanto perché non se 
ne indovinava mai una. 
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XII premessa
Ma se ciò è vero per gli “storici” di profes-
sione, vale a dire per gli studiosi, va meglio nel 
campo della politica o dei media? Non sembra 
proprio. Andatevi a rileggere, a riascoltare o a 
rivedere quel che in quei due ambiti si diceva in 
un recente o addirittura recentissimo passato, 
all’indomani del fatidico 11 settembre 2001 o 
alla vigilia dell’aggressione all’Afghanistan op-
pure di quella all’Iraq di pochi mesi più tardi. 
Oggi si torna a parlare dell’incubo di attacchi 
biochimici, e senza dubbio la minaccia non può 
essere né sottovalutata né tantomeno ignorata, 
la guardia va tenuta alta, anzi altissima: eppure, 
vi ricordate la faccenda dell’antrace e la penosa 
figura di Colin Powell (il quale fra quelli della 
Banda Bush era fra l’altro l’ultimo a meritarla: 
era il più intelligente, il più onesto e il più sim-
patico) che agita sotto il naso dei rappresentan-
ti delle Nazioni Unite una patetica bottiglietta 
simile a quelle di acetone che le signore usano 
per le unghie; avrebbe più tardi fatto onorevole 
ammenda per essersi prestato a quell’indegno 
teatrino, eppure quella macchia peserà purtrop-
po per sempre sul suo onore di uomo politico e 
di soldato.
Oggi, va di moda lodare le virtù di Oriana 
Cassandra Fallaci, di spirito profetico dotata: 
eppure dovrebb’essere chiaro proprio a tutti, 
compreso ai Maestri di Vigevano e alle Casa-
linghe di Voghera, che Oriana Cassandra – alla 
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premessa XIII
quale io non so non pensare se non con affetto, 
ammirazione e riconoscenza perché ha scritto 
Un uomo e Lettera a un bambino mai nato – a 
proposito dell’Islam ha sbagliato in pieno e, con 
le sue pagine tanto disinformate quanto dure e 
violente, ha causato più mali della grandine. Se 
c’è una cosa che ormai è chiara, specie dopo la 
nascita dell’IS e l’orrore del 13 novembre a Pari-
gi, è che quello che lei descriveva come il vero e 
unico Islam – pur basandosi su fatti accaduti e 
su cose viste: ma decontestualizzate dalla realtà 
e arbitrariamente proposte a generale modello 
– non è, viceversa, Islam proprio per nulla. Se 
potevano finora sussistere equivoci residui, oggi 
l’empia, blasfema ferocia dei terroristi ha irre-
versibilmente provocato all’interno dello stesso 
Islam, perfino in ambienti fino a ieri in qualche 
modo sensibili alla sirena jihadista, una risposta 
fondata sulla condanna, sull’indignazione e sul 
disincanto. 
E adesso, insomma, che fare? Le recenti stra-
gi terroristiche sono state un atto di guerra, si 
dice. È proprio così: a patto tuttavia di accordar-
ci bene su quel che s’intende con questa parola, 
così chiara sul piano filologico-lessicale eppure 
così ambigua su quello semiologico e antropolo-
gico. La guerra di Troia fu una guerra; lo furono 
anche le guerre persiane, le annibaliche, le cro-
ciate, quella dei Trent’Anni, la seconda guerra 
mondiale, quella del Vietnam, le due guerre del 
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XIV premessa
Golfo. Qual è il minimo comune denominatore 
di questi eventi tanto diversi tra loro per caratte-
re, motivazioni, qualità, scopi, che sono tuttavia 
altrettante forme assunte nel tempo da qualcosa 
ch’è in fondo sempre la stessa, un’antichissima 
compagna dell’umanità?
Siamo in guerra, si stanno ripetendo in 
molti: e quindi, à la guerre comme à la guerre. 
Ma attenti perché, tanto per continuar con le 
espressioni francesi, quella contro l’islamismo – 
che non è la fede islamica, bensì la sua tragica 
caricatura in termini ideologici, un “ismo” (al 
pari del fascismo o del comunismo) che tratta 
Dio e la religione come pretesti per una politica 
di potenza – è sul serio una drôle de guerre, che 
qui in Europa va combattuta con gli strumenti 
e le risorse dell’antiterrorismo, l’intelligence an-
zitutto, mentre nel Vicino Oriente vuol vederci 
per forza di cose sul terreno in quanto là, a dif-
ferenza di qua, il nemico adesso rappresentato 
dall’IS1 vanta una sovranità territoriale de facto 
che gli va strappata: il califfo al-Baghdadi è un 
brigante che si comporta come se fosse un capo 
di Stato e i suoi seguaci gli vanno sottratti uno ad 
1 Per questa e le altre consimili sigle con le quali tale realtà è indi-
cata, cfr. Glossario, s.v. Personalmente preferisco la sigla IS a quel-
la, forse più comune, ISIS, in quanto la seconda mi suona sgradita 
e blasfema profanazione della versione greca e latina del sacro no-
me della dea egizia Iside, alla quale Apuleio con tanta devozione 
si rivolge. Sull’argomento cfr. Le maschere del califfo, “Limes”, 9, 
settembre 2014. 
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premessa XV
uno o battendoli sul campo o convincendoli ad 
abbandonare lasua causa e a passare alla nostra. 
Perché questa è una guerra anche, anzi soprat-
tutto, ideologica, contro mujahiddin (combat-
tenti del jihad, dello “sforzo sulla via gradita a 
Dio”)2 e foreign fighters (uomini o magari anche 
donne, spesso giovani, che all’opulento vuoto di 
valori offerto loro dall’Occidente, cui hanno vol-
tato le spalle, hanno preferito il fiammeggiante e 
sanguigno orizzonte del paradiso all’ombra del-
le spade). Una guerra dove non basta vincere, 
bensì occorre anche e soprattutto convincere.
Siamo davvero in guerra? Ma allora è indi-
spensabile cominciar col capire bene chi è il ne-
mico e chi sono invece gli alleati; e se tutti gli 
alleati sono davvero tali, e se tali sono tra loro o 
fanno in qualche misura il doppio gioco. 
E allora attenzione. Qui da noi, che cosa vuo-
le il califfo che ci fa colpire dagli attentati terro-
ristici? Egli vuol costringerci ad abbandonare il 
ritmo della nostra usuale vita civile, a vivere co-
me talpe in un sistema di “sicurezza” cioè di pau-
ra continua, a perder la testa per lo sgomento o 
per la rabbia fino a commettere gesti inconsul-
ti: che magari si traducano in atti di guerra in-
sensati, in una tempesta di fuoco che ci abbatta 
sull’area conquistata dall’IS e che, più che i suoi 
2 Al riguardo G. Vercellin, Jihad. L’Islam e la guerra, Firenze, 
Giunti, 1997. 
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XVI premessa
guerriglieri, stermini quegli innocenti irakeni e 
siriani che il califfo-brigante tiene praticamente 
come ostaggi, che magari non lo amano affatto 
ma che finiranno con il preferirlo ai “liberatori” 
occidentali se questi ultimi colpiranno alla cie-
ca ammazzando più loro che non i miliziani, i 
politischen Soldaten di al-Baghdadi. Il quale di 
una cosa ha soprattutto bisogno: di shuhadà3, 
di “martiri della fede” che dimostrino a tutto 
l’Islam sunnita in via di proletarizzazione del 
mondo che lui e solo lui è il rappresentante su-
premo della fede: lui ben più dei re e degli emiri 
delle petromonarchie reazionarie della penisola 
arabica, fautrici della fitna antisciita4 ma al tem-
po stesso manovratrici di masse di petrodollari, 
giocatrici in borsa e alleate di ferro dell’Occiden-
te; lui, oggetto unico dell’attacco combinato dei 
“crociati” che vengono da ovest, dei curdi sun-
niti sì ma tanto empi da armare perfino osceni 
3 Al singolare shahid, “testimone oculare”, quindi, nell’originale 
senso greco di martyr, “testimone” dell’Islam, “martire”. Si chiama 
shahada, “confessione” (quindi “professione”) di fede, la formula 
la ilaha ilà Allah wa Muhammad rasul Allah, “Non c’è altra divi-
nità se non Iddio, e Muhammad è l’inviato di Dio”. 
4 Sul concetto di fitna (plurale fitan: “lotta”, “discordia”, “disordi-
ne”, “anarchia”, per estensione “guerra civile”; e, soprattutto oggi, 
la lotta tra sunniti e sciiti che sta, ad esempio, alla base della poli-
tica antiraniana dell’Arabia Saudita), cfr. G. Kepel, Fitna. Guerra 
nel cuore dell’Islam, tr. it., Roma-Bari, Laterza, 2004, e A. Sfeir, 
L’Islam contre l’Islam. L’interminable guerre des sunnites et des 
chiites, Paris, Grasset, 2013.
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premessa XVII
reparti militari femminili contro di lui e degli 
“eretici” sciiti irakeni, siriani e iraniani.
Per affermarsi davvero quel che dice di esse-
re, il “comandante dei credenti”5, il califfo deve 
farci paura a casa nostra fino a indurci a perdere 
la testa e a rinunziare al nostro ordinario way of 
life e magari agli stessi valori in cui crediamo, 
cedendo la nostra libertà in cambio di uno strac-
cio d’illusoria sicurezza in più; e a combatterlo 
sul suo terreno, sull’area che ancora controlla 
nel Vicino Oriente, ripetendo gli errori che già 
abbiamo commesso in Afghanistan e in Iraq e 
alienandoci le popolazioni delle quali ha più o 
meno il controllo ma sulle quali non esercita af-
fatto un ampio e profondo consenso. Nella sua 
trappola è pesantemente caduto dopo la stra-
ge parigina di novembre il presidente francese 
François Hollande, con la sua proclamazione 
dello “stato d’emergenza” che ha obbedito al 
diktat terroristico sconvolgendo la vita civile 
dei francesi e ha adempito ai voti califfali con la 
tanto poco efficace quanto inconsulta risposta 
militare dei raids vendicatori su Raqqa, i quali a 
suo dire non avrebbero fatto vittime civili men-
tre hanno invece regalato al califfo la simpatia 
dei familiari di esse ai quali il tiranno islamista 
avrà finito col sembrare migliore del democra-
5 Il khalifa, “successore” del Profeta, portava abitualmente il titolo 
di amir al-mu’minin, “principe” o “comandante” dei credenti.
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XVIII premessa
tico sterminatore alla cieca. Hollande, che nel 
2011 aveva massicciamente aiutato i jihadisti 
siriani nell’intento di cacciare Bashar al-Assad, 
è noto per non averne mai imbroccata una; con 
la “vendetta” dei suoi aerei su Raqqa, non si è 
smentito. Va detto, d’altronde, che i raids russi 
di qualche settimana prima, per quanto indiriz-
zati a un territorio siriano previo, però, accordo 
con il legittimo governo della regione, avevano a 
loro volta – contrariamente a quanto dichiarato, 
anzi esplicitamente e autorevolmente confer-
mato, dalle fonti degli alti comandi russi – fatto 
centinaia di vittime civili. 
Da parte nostra, è chiaro come ci si debba 
comportare. Serena prosecuzione della vita civile 
in Europa alla faccia dei terroristi assassini, pur 
con tutte le misure di sicurezza necessarie, ma 
senza isterismo; individuazione precisa di tut-
te le fonti di finanziamento e di sostegno all’IS, 
magari con il brechtiano pericolo di accorgerci 
che, mentre marciamo contro il nemico, il nemi-
co marcia alla nostra testa travestito da alleato; 
guerra sul terreno vicino-orientale combattuta 
da noi anzitutto con l’aiuto degli alleati sunniti, 
anzi con loro in primissima linea (e sarà dura), 
per dimostrare con chiarezza che al-Baghdadi 
non è il loro capo politico-sacrale. Questo non è 
affatto uno “scontro di civiltà” secondo la stantìa 
definizione di Samuel P. Huntington, del resto 
ormai vecchia di quasi un quarto di secolo e già 
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premessa XIX
sballata ai suoi tempi: ma è una “guerra per la 
civiltà”, che occidentali e musulmani debbono 
combattere insieme, uniti contro un comune 
avversario.
E stiamo in campana. Lo Stato-fantoccio ca-
liffale, questa barbarie senza legge (soprattutto 
priva di legge divina, anche di quella concepita 
alla luce del diritto islamico), lo batteremo. Non 
so quando, non so a quale prezzo: ma lo battere-
mo, e presto per giunta. Solo che non sarà finita. 
Non finirà così. Siamo ormai entrati in un tunnel 
dal quale non emergeremo troppo presto perché 
il ventre che ha partorito l’orrore del fanatismo 
terrorista è ancora pregno, erutterà altri mostri 
e poi altri ancora. Perché la sua radice non sta 
nell’aberrazione pseudoreligiosa jihadista, che è 
a sua volta un effetto anziché una causa. La radi-
ce dei mali del mondo attuale, di questo lungo e 
tumultuoso momento di passaggio – a dirla con 
Zygmunt Bauman – dalla “Modernità solida” 
con le sue granitiche, brutali certezze fondate 
sulla forza e sul profitto, alla “Modernità liqui-
da” con le sue incertezze e la sua febbrile ricerca 
di un nuovo equilibrio, è la profonda ingiustizia 
nella quale l’umanità sta affondando, l’abissale 
sperequazione che la domina e che ormai l’infor-
mazione globalizzata sta rendendo nota a tutti 
nella sua insensata insostenibilità6. È il mondo 
6 Per cui rimandiamo a F. Cardini, Astrea e i Titani. Le lobbies 
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XX premessa
delle oscene, insopportabili disuguaglianze lu-
cidamente denunziate nell’enciclica Laudato si’ 
di papa Francesco7, la Mater terribilis, ancora 
e sempre mostruosamente feconda, dei mostri 
che stiamo affrontando e che dovremo nell’im-
mediato futuro affrontare. È questa l’idra le cui 
teste dovremo tagliare col ferro e bruciare col 
fuoco. 
Non è l’Islamche ci minaccia, nonostan-
te l’indubbia componente guerriera e perfino 
violenta della sua cultura che è però, appunto, 
una componente8. E nemmeno il suo perfido e 
ridicolo succedaneo ch’è l’islamismo. È contro 
l’ingiusto assetto del mondo, contro l’assurdo 
squilibrio di un’umanità divisa fra pochissimi 
troppo ricchi e una sterminata moltitudine di 
troppo poveri, che è necessario volgerci. Quello 
è il nemico da battere. Non si tratta affatto di 
esportare la “democrazia”, come alcuni sosten-
nero nel 2003 all’inizio dell’aggressione all’Iraq 
americane alla conquista del mondo, Roma-Bari, Laterza, 2003, 
e F. Cardini, M. Montesano, S. Taddei, Capire le multinazionali. 
Capitalisti di tutto il mondo unitevi, nuova ed., Rimini, Il Cerchio, 
2012.
7 Cfr. F. Cardini, Un uomo di nome Francesco, Milano, Mondadori, 
2015.
8 Cfr. per questo Adonis (pseudonimo dello scrittore e saggista si-
riano Ali Ahmad Sa‘id Esber), Violenza e Islam. Conversazioni con 
Houria Abdelouahed, tr. it., Milano, Guanda, 2015. Ma a proposi-
to di luoghi comuni e di stereotipi circolanti al riguardo nel nostro 
paese, si veda M. Bruno, L’Islam immaginato. Rappresentazioni e 
stereotipi nei media italiani, Milano, Guerini, 2008. 
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premessa XXI
che già da allora si annunziava fallimentare, 
bensì di costruire sul piano mondiale – perché 
ormai, con la globalizzazione, tutto il mondo è 
sul serio paese – la giustizia sociale: non si trat-
ta più di un impegno etico e tantomeno di una 
scelta ideologica, bensì di una inevitabile neces-
sità obiettiva. Se non vogliamo farlo perché lo 
riteniamo equo, dobbiamo farlo se non altro per 
legittima difesa. 
E la giustizia non consiste certo semplice-
mente in una più equa e sostenibile ridistribu-
zione delle ricchezze; ma passa attraverso di es-
sa e attraverso un mutamento profondo di valori 
e di stili di vita che siamo chiamati a istituire 
nell’immediato futuro. Se non ci riusciremo, 
non ci sarà possibile scampo. 
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“L’Islam è una minaccia” 
(Falso!)
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1. A voler essere pedanti 
Ad evitare equivoci, carte in tavola. L’Autore di 
queste pagine non è né un orientalista, né un 
arabista (uno studioso o un esperto di lingua, di 
letteratura o di cultura araba), né un islamolo-
go (termine che spiegherò più in là nel capito-
lo), per quanto a molti amici e colleghi egli di 
continuo si rivolga per verificare le sue mode-
stissime conoscenze e le sue insicure opinioni. 
Egli è un docente universitario di storia che, fin 
dai primi anni della sua attività – vale a dire, 
ohimè, dagli anni Sessanta del secolo scorso – si 
è costantemente posto il problema dei rapporti 
tra le popolazioni e le culture euro-occidentali e 
l’Islam, anche se si è limitato a lungo a studiare 
“soltanto” i secoli XI-XV (il che, vi assicuro, non 
è poco). Egli ha sempre tenuto a impostare e ad 
analizzare i rapporti tra Europa latinogermani-
ca e Islam nella prospettiva e dal punto di vista 
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4 “l’islam è una minaccia”
appunto occidentali, assumendo come oggetto 
privilegiato di studi il movimento crociato, l’i-
dea stessa di crociata nella sua dinamica, quindi 
i pellegrinaggi in Terrasanta, e al tempo stesso 
– com’era ovvio e necessario – il contesto di tali 
fenomeni, vale a dire l’insieme dei rapporti reli-
giosi, politici, diplomatici, militari, economico-
finanziari, culturali, artistici e anche folklorici 
tra genti cristiane e genti musulmane, tenendo 
naturalmente altresì conto di quelle culture bi-
zantina ed ebraica che nello sviluppo del cristia-
nesimo occidentale e dell’Islam nonché nei loro 
reciproci rapporti ebbero un peso complesso e 
arduo a valutarsi, ma che resta impossibile e in-
concepibile ignorare. 
Il corso dei decenni durante i quali si è an-
data snodando la mia esistenza e alcuni grandi 
eventi nel corso di essi verificatisi – segnata-
mente il successo della “rivoluzione islamica” 
iraniana del 1979 e più ancora poi gli sviluppi 
del cosiddetto fondamentalismo e la terribile 
stagione purtroppo ancora in corso, che per con-
venienza si fa avviare dagli attentati che segna-
rono l’11 settembre 2001 – mi hanno quasi per 
i capelli tirato ad occuparmi anche di un lungo 
periodo di storia successivo a quello oggetto dei 
miei studi originari e obbligato ad allargare il 
raggio dei miei interessi nonché (nella misura 
in cui è stato possibile: con impegno e fatica) 
delle relative competenze. Sono stato costretto 
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1. a voler essere pedanti 5
quindi, in altri termini, a “riciclarmi” in una cer-
ta misura da medievista in modernista e addi-
rittura (sempre più spesso, negli ultimi anni) in 
contemporaneista. 
Vero è che ho cercato di mantenere le mie 
competenze di “orientalista-contemporaneista” 
in un ambito pubblicistico, senza osar di as-
sumere atteggiamenti da specialista, cosa che 
scientificamente parlando sono lungi dall’esse-
re (ho cominciato cinque o sei volte a studiare 
arabo ed ebraico, tre o quattro anche turco e 
persiano: senza andar oltre a risultati che con 
molta generosità e molto ottimismo si potreb-
bero definire modestissimi). D’altronde, come 
ama sovente ricordare il mio illustre amico e 
collega Luciano Canfora, nella gerarchia acca-
demica germanica non esistono le distinzioni e 
le periodizzazioni che si usano di solito in Italia 
e altrove, anche per assicurare spazi esclusivi e 
privilegiati a forme di competenza analitica che 
a volte si presentano effettivamente come trop-
po limitate. Nella nonostante tutto ancor dotta 
Germania non ci sono cattedre di storia antica, 
medievale, moderna, contemporanea e così via, 
bensì di pura e semplice Geschichte: non è, in 
altri termini, ammissibile che uno storico possa 
nascondersi dietro l’alibi della sua “specialità” 
(né, ancora peggio, del suo “specialismo”) per 
giustificare un’ignoranza relativa ad almeno 
grandi temi e alle grandi linee istituzionali dello 
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6 “l’islam è una minaccia”
svolgimento del passato. Non può essere ritenu-
to né decoroso né accettabile che un professore 
universitario di storia possa rifiutarsi di tenere, 
ad esempio, una lezione sull’Islam dinanzi a una 
classe di studenti della scuola secondaria o una 
conferenza sul medesimo argomento dinanzi a 
un pubblico colto ma non specialista sventolan-
do l’alibi dell’incompetenza specifica. 
Debbo aggiungere che ho condotto una co-
stante attività di redattore di elzeviri, commenti 
e recensioni sulla stampa quotidiana e periodi-
ca di vario ma in genere decoroso livello fino da 
quando avevo 18 anni, ma con maggior frequen-
za da quando avevo ormai superato la trentina 
sino a una continuità che si potrebbe definir 
professionale. Si tratta – ormai posso dirlo – di 
una passione che col tempo mi ha portato neces-
sariamente ad esercitare quasi un “secondo me-
stiere”, garantito e legittimato da tanto di esami 
e d’iscrizioni all’albo professionale dei giornali-
sti pubblicisti nonché dal versamento dei relati-
vi, piuttosto gravosi contributi fiscali.
Parliamo pertanto in questa sede di qualcosa 
che, nella mente e nel pensiero di chi ha scritto 
queste righe, vuol essere un oggetto di riflessione 
intellettuale e anzi di studio, sia pur condotto a 
un livello non propriamente scientifico né stret-
tamente sistematico. Intendiamo presentare un 
complesso di fenomeni che riguarda la presenza 
della fede e della cultura musulmane nella storia 
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1. a voler essere pedanti 7
del mondo e in particolare dell’oggi e di come 
entrambe siano considerate non tanto al livello 
degli specialisti o comunque degli studiosi – an-
che se talora, per forza di cose, a tali ambiti bi-
sognerà pur fare riferimento –, quanto piuttosto 
a quello di una più vasta e composita opinione 
pubblica. All’internodi quest’ultima sono in-
fatti compresenti e interagenti diversi livelli di 
cognizione di causa, da una conoscenza d’origi-
ne scolastica (alludiamo alla scuola secondaria 
o addirittura all’insegnamento e all’istruzione 
universitari) fino a differenti forme d’informa-
zione desunte da un’ampia ma eterogenea quan-
tità di possibili letture divulgative oppure anche 
a simpatie, antipatie e/o pregiudizi variamente 
attinti dall’esperienza personale o familiare, dai 
talk shows televisivi, dalla stampa quotidiana o 
periodica, dalla foresta informatica dei “moto-
ri di ricerca” e dei blogs, dal “sentito dire”, dalle 
impostazioni politiche alle quali in un modo o 
nell’altro ci si sente prossimi, dall’impegno vo-
lontaristico e umanitario, dalle aperte ed espli-
cite – o magari, al contrario, se non addirittura 
inconsce – forme di attrazione, di sospetto o di 
repulsione. 
Parliamo d’Islam, un tema tanto di grande 
importanza scientifica e culturale quanto d’in-
negabile attualità: un termine rispetto al quale 
si può essere anche molto ignoranti, ma raris-
simamente ci si sente estranei e per così dire 
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8 “l’islam è una minaccia”
non coinvolti. Ora, lasciando da parte la non so 
quanto consistente minoranza che, dinanzi a ta-
le tema, si comporta con la stessa nonchalance 
con la quale un gatto guarderebbe a un piatto di 
broccoli bolliti, si può dire che rispetto al mondo 
musulmano si possono dare alcuni comporta-
menti di base, ciascuno dei quali scomponibile 
poi in un’infinita serie di variabili. E qui bisogna 
cominciare sul serio a intendersi bene: poiché 
noi vogliamo giungere a parlare di cose, vale a 
dire di veri e propri oggetti degni di studio e co-
munque d’attenzione; ma alle cose si arriva pure 
attraverso quegli affascinanti eppure sovente in-
certi anzi spesso imprecisi e cangianti segni che 
sono le parole. Parole che per giunta in molti ca-
si risultano “segni di altri segni”: cioè traduzioni, 
calchi o adattamenti di altre parole, pensate e 
pronunziate in lingue straniere magari molto 
lontane dalla nostra, scritte addirittura secondo 
sistemi alfabetici ad essa estranei. 
Già per indicare colui che per i musulmani 
è non semplicemente un nabi, un profeta, ben-
sì il vero e proprio rasul Allah, il “Messaggero 
di Dio” in quanto oggetto originario e primario 
della Rivelazione divina e della Parola che ne 
rappresenta l’espressione definitiva ed eterna, il 
Corano, noi usiamo il suo nome scrivendolo pe-
rò in una forma che rispecchia la fonetica araba, 
Muhammad, o persiana, Mohammed, o turca, 
Mehmet. Un po’ più rara si va facendo ormai, nei 
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1. a voler essere pedanti 9
nostri idiomi euro-occidentali, l’adozione della 
forma italiana Maometto, o di quella francese 
Mahomet, o di quella spagnola Mahoma. In ita-
liano poi il nome Maometto, usato dallo stesso 
Dante, è stato sovente storpiato in “Macometto” 
o addirittura in “Malcometto”, con allusione al-
la malevola “leggenda di Maometto” circolante 
nell’Europa medievale – ma raccolta anche da 
autorevoli testimoni, quali Tommaso d’Aquino 
– secondo la quale il “falso profeta” sarebbe stato 
un uomo vizioso e crudele che avrebbe fondato 
una religione lasciva e immorale per puri scopi 
di potere o perché, essendo un alto dignitario 
della Chiesa, era deluso e indignato per non 
esser riuscito ad ascendere al soglio pontificio. 
In tal senso diveniva ovvio il gioco di parole 
Maometto-Malcommetto, “colui che commette 
il male”. Ancora oggi, per quanto questa regola 
abbia le sue eccezioni, si può sulle prime cogliere 
la scelta di campo più o meno filomusulmana o 
antimusulmana dalla forma usata da colui che 
parla o scrive a seconda che egli usi la forma 
Muhammad o Maometto: i soggetti afferenti 
al primo tipo si serviranno di quella, gli altri di 
questa. 
Altre oscillazioni grafiche, a proposito di ter-
mini arabi, derivano da pure questioni foneti-
che: quando c’imbattiamo nel termine chaykh in 
francese dobbiamo tener presente che esso equi-
vale alla forma inglese shaykh e che entrambe, 
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10 “l’islam è una minaccia”
nelle rispettive norme fonetiche, rinviano a quel 
che si esprime con l’italiano “sceicco”, vale a dire 
il termine – equivalente in modo molto preciso 
al latino senior, cioè sia “il più vecchio” sia quel 
che appunto è il dominus, il “signore” – con il 
quale in arabo s’indica il capo della tribù o quel-
lo di una confraternita religiosa o in generale un 
personaggio autorevole per età e per condizione 
(in siciliano è rimasto, nel suo valore affettuoso 
anche se non senza una sfumatura spregiativa, 
nella familiare denominazione dello “scecco”, 
l’asino domestico). Leggendo libri e giornali 
nell’italiano dell’Ottocento e del Novecento, si 
dovrà tener presente che nella lingua corrente di 
allora le parole arabe passavano attraverso una 
trascrizione fonetica alla francese, mentre oggi 
ha decisamente prevalso a livello internazionale 
quella inglese. 
Ciò premesso, vi sono nella nostra società 
odierna, come dicevamo, quattro fondamenta-
li modi di porsi dinanzi alla fede e alla cultura 
musulmane. 
Anzitutto, si può essere musulmani. Il mu-
sulmano – forma preferibile all’altra, troppo e 
purtroppo diffusa, “islamico”, a mio avviso da 
evitare quando si parli di persone fisiche – è 
colui che aderisce all’Islam, termine arabo che 
indica propriamente l’intimo consenso e quin-
di il “fiducioso abbandono” rispetto alla volontà 
divina secondo la Rivelazione concessa da Dio 
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1. a voler essere pedanti 11
al profeta Muhammad e testimoniata dal Libro 
nel quale è contenuta la Sua Parola, il Corano. 
Con molta inesattezza qualcuno preferisce ren-
dere il senso della parola Islam usando quella 
che in italiano suona come “sottomissione” (che 
indica piuttosto una soggezione sopportata con-
trovoglia, di cui si avverta il peso e alla quale 
intimamente si preferirebbe ribellarsi) o addi-
rittura “fatalismo”: parola quest’ultima che ha 
una lunghissima e nobilissima tradizione che 
da alcune culture pagane giunge agli esiti filo-
sofici moderni (Nietzsche, Spengler, Schmitt) 
ed è intimamente collegata al concetto di “fato”, 
“destino”, che in arabo si rende con l’espressio-
ne maktūb, “era scritto”, e in turco con la parola 
kismet, il “credente”, il “fedele”. Quest’ultimo in 
arabo si qualifica come mumin o come muslim, 
parola dalla quale deriva il nostro “musulmano” 
e che propriamente indica appunto, come si di-
ceva, l’adepto dell’Islam.
Poi, c’è l’“islamista”. Le vicende degli ultimi 
decenni ci hanno abituati a distinguere dal con-
cetto di musulmano quello che dopo la rivolu-
zione islamica iraniana del 1979 s’impose con 
l’aggettivo di “fondamentalista”. Questo termine 
fu originariamente indicato dalla pubblicistica 
statunitense che voleva in tal modo dare ai suoi 
connazionali una più o meno vaga idea di che 
cosa fosse il movimento che in quella particola-
re fase storica era rappresentato e definito dallo 
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12 “l’islam è una minaccia”
ayatollah Ruhullah al-Musavi al-Khomeini e 
dalla sua proposta di una rivoluzione che tor-
nasse alle scaturigini più autentiche e profonde 
dell’Islam, quindi ai fondamenti della fede dai 
quali durante lunghi secoli di pratica teologico-
politica e popolare, di asservimento quietistico 
ai poteri politici (per Khomeini e i suoi segua-
ci questa era stata la secolare colpa del “clero” 
sciita, i teologi-giuristi sempre soggetti al volere 
degli shah e soprattutto a quello della dinastia 
Pahlavi), di progressiva occidentalizzazione dei 
costumi, ci si era progressivamente allontanati. 
In realtà, le posizioni di Khomeini venivano da 
lontano: esse attingevano a una tradizione in-
tellettuale riformistica che si era presentata ori-
ginariamente in area sunnita già nell’India del 
Settecento con Shah Waliullah, quindi in Egitto 
nella seconda metà dell’Ottocento conpensato-
ri come Jamal al-Din al-Afghani e Muhammad 
‘Abduh e infine, sempre partendo dall’Egitto e 
dall’India, nella prima metà del secolo scorso 
grazie a Hasan al-Banna, il fondatore dei Fra-
telli Musulmani, e a Muhammad Ali Jinnah1. 
L’idea di fondo di questo movimento di pen-
siero, trasformatosi in forza politica, era che il 
mondo musulmano dovesse superare la fram-
mentazione e lo stato di torpore che lo aveva-
1 L’Islam al crocevia. Tradizione, riforma, jihad, numero speciale 
della rivista “Oasis”, XI, 21, giugno 2015.
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1. a voler essere pedanti 13
no progressivamente caratterizzato dal XVI al 
XIX secolo prima con l’asservimento rispetto ai 
grandi imperi autocratici che lo avevano domi-
nato tra penisola anatolica e subcontinente in-
diano (l’ottomano sunnita, il safawide sciita, il 
moghul sunnita) e quindi con l’acquiescenza ai 
poteri e alla politica colonialistica degli europei, 
segnatamente d’inglesi e francesi; la comunità 
musulmana, l’umma2, avrebbe saputo ritrovare 
la strada della libertà e della grandezza tornan-
do alla sua unità originaria e attingendo alla 
forza degli autentici fondamenti della fede. Ai 
giornalisti statunitensi, sorpresi essi stessi da 
questi concetti dei quali ignoravano le origini, 
l’appello di Khomeini apparve molto simile a 
quello che alla fine dell’Ottocento era stato lan-
ciato ai cristiani aderenti alle Chiese minoritarie 
e alle sette escluse ed emarginate dalle grandi 
confessioni cristiane americane – soprattutto la 
cattolica, l’episcopaliana, la presbiteriana – riu-
nite in congresso a Niagara Falls. Da qui i termi-
ni inglesi fundamentalism, fundamentalist, che 
in Occidente da molti furono ritenuti originari 
della tematica e del lessico musulmani e che a 
lungo vennero usati come tali, mentre nel mon-
do islamico sunnita se ne approfondivano i rap-
porti con la scuola teologico-giuridica salafita. 
Ormai i termini “fondamentalismo” e “fonda-
2 Cfr. Glossario, s.v.
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14 “l’islam è una minaccia”
mentalista” appaiono desueti, anche perché so-
no sempre stati poco comprensibili: gli studiosi 
francesi, segnatamente Gilles Kepel, hanno pro-
posto di sostituirli con islamisme, islamiste.
Quindi abbiamo l’islamologo, vale a dire lo 
studioso dell’Islam, quello che in francese sa-
rebbe propriamente l’islamisant. Da noi in Ita-
lia, fino a poco tempo fa, tale concetto si usava 
indicare con il sostantivo “islamista”: quindi, 
l’“islamismo” era propriamente la scienza che 
l’islamista praticava. Studiosi di straordinario 
livello come un Gabrieli, un Nallino, un Rizzi-
tano, erano propriamente non solo arabisti e 
orientalisti, ma anche appunto islamisti. Nel 
parlar comune invece – e per evidente analogia 
con termini come “cristianesimo”, “ebraismo”, 
“buddhismo” – la parola “islamismo” si usa-
va come sinonimo d’Islam. Oggi tutto ciò non 
è più possibile in quanto la proposta francese, 
accettata anche in Italia, ha condotto a parlare 
d’“islamismo” e d’“islamisti” nei casi nei quali 
s’impiegavano prima le parole “fondamentali-
smo” e “fondamentalisti”. Ma si va affermando, 
con una crescente e peraltro ovvia familiarità 
con il lessico arabo, la nuova tendenza a sosti-
tuire anche quei due termini con “jihadismo” 
e “jihadisti”, ovviamente derivati entrambi da 
jihad.
Ed ecco infine i fratelli-coltelli che si somiglia-
no eppure si odiano, paralleli e contrastanti: gli 
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1. a voler essere pedanti 15
“islamofili” e gli “islamofobi”, portatori nei con-
fronti dell’Islam di due atteggiamenti entrambi 
valutativi, orientati l’uno nel senso della simpa-
tia, l’altro in quello del pregiudizio, dell’astio. Si 
tratta di termini il cui uso è critico e paraideo-
logico, soggettivo e spesso tendenzioso se non 
arbitrario. Uno studioso che cerchi di trattare la 
natura e la storia dell’Islam con quel necessario 
distacco critico e con quella serenità che avalu-
tativa e assolutamente, asetticamente obiettiva 
non può mai essere – forme varie di attrazione 
o di repulsione, di affinità o di estraneità sono 
ovvie, naturali e ineliminabili qualunque cosa si 
studi –, ma che pure si sforzi di esprimersi in 
termini di equità e di onestà intellettuale, corre 
facilmente il rischio di essere trattato da “isla-
mofilo” o da “islamofobo” da osservatori preve-
nuti e settari di opposta opinione ma di faziosità 
e superficialità comuni.
Umberto Eco ha scritto da qualche parte che 
ci s’innamora sempre, fatalmente, di quello che 
si studia: fosse pure la pasteurella pestis. È vero: 
non c’è dubbio che anche gli studiosi di Gilles 
de Rais/Barbablù o di Jack lo Squartatore o del 
dottor Mengele finiscono, in qualche modo, per 
innamorarsi dell’oggetto delle loro ricerche. Fi-
guriamoci chi studia qualche Belle Dame sans 
Merci, tipo la Matrigna di Biancaneve: anche 
senza bisogno che essa venga interpretata da 
Charlize Theron, come accade nel film Bian-
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16 “l’islam è una minaccia”
caneve e il cacciatore. È a maggior ragione del 
tutto ovvio innamorarsi di Sharazade, di Avi-
cenna, di Omar Khayyam o del “feroce Saladino” 
che feroce non era affatto, per quanto almeno 
una volta in vita sua si sia abbassato al livello 
di un volgarissimo militante dell’IS decapitan-
do personalmente il principe crociato Renaud 
de Châtillon che pure era – riconosciamolo – un 
autentico pendaglio da forca, per quanto a sua 
volta simpatico. 
Da molti islamofobi in servizio permanente 
effettivo, di quelli che vorrebbero chiudere tutte 
le moschee (comprese quelle ancor oggi inesi-
stenti) e far colare a picco barconi e gommoni 
a bordo dei quali arrivano sulle coste siciliane 
i dolenti carichi di poveracci in cerca d’asilo, 
io vengo considerato un “islamofilo”. Perso-
nalmente ritengo il giudizio affibbiatomi da 
quei figuri un fulgido titolo d’onore, alla stre-
gua di un’onorificenza cavalleresca3. Peraltro, 
paradossalmente, a me continuano a star sim-
patici entrambi, sia il Saladino sia Renaud de 
Châtillon. Ma in ciò non parla tanto l’islamofi-
lo, e nemmeno lo studioso delle crociate, quanto 
piuttosto il vecchio professore che non ha mai 
3 Tra i suddetti figuri non includo evidentemente l’amico Renzo 
Guolo, il quale appunto tra gli “islamofili” mi annovera in un suo 
studio a ciò deputato (R. Guolo, Xenofobi e xenofili, Roma-Bari, 
Laterza, 2003), e che anzi stimo e apprezzo. Reputo comunque un 
onore anche la sua chiamata di correo.
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1. a voler essere pedanti 17
dimenticato con quanta commozione, sedicen-
ne, leggevo del Saladino e di Riccardo Cuor di 
Leone nel romanzo Il talismano di Walter Scott, 
nel quale mi confrontavo col principe musulma-
no generoso e magnanimo, quello che avrei im-
parato ad amare più tardi con la “favola delle 
Tre Anella”, col Boccaccio e col Lessing. Il mio, 
certo, è l’Islam dell’Alhambra di Granada e di 
Lawrence d’Arabia: e facendo forza a me stesso 
mi ripeto che non ci si deve lasciar trasportare, 
che l’Islam di al-Qaeda, dell’IS e anche dei mi-
granti che finiscono per diventare delinquenti o 
terroristi è ben altra cosa da quello che io amo. 
Ma anche il cristianesimo di Gesù di Nazareth è 
ben altra cosa rispetto a quello dei crociati, de-
gli inquisitori, dei conquistadores, dei cattolici e 
dei protestanti che si sono ammazzati a vicenda 
tra la Francia delle guerre ugonotte e l’Europa 
di quella dei Trent’Anni; per tacere dei neocons 
e dei teocons. 
Ma è tempo d’incontrarli, quegli altri. Che 
spesso non si atteggiano affatto a islamofobi. O 
meglio, no se con tale aggettivo (il carattere am-
pio e ambiguo della parola greca phobos lo con-
sente) s’intende il semplice concetto di “odio”; sì 
se ci si richiama alla sua accezione di “paura”. Ma 
odio e paura, sentimenti concettualmente mol-
to diversi tra loro, sono fatalmente destinati a 
confinare, a sostenersi a vicenda, a sovrapporsi. 
Ed entrambi implicano un qualchecomplesso 
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18 “l’islam è una minaccia”
inconscio d’inferiorità. Derivante da che cosa? 
Da un qualche oscuro, latente senso di colpa? 
Dall’invidia per qualcosa di cui si sente che l’av-
versario, che pure ha magari tanti motivi per es-
ser giudicato miserabile e spregevole, è comun-
que dotato? Se alla base dell’islamofilia possono 
esserci forme varie di “buonismo”, di debolezza 
caratteriale, d’ingenua residualità romantica, 
di rinnovato estetismo orientalistico, da quali 
profonde latebre, da quali oscure, limacciose e 
inconfessabili paludi emerge l’islamofobia? E di 
quali pregiudizi, di quali menzogne, di quali ca-
lunnie, di quali fantasmi si alimenta? E infine, 
se fa comodo a qualcuno, a chi e perché lo fa? 
Chi ci specula, chi ci lucra, chi ci guadagna?4
4 A queste domande ha, per esempio, cercato sinteticamente di 
rispondere, con misura e lucidità, J.R. Bowen, Blaming Islam, 
Cambridge (Mass.), The Massachusetts Institute of Technology 
Press, 2012. 
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2. Uno spettro s’aggira...
Uno spettro s’aggira per l’Occidente. Invade i 
grandi e i piccoli schermi, rimbalza dalle coper-
tine dei magazines più autorevoli ai talk shows 
più seguiti, decreta le fortune più vertiginose e i 
crolli più repentini nelle vendite dei best sellers, 
provoca discussioni e polemiche se non addirit-
tura risse tra i commentatori più noti e meno no-
ti, divide il campo dei credenti più devoti in non 
importa quale religione e dei laicisti più impeni-
tenti. È uno spettro che obbliga a tornar indietro 
nel tempo, a interrogare di nuovo la storia, e che 
al tempo stesso induce alle più disperate forme 
di scetticismo diffondendo il timore che il passa-
to, pur con tutti i suoi errori e orrori, non serva 
a nulla per spiegare un presente che appare an-
cor più terribile. È uno spettro crudele che però 
non lascia intendere, ai nostri occhi, le autenti-
che ragioni d’una crudeltà che sembra passare 
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20 “l’islam è una minaccia”
ogni limite, ogni misura, ogni possibile sia pur 
perverso scopo. Qualcuno si è domandato se c’è 
del metodo in questa follia, come c’era in quel-
la che ispirava il Triste Principe di Danimarca; 
e qualcun altro ha risposto di no, che non può 
esserci metodo in quanto non può esserci per 
sua natura alcuna logica in una dottrina, o nel-
la perversione di una dottrina, che non conosce 
il logos. Tutti i faziosi e gli ignoranti lo maledi-
cono, tutte le polizie politiche organizzate dai 
“democratici” e dai “moderati” convinti di avere 
la verità in tasca e che chiunque la pensi in mo-
do diverso da loro sia il demonio lo esecrano, lo 
braccano, lo perseguitano. Ma esso pare sfug-
gir loro di continuo: Athalanta fugiens, pantera 
profumata come quella dei bestiari medievali. 
Eppure non dovrebb’esser difficile acciuffarlo: è 
là, immenso, magnifico, ammirevole, piantato 
al centro della storia. 
Questo spettro è l’Islam: una fede che gli 
studiosi di cose religiose definiscono “abramiti-
ca”, collegata al monoteismo che ispira anche la 
Bibbia e il Vangelo eppure diversa da ebraismo 
e cristianesimo al punto che molti si domanda-
no se davvero il dio unico dei musulmani, Al-
lah nella parola araba che lo indica, sia la stessa 
persona spirituale, abbia la medesima identità 
di quell’Elohim – come lo chiamano gli ebrei 
con una parola etimologicamente affine – che 
anche i cristiani adorano come unico Dio crea-
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2. uno spettro s’aggira... 21
tore e onnipotente. Nelle requisitorie dei suoi 
detrattori è una fede guerriera, che si è diffusa 
e si è imposta con la spada e che ha il suo cen-
tro in un Libro Santo ch’è parola stessa di Dio, 
vale a dire sua emanazione eterna e inviolabile; 
una fede che ispira una legge crudele, la sharī‘a1, 
nel nome della quale si decapita, si amputano 
gli arti, si bastona, si scudiscia, si bruciano o si 
confiscano le chiese, si ammazzano preti, suore 
e semplici fedeli cristiani o ebrei, si obbligano 
le donne a coprirsi con vari tipi di velo e si nega 
loro il diritto di scegliersi un marito e d’istruirsi, 
si sottopongono a forme di barbarie come l’infi-
bulazione e la clitoridectomia. 
Quella fede e quella legge, dopo due succes-
sive ondate espansive tra VII e XI secolo e poi 
di nuovo tra XV e XVIII, hanno dato a lungo 
l’impressione di acquietarsi e di disseccarsi at-
torno a poche, in apparenza innocue, pratiche 
religiose: diffusa tra Asia centro-meridionale e 
Africa settentrionale, con le sue cinque preghie-
re quotidiane, il suo digiuno del ramadan, il suo 
pellegrinaggio a La Mecca e i suoi rituali devo-
ti e caritatevoli, ha dato l’impressione di esser 
divenuta ormai un pacifico e pittoresco fondale 
scenico per le nostre fantasie orientalistiche: gli 
harem, le oasi, i bazar, le odalische... Tra le note 
del Ratto dal serraglio e gli ossequiosi camerieri 
1 Cfr. Glossario, s.v.
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22 “l’islam è una minaccia”
con tanto di fez scarlatto nel caffè che Humph-
rey Bogart gestiva in Casablanca, l’Islam era fi-
no a un mezzo secolo fa universalmente o quasi 
considerato – in quei decenni di laicismo e di 
laicità progressivamente trionfanti nei quali Sa-
bino Acquaviva poteva scrivere il suo best seller 
dal titolo L’eclissi del sacro nella civiltà indu-
striale – una fede in via di liquidazione: oggetto 
perfino dell’allegro sarcasmo dei nostri comici, 
da Totò sceicco a Un turco napoletano, e del ri-
tornello ingenuamente blasfemo di Caravan pe-
trol intonato da Renato Carosone e da Gegè Di 
Giacomo (“Allah, Allah, Allah! – Ma chi t’o ha 
fatto fa’?”). All’estremo opposto c’erano le tele 
di Delacroix e la musica di Rimsky-Korsakov, 
l’Alhambra di Granada e il fascino delle Mille 
e una notte. Come si è potuti passare dall’Islam 
degli ulema e dei mullah quietisticamente ligi 
ai loro sultani e ai loro shah, dall’Islam dei poeti 
dell’amore e del vino come Omar Khayyam e dei 
sufi misticamente rapiti in Dio, alla furia insen-
sata dei predicatori che evocano lotte contro i 
“nuovi crociati” occidentali e che additano alle 
folle musulmane il ritorno dei tempi del califfa-
to proteso alla conquista del mondo? Tempi che 
in realtà non sono mai esistiti: ma che, evocati 
in tal modo, obbligano troppi occidentali a ri-
spondere chiamando a loro volta a raccolta le 
proprie forze e a rispolverare i soliti, malintesi, 
stantii esempi della battaglia di Poitiers del 732, 
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2. uno spettro s’aggira... 23
di quella di Lepanto del 1571, della liberazione 
dall’assedio ottomano di Vienna del 1683. 
Ma insomma, davvero i musulmani si appre-
stano a conquistare il mondo? È verosimile che 
più di un miliardo e mezzo di persone, la mag-
gioranza delle quali alquanto male in arnese e 
anzi minacciata da un progressivo processo di 
proletarizzazione, abbia davvero l’intenzione di 
mettersi contro 5 miliardi e mezzo di altri esseri 
umani – tra i quali un miliardo circa di cosid-
detti “occidentali”, ben più ricchi e potenti degli 
adoratori di Allah – fino ad assoggettarli? E se 
anche ne avessero l’intenzione – finora sbandie-
rata solo da qualche migliaio di militanti dell’IS 
o dai loro leaders – di quali mezzi potrebbero ve-
rosimilmente concretamente disporre per tra-
durla in realtà? È vero altresì che i migranti nel 
nostro continente sono davvero tutti così con-
cordi, decisi e agguerriti, e si stanno trovando 
davanti europei così buonisti e imbelli, da poter 
trasformare in poco tempo l’Europa in Eurabia? 
Risponde a verità il fatto che l’Islam cosiddetto 
“moderato” non esiste, che è frutto d’inganno o 
di malinteso, e che i fedeli del Profeta si dividono 
in fanatici, che apertamente intendono conqui-
stare il mondo, e in ipocriti trincerati dietro un 
sistema di “doppie verità” abilmente costruito, 
che fingono pacifica volontà di convivenza, ma 
che in realtà condividono i medesimi scopi dei 
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24 “l’islam è una minaccia”
loro correligionari più espliciti in quanto la na-
tura dell’Islam è solo oppressione e tirannide?
Le tecniche dei sostenitori di un tale modo 
di concepire l’Islam sono chiarissime e paiono 
ispirate al romanzo Il montaggio di Vladimir 
Volkoff: spigolare tra i casi di cronaca metten-
do in fila eventi orribili o presentati come tali, 
snocciolare uno dopo l’altro nomi, fatti, date, in 
modo da far apparire gli ultimi anni un’alluci-
nante serrata sequenza di delitti perpetrati da 
fanatici senza riguardo alcuno (anche quando 
non si ricorra alla pura e semplice menzogna) 
per le necessarie distinzioni di motivi, di conte-
sti, d’intensità, di procedure, di scopi: e regolar-
mente additando all’obbrobrio degli spettatori o 
ascoltatori fenomeni che, quando si presentano 
con pari intensità e gravità in Occidente causati 
da soggetti differenti dai musulmani, vengono 
trattati come ovvi e naturali. Ad esempio, dopo 
l’11 settembre 2001 si mandarono in onda con 
orrore i filmati che mostravano folle osannanti 
che da Tangeri a Karachi danzavano e cantava-
no ebbre di gioia per quell’infame attentato: ma 
poco tempo dopo si presentava come del tutto 
ovvio e normale che da noi, nelle nostre case, 
sui nostri teleschermi, si assistesse affascinati e 
ammirati alla fantasmagoria di luci dei bombar-
damenti della primavera 2003 su Baghdad. 
Ogni fatto di cronaca, anche minimo, il cui 
protagonista è un musulmano, viene ingiganti-
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2. uno spettro s’aggira... 25
to e proposto a modello: si passa quindi senza 
scrupolo alcuno dalla presentazione analitica 
e casistica, fondata magari su pochi episodi, a 
un’indebita generalizzazione; si descrive un al-
bero, ma lo si presenta come se fosse uno qualun-
que di una foresta di altri centomila alberi tutti 
uguali; il caso particolare viene iterato e genera-
lizzato, l’eccezione finisce con il venir presentata 
come regola. Succede quel che avviene talvolta 
durante i convegni o le conferenze, quando nel 
pubblico c’è qualcuno stanco o indisciplinato: il 
chiacchierio di pochi finisce con il determinare 
un brusio diffuso che impedisce l’ascolto della 
maggioranza del pubblico, che sarebbe inve-
ce interessata a seguire il conferenziere; e gli 
astanti finiscono con l’avere la sensazione, erra-
ta, che tutta la sala sia disattenta e turbolenta, 
mentre a disturbare sono solo pochi maleducati 
o facinorosi. Allo stesso modo, nel mondo occi-
dentale odierno, le migliaia e migliaia di umi-
li atti quotidiani di altrettanti musulmani che, 
al pari di chiunque altro, vivono e lavorano in 
pace non interessano a nessuno e non vengono 
rilevati: al contrario dei veri o supposti atti di 
delinquenza che vengono immediatamente co-
municati, dilatati, ingigantiti, generalizzati. L’o-
nestà, la correttezza, la bontà non fanno alcuna 
notizia: sono invece severamente rilevati quelli 
di violenza o di disonestà, la cui descrizione e 
magari esagerazione appaga il voyeurisme degli 
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26 “l’islam è una minaccia”
osservatori prevenuti e fa il gioco dei grandi e 
piccoli opinion makers che da anni sono intenti 
a seminare tra noi le due velenose piante gemel-
le, la paura e l’odio. 
L’Islam è una minaccia, si dice. Ciò sta di-
ventando un dogma: e, come i suoi predicatori e 
adepti – e ancor più i suoi Gran Sacerdoti, che ad 
esso magari debbono fortuna mediatica, posti 
in parlamento, opulente prebende e interviste 
televisive – ben sanno, i dogmi non hanno per 
loro natura bisogno di esser provati. D’altron-
de, l’impresentabile vizio islamofobico è ormai 
divenuto una redditizia professione. Tuttavia 
quella “civiltà occidentale”, di esser figli della 
quale molti si sentono fieri (e anch’io, a modo 
mio, mi sento tale), è notoriamente razionale: 
rifugge dal dogma oppure lo accetta abbastan-
za obtorto collo come parte di quella stessa re-
ligione cattolica dalla quale la Modernità si è 
progressivamente allontanata ma di cui alcuni 
occidentali moderni si ostinano a dirsi accesi so-
stenitori (oh, la pura luce di eventi quali Poitiers 
732 e Lepanto 1571, che ci hanno salvati due vol-
te dall’invasione dei cani circoncisi!...)2. 
Difatti sono ormai tanti coloro che non pro-
vano affatto il bisogno di appendere il crocifisso 
2 L’espressione “cane circonciso” è definizione che discende dalle 
ultime nobilissime disperate parole dell’Otello shakespeariano: 
giù il cappello, quindi. 
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2. uno spettro s’aggira... 27
a una parete di casa propria, ma con ardore ne 
difendono in cambio l’esposizione obbligatoria 
nei luoghi pubblici, dovunque la sua vista pos-
sa offendere e ferire la canaglia islamica. Si può 
anche essere atei, ma si è magari “devoti”: e la 
croce, della quale come simbolo di amore, di fra-
tellanza e di sacrificio non si sa che farsi, diventa 
sacrosanta quando svetta sulla cima dei “nostri 
bei campanili” dai quali scende il caro vecchio 
squillo delle “nostre campane”. E non fa niente 
se esse invitano alla messa e noi non ci andia-
mo affatto: ma è importante che diano fastidio 
a quegli altri, che li umilino e li offendano, che 
ricordino loro che stanno a casa nostra e non vi 
sono i benvenuti se non quando accettano do-
cili lavori “al nero” e salari da fame, cioè di far 
quello che noi non vogliamo fare. Quanto poi a 
conceder loro il diritto di pregare in un ambien-
te adatto – noialtri, che in quelli nostri non ci 
andiamo –, non glielo daremo mai, alla faccia 
della Costituzione e delle leggi internazionali; li 
obbligheremo a eseguire le loro prostrazioni ri-
tuali nel mezzo delle strade e delle piazze, salvo 
poi lamentarci in quanto disturbano il traffico e 
la quiete pubblica con il ridicolo, lubrico spet-
tacolo dei loro culi per aria. Evviva gli svizzeri, 
che con un baldo referendum (sono proprio un 
“popolo gagliardo”, come cantavamo ai tempi 
di Addio Lugano bella) hanno impedito che un 
giorno un qualche minareto possa rovinare con 
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28 “l’islam è una minaccia”
la sua sgraziata silhouette i bei pascoli di mon-
tagna e la nenia monotona del muezzin spaven-
tare le buone vacche pezzate. 
Ebbene, lasciatevelo dire, cattolici-duri-e-
puri, neocrociati come vi vorrebbe il califfo al-
Baghdadi, o “cristianisti” che vi definiate o “atei 
devoti” che vi vantiate di essere: quello che con-
cepite e proponete, a proposito di crocifissi e di 
campane, è un uso improprio bello e buono per 
non dire un infame pretesto. Chissà: diciotto-di-
ciassette secoli fa i bravi contadini pagani (paga-
nus deriva appunto da pagus, “villaggio”) pensa-
vano probabilmente le stesse cose: che peccato, 
e che pena, il nostro bel paesaggio punteggiato 
di graziosi templi marmorei e di gloriose edicole 
sacre agli dei e agli eroi, deturpato ora da quelle 
ineleganti casupole nelle quali i galilei celebrano 
i loro impuri misteri; e che noia, il rumore di 
quegli arnesi di bronzo d’origine orientale che 
fanno vibrar tanto spiacevolmente l’aria! 
Ma le contaminazioni tra sacro e profano, 
imperterrite, proseguono. Quello secondo il 
quale l’Islam sarebbe una minaccia, in quanto 
un dogma “laico”, dovrebbe comunque seguire la 
regola di quelli della Chiesa cattolica: essere sot-
tratto alla ragione e alla critica per venir affidato 
alla pura fede. Ma ciò, in termini laici, sarebbe 
contraddizion che nol consente: ed ecco che, al 
fine di farlo apparire effettivo, vero, reale, irre-
futabile anche alla luce della ragione, si tende a 
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2. uno spettro s’aggira... 29
rivestirlo di prove o di qualcosa che loro somi-
glia. E dunque, al lavoro. Si attinge alla cronaca, 
si usano indizi al posto di prove, s’ingigantisce 
un fenomeno magari obiettivamente allarmante 
ma sporadico, se ne cita un altro magari grave 
ma tuttavia circoscritto nel suo ambito: e se un 
extracomunitario finisce in galera per spaccio, 
lì viene istruito come in una madrasada qual-
che imam jihadista e quando esce non è più un 
piccolo delinquente ma diventa un predicatore 
armato della fede, un assassino, magari un ka-
mikaze3, ecco allora tutti i ragazzi musulmani 
che da noi vendono finte borse di Gucci oppure 
ombrelli fuori dalle stazioni nei giorni di pioggia 
divenire dei potenziali shuhadà’, degli aspiranti 
martiri per la fede; e dietro a qualunque povero 
sbandato che, spinto dal suo vuoto interiore o 
dalla sua magari indisciplinata ricerca di Dio, 
invece di darsi a una qualche pseudoreligione da 
new age si converte (o s’illude, o finge di conver-
tirsi) al Corano, tendiamo a vedere un possibile 
emulo di Jihadi John, il foreign fighter carnefice 
– armato oltretutto di un coltello ben poco adat-
to alla bisogna, e probabilmente ben imbottito 
di droga per adempiere meglio alla sua macel-
3 Si dovrebbe a ogni buon conto riflettere sul fatto che l’omici-
dio-suicidio è usanza tanto poco islamica che per qualificarla si è 
stati costretti a ricorrere a un termine giapponese (letteralmente 
“il vento sacro”) che indica un combattente shintoista votato al 
martirio.
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30 “l’islam è una minaccia”
laresca azione – che mesi fa veniva iteratamente 
presentato da tutti i possibili media mentre era 
in procinto di sgozzare prigionieri inginocchiati 
stretti in una tuta color arancione, sinistra cita-
zione-evocazione di quella indossata dai prigio-
nieri della prigione di Guantanamo, che da anni 
si promette di chiudere e che continua a restare 
oscenamente aperta. 
Prendere alcuni casi particolari, per dram-
matici o terribili che siano, strapparli dalla loro 
eccezionalità, sistematizzarli, enuclearli dal loro 
contesto specifico e presentarli come generali e 
consueti; usare un evento accaduto in Siria, o in 
Nigeria, o magari anche a Parigi e ipotizzare che 
esso diventerà o che sta già diventando la regola 
dappertutto; ingigantire il singolo e magari iso-
lato episodio criminale e nel nome di esso finger 
d’ignorare le migliaia e migliaia di casi di buoni 
e onesti musulmani che da noi lavorano, che ci 
aiutano espletando mansioni che i nostri gio-
vani si rifiutano di fare, che soccorrono i nostri 
anziani e i nostri disabili mentre noi discutiamo 
perfino – nonostante la lettera e lo spirito della 
nostra Costituzione siano al riguardo chiarissi-
mi e non ci sia pertanto al riguardo un bel niente 
da discutere – se essi abbiano o no il diritto di 
riunirsi a pregare in un edificio religioso eretto 
o sistemato a loro spese; instillare attraverso i 
media il sospetto che dietro ogni pizzaiolo egi-
ziano che ci sorride, dietro ogni fruttivendolo 
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2. uno spettro s’aggira... 31
maghrebino che si mostra cortese, dietro ogni 
ragazza somala che accudisce un’anziana signo-
ra con la stessa dedizione con cui lo farebbe per 
sua madre, si celi un fanatico pronto a sgozzarci 
nel nome di Allah. Il terrorismo musulmano, 
come ogni altra forma di terrorismo, più che di 
fatti – e magari di fatti orribili: che certo pur-
troppo ci sono – vive d’immagini mediatiche; e 
si dimostra spesso abilissimo nel produrle e dif-
fonderle. Anche perché i manovratori del Ter-
rore sanno bene di possedere in Occidente una 
formidabile “Quinta Colonna”: gli islamofobi di 
professione, politici oppure operatori mediati-
ci, che non chiedono di meglio che raccogliere 
i messaggi più paurosi e minacciosi e sbatterli 
in prima pagina, fiondarli al proscenio, fare in 
modo che appaiano ancor più tremendi di quel 
che sono, seminare paura per raccogliere odio e 
quindi consenso. 
Conosciamo questa logica, sappiamo dove 
portano queste forme di propaganda. Le abbia-
mo già sperimentate altre volte, in Europa. L’o-
dio e la paura hanno condotto alla fine del Set-
tecento brave popolane, fino a pochi mesi prima 
timorate di Dio, a sferruzzare e a chiacchierare 
all’ombra della ghigliottina; l’odio e la paura 
hanno alimentato le purghe staliniane; è certo 
non soltanto, ma senza dubbio anche grazie a 
un odio e a una paura alimentati da una sini-
stramente geniale propaganda che tanti bravi e 
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32 “l’islam è una minaccia”
onesti cittadini tedeschi hanno finito negli anni 
Trenta per far finta di niente mentre gli ebrei 
della porta accanto scomparivano nel nulla; per 
non parlare dei tragici, grotteschi “processi alle 
streghe” organizzati negli States degli anni Cin-
quanta dal senatore Joseph McCarthy e circon-
dati dal consenso isterico di tanti buoni patrioti 
americani inorriditi dal comunismo. Attenzio-
ne, perché ci vuole poco – specie con i mezzi e 
gli strumenti mediatici di oggi – a creare climi e 
atmosfere analoghi a quelli e a quelle che crede-
vamo ormai sepolti in un passato vergognoso. Il 
ventre che ha partorito questi mostri è ancora e 
sempre gravido. 
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3. Paura, timore e prudenza
Qualcuno ha detto da qualche parte che la spe-
ranza genera sinistra e la paura genera destra. 
Non so se sia vero: e, d’altronde, oggi è più che 
mai difficile definire che cosa sia la “destra” e 
che cosa sia la “sinistra”, a meno di non accon-
tentarsi delle pur fondamentali dicotomie “in-
dividualismo versus comunitarismo”, “libertà 
versus giustizia” e simili: ma anche a quel livel-
lo molti che oggi si riconoscono in un modo o 
nell’altro in valori “di destra” dovrebbero passa-
re a sinistra, o sconfessare e rifiutar appunto la 
dicotomia stessa; d’altronde, la storia ha fatto 
scivolare per esempio a destra idee e concetti 
nati a sinistra, come quello di “nazione” in senso 
moderno, vale a dire in quello elaborato alla fine 
del Settecento.
Il fatto è che il tempo in cui noi viviamo è 
uno dei più attivi e fecondi esempi di produzio-
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34 “l’islam è una minaccia”
ne della paura che si siano mai presentati nella 
storia. E ciò non già perché molti non siano in 
effetti i rischi che la nostra società sta correndo: 
ma perché molte sono le forze interessate a se-
minar in essa la paura, evidentemente al fine di 
raccoglier qualcosa. Ad esempio, una gamma di 
reazioni collettive e diffuse che vadano da una 
più energica richiesta di sicurezza a vere e pro-
prie esplosioni di panico o di rabbia.
La tendenza a speculare su paure e insicurez-
ze è naturalmente antica quanto la politica; ed 
è collaudato alibi per far passare ogni sorta di 
“leggi eccezionali” e di “provvedimenti d’emer-
genza”, com’è accaduto anche in tempi recentis-
simi in Francia. Tuttavia, è bene rendersi conto 
che circa da un decennio noi stiamo vivendo 
immersi in un clima di allarmismo che – come 
sempre accade in questi casi – non è certo del 
tutto ingiustificato alla luce dei pericoli che ci 
circondano, ma che tuttavia è artificialmente 
coltivato.
Il “pregiudizio della diversità” si alimenta a 
due livelli.
Primo livello. Quando l’Altro, il Diverso, sono 
sentiti come inferiori, il sentimento prevalente 
è quello del disinteresse spinto fin al disprez-
zo: ed è quanto diffusamente avveniva nell’età 
del colonialismo, vale a dire fra Sette e primo 
Novecento, specie al livello dei ceti subalterni. 
In quel lungo periodo, l’interesse per le culture 
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3. paura, timore e prudenza 35
“altre” rispetto a quella occidentale era proprio 
dei ceti culturalmente e socialmente superiori 
della società, e poteva giungere fino a quegli 
autentici episodi d’innamoramento dei quali 
sono testimonianza le culture dell’orientalismo 
e dell’esotismo. A fronte dei Loti, dei Gautier, 
dei Flaubert, dei Lawrence d’Arabia e dei tanti 
scienziati e missionari che arrivavano fin a sa-
crificarsi nei lontani continenti ch’essi amava-
no, la gente comune era fiera della “superiorità 
dell’uomo bianco” e irrideva alla barbarie degli 
“altri”, dei “primitivi”, dei “selvaggi”. Ai primi del 
Novecento, a livello squisitamente scientifico, 
era ancora consueto parlar di “razza bianca” e 
di “razze inferiori”.Ci sono voluti il nazismo da 
una parte, l’antropologia culturale dall’altra per 
farci smettere.
Secondo livello. Sono proprio i ceti social-
mente e intellettualmente più deboli (preziosi 
in Occidente: come riserve di voti nelle demo-
crazie, come riserve di consenso nelle dittature) 
i più suscettibili di trasformare rapidamente il 
disprezzo in odio (o meglio, in odio-paura) non 
appena avvertano come minacciati i loro – scar-
si, fragili, risicati – margini di superiorità. Negli 
Stati meridionali degli USA, prima della guer-
ra civile del 1861-65, i bianchi poveri nutrivano 
per i niggers, i blacks, sentimenti che potevano 
andar dal disprezzo alla commiserazione alla 
semisimpatia per spingersi addirittura alla se-
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36 “l’islam è una minaccia”
misolidarietà, appoggiati magari da una fragi-
le e superficiale ma diffusa “carità cristiana”, e 
soprattutto dalla comune condizione economi-
ca di braccianti nullatenenti1: essi si mutarono 
in odio, e si tradussero in ignobili spettacoli di 
linciaggio collettivo (spesso programmato e ad-
dirittura annunziato sui giornali) solo quando e 
nella misura in cui la fine della schiavitù trasfor-
mò gli ex schiavi in un proletariato di colore che 
la white trash avvertì come concorrenziale nel 
condividere il poco e malpagato lavoro o, peggio 
ancora, la squallida miseria. I magnati dell’indu-
stria e i loro media, certo, gestivano quest’odio e 
se ne avvantaggiavano: ma i protagonisti diretti 
di esso, quelli che si pavoneggiavano facendo-
si fotografare ai piedi degli impiccati, erano dei 
miserabili (non solo in senso morale). 
Questa miseria – ohimè, appunto, solo mora-
le: perché a impersonarla e a coltivarla sono sta-
ti spesso degli agiati e benvestiti borghesi piccoli 
piccoli – è di recente riaffiorata, mutatis mutan-
dis, ai tempi nostri e nel nostro paese nelle varie 
forme dell’odio-paura nei confronti dell’Islam 
e globalmente, genericamente, di quanti in un 
modo o nell’altro a tale cultura sono collegati. 
Non ci sono stati per il momento linciaggi e im-
piccagioni: ma una serie più o meno raccapric-
1 Cfr. T.J. Lockley, Lines in the Sand: Race and Class in Lowcount-
ry Georgia, 1750-1860, Athens, University of Georgia Press, 2001. 
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3. paura, timore e prudenza 37
ciante di pubbliche o di private violenze, non 
meno gravi anche quando sono state piccole o 
minime, questo sì. E soprattutto dilaga il pregiu-
dizio che ha purtroppo trovato per esprimersi 
anche voci politiche o mediatiche autorevoli o 
comunque ascoltate e seguite che, per varie ra-
gioni, si sono prestate a legittimarlo cercando 
di affermare l’immagine di un Islam “eterno av-
versario dell’Occidente” o che pur conterrebbe 
al suo interno elementi di tolleranza e di buona 
disposizione verso la “Modernità” e la “democra-
zia”, ma che è largamente egemonizzato da forze 
retrive interessate a sospingerlo verso il fonda-
mentalismo e quindi perfino il terrorismo. Con 
la conseguenza che ogni musulmano è un ne-
mico potenziale e che ogni “sala di preghiera” 
(non parliamo di vera e propria moschea) inau-
gurata in un qualche garage dismesso diventa 
un attentato a quella cultura, a quella tradizione 
e a quella identità occidentali delle quali non ri-
sulta che, fino a qualche anno fa, salvo lodevoli 
eccezioni, qualcuno s’interessasse. Emerge pun-
tuale anche lo spettro dello “straniero che viene 
a rubarci il lavoro”: anche se e quando si tratta 
di lavori che nessuno di noi è più disposto a fare, 
mentre chi ci deruba davvero del lavoro sono, 
ad esempio, gli eleganti signori che decidono di 
trasferire le loro imprese in Romania o in Cina, 
dove la manodopera è meno costosa. Ma, guar-
da caso, quegli stessi eleganti signori li ritrovia-
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38 “l’islam è una minaccia”
mo poi intenti a finanziare i mass media che in 
modo più o meno violento alimentano pregiu-
dizio e xenofobia. La quale negli ultimi tempi è 
arrivata a sventolare lo spauracchio delle “nuove 
invasioni barbariche”, dell’“Eurabia”.
Il punto non starebbe neppure nello sma-
scherare questo deprecabile e desolante dilagar 
di atteggiamenti subculturali e di malafede po-
litica: un po’ d’informazione e un po’ di sereno 
buon senso basterebbero per rendersene conto. 
Ma, se e nella misura in cui si decida (giusta-
mente) di combatterlo, è quasi inutile star a 
convincere il popolo dei pensionati di Brindisi 
e delle commesse di Torino che i musulmani 
non mangiano affatto i bambini: equivarrebbe 
a far come il cane che morde il bastone intento 
a percuoterlo invece di avventarsi alla mano (e 
meglio ancora alla gola) di chi lo manovra. Una 
mano che invece il povero buon animale lambi-
sce con affetto. 
E allora, azzanniamo alla trachea gli odierni 
Signori della Paura. Risaliamo alle radici dei fat-
ti. L’infezione, che nei nostri giorni vediamo or-
mai scoppiata, cominciò il suo triste corso quan-
do, verso il 1995, il governo degli Stati Uniti e 
le multinazionali delle quali esso era comitato 
d’affari “mollarono” i talibani afghani e i muja-
hiddin – provenienti dall’Arabia Saudita e dallo 
Yemen – che li avevano aiutati a cacciar i sovieti-
ci dall’Afghanistan, in quanto essi non offrivano 
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più la garanzia di presidiare fedelmente il terri-
torio afghano dal quale la Unocal Corporation 
aveva deciso di far passare oleodotti e gasdotti 
provenienti da Turkmenistan e Kazakhstan in 
direzione dell’Oceano Indiano. Da allora perso-
naggi come Usama bin Laden, che apparteneva 
a una grande famiglia socia in affari di dinastie 
magnatizie statunitensi come i Bush e che era 
stato impegnato nel jihad antisovietico, passa-
rono alla guerriglia contro gli statunitensi rei 
di occupare penisola arabica e Golfo Persico; 
intanto i Signori della Paura da un lato hanno 
fatto crescere il terrorismo internazionale con le 
loro scelte politicamente demenziali o criminali 
– come la decisione di Bush senior di occupa-
re militarmente parte del mondo arabo vicino-
orientale, che la successiva amministrazione 
statunitense mantenne sotto forma di occupa-
zione anche dopo la “guerra del Golfo” –, mentre 
dall’altro hanno appunto seminato la paura nei 
suoi confronti.
Ora, il terrorismo in effetti senza dubbio esi-
ste: ma solo secondo un teorema improbabile 
e mai comprovato costituirebbe un’unità coe-
rente soggetta alla volontà di un unico centro 
propulsore. Eppure, è nel nome di questo teo-
rema che, ad esempio, nell’autunno del 2006 – 
ricordiamolo, perché la gente ha memoria corta 
– si scatenò una campagna di calunnie (quella, 
sì, terroristica) contro l’emittente araba al-Jaze-
3. paura, timore e prudenza 39
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40 “l’islam è una minaccia”
era, accusata senza ragione e senza prove (ma 
con dovizia di argomenti svianti) di “fomentare 
l’odio” e “fiancheggiare il terrorismo”. Che poi 
al-Jazeera, obbedendo all’ordine di scuderia dei 
suoi padri-padrini-padroni, abbia in seguito a 
sua volta sostenuto cause non commendevoli e 
non sincere, è vero: ma è un altro discorso.
D’altronde, questa mistificazione giustificò a 
lungo quella che venne propagandata come la 
lotta contro il fantasma di “al-Qaeda” (una rete 
o meglio una costellazione di gruppi in lotta fra 
loro, contrabbandata come una disciplinata pi-
ramide gerarchica, una sorta di “Organizzazione 
Spectrum” dei vecchi film di James Bond) e fu 
alla base dell’ideologia di quella che Bush jr. in-
felicissimamente definì War against Terror, alla 
quale il popolo americano già fin dalle elezio-
ni di mid term del novembre 2006 splendida-
mente provò di non credere più, ma sulla quale 
continuarono e continuano ancora a giurare 
i neocons e i teocons di casa nostra, purtroppo 
comodamente annidati in strapagate roccaforti 
televisive e giornalistiche. Questi seminatori di 
paura sono i principali responsabili dei continui 
“complotti terroristici” scoperti e annunziati conroboanti servizi televisivi e giornalistici, mentre 
qualche mese dopo i loro presunti autori, pre-
cipitosamente incriminati alla luce di mille ri-
flettori, sono rimessi in libertà alla chetichella 
e sotto il più stretto silenzio massmediale: così 
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3. paura, timore e prudenza 41
la gente continua a ricordare solo il loro arresto 
e a fidarsi di chi a suo tempo ha schiamazzato 
attorno ad esso omettendo poi di far onorevole 
e doverosa ammenda. 
Il fatto che i mezzibusti e i bellimbusti gior-
nalistici o televisivi, i quali nel 2003 ci assicu-
ravano che Saddam Hussein era in possesso di 
“pericolose armi di distruzione di massa”, siano 
ancora i medesimi di oggi, e continuino a pon-
tificare dalle loro tribune mediatiche senza aver 
mai pronunziato nemmeno una parolina di 
scuse per il granchio preso o per la balla inten-
zionalmente propinataci a bere pochi anni fa, 
confessiamolo, ci turba alquanto. E venendo a 
casi più recenti, va pur richiamato il fatto che 
l’IS fece la sua plateale comparsa al proscenio 
dell’opinione pubblica, dopo un certo periodo 
d’incubazione, durante l’estate del 2014: venne 
subito proclamata “Nemico Internazionale Nu-
mero Uno” e contro di essa venne allestita un’al-
leanza militare internazionale che a tutt’oggi si 
vanta di aver effettuato, da allora, alcune mi-
gliaia di raids aerei, gli effetti dei quali debbo-
no essersi dispersi nel deserto o andati a colpire 
degli innocenti beduini, dal momento che i mi-
liziani del califfo hanno continuato almeno fino 
all’indomani del tragico 13 novembre 2015 ad 
agire praticamente indisturbati. Le vere novi-
tà recenti sono state, in quel lasso di tempo, il 
profilarsi di una “nuova guerra fredda” dai tratti 
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42 “l’islam è una minaccia”
non più ideologici – quanto meno, non nel senso 
“classico” del termine – bensì decisamente geo-
politici, le conseguenze del travolgente arrivo 
sulla cattedra dell’apostolo Pietro di un gesuita 
argentino sfasciacarrozze e infine il dilagare di 
una nuova fase di “guerra asimmetrica” sferrata 
al tempo stesso direttamente dal califfo nel Vi-
cino Oriente con una nuova avanzata delle sue 
truppe e indirettamente dai suoi seguaci in Eu-
ropa (è arduo a giudicare quanto da lui voluta e 
coordinata) con lo strumento degli attacchi ter-
roristici. In seguito a ciò, il malefico incantesimo 
dell’Islam come minaccia sembra aver allungato 
ancora di più la sua ombra: sono in troppi ad 
averne bisogno e a trarne profitto.
La paura, quest’antichissima e talora perfino 
benefica compagna dell’uomo – è la sorella terri-
bile e scarmigliata del saggio timore e della casta 
prudenza – non è di per se stessa una riprove-
vole inclinazione viziosa. Anzi, essa è madre di 
una gloriosa virtù, il coraggio: che nasce appunto 
dal controllo e dal superamento della paura, dal-
la vittoria cioè dell’uomo su se stesso e sui suoi 
istinti dinanzi al pericolo. Il “coraggio” che “non 
conosce” la paura e che quindi è privo di pruden-
za è in realtà incoscienza, audacia sfrenata, follia: 
desmesure, lo chiamavano i teorici medievali del-
le virtù cavalleresche, che apprezzavano invece al 
massimo grado la mesure, equilibrio di prouesse 
(l’ardimento) e di sagesse (la prudenza). 
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3. paura, timore e prudenza 43
Quando si ha paura è necessario valutare con 
attenzione nei confronti di chi e di che cosa si 
sta provando un sentimento che può produrre 
su noi stessi effetti distruttivi. E, soprattutto, 
identificare correttamente le ragioni per le quali 
si prova quel pericoloso sentimento e chi even-
tualmente ha contribuito a instillarcelo, chi con-
ta di trarne vantaggio. È quanto dobbiamo fare 
adesso per rispondere alla domanda: l’Islam è 
davvero una minaccia? E per chi, in che senso, 
fino a che punto, entro quali limiti? 
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4. I fondamenti dell’islamofobia
Gli islamofobi continuano a disinformarci. Bi-
sognerebbe farli smettere. Li abbiamo più volte 
invitati a provar a ragionare: la maggior parte 
di loro non ci riesce, i pochi che potrebbero riu-
scirci sono troppo in malafede. Proviamo co-
munque a tutelare verità e buon senso partendo 
da pochi e ben chiari punti. 
Primo. Coloro che sul piano della tradizione 
nazionale e familiare possono oggi venir ritenuti 
sociologicamente parlando musulmani, hanno 
ormai superato in cifra tonda il miliardo e mezzo 
di persone e marciano verso 1.600.000 sui circa 
sette della totale popolazione del mondo; l’Islam 
è quindi la seconda religione diffusa nel pianeta, 
dato che i cristiani sono circa un paio di miliar-
di. Ma i musulmani – nella stragrande maggio-
ranza insediati tra Africa occidentale e Sud-est 
asiatico nel senso della longitudine, tra Caucaso 
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4. i fondamenti dell’islamofobia 45
e Asia centrale e Corno d’Africa in quello della 
latitudine – fanno nella loro quasi totalità parte 
di quell’85-90% del genere umano che vive ge-
stendo appena il 10-15% delle ricchezze del pia-
neta, mentre la metà circa dei cristiani o di colo-
ro che sociologicamente sono ritenuti tali rientra 
nel 10-15% dell’umanità che, da solo, è padrone 
dell’85-90% di esse. Inoltre, i musulmani appar-
tengono a popolazioni statisticamente molto più 
giovani (in termini di vita media) dei cristiani. 
Detenzione della stragrande maggioranza delle 
ricchezze e invecchiamento stanno tra le caratte-
ristiche del cosiddetto “Occidente”, cui appartie-
ne circa la metà dei cristiani e al quale l’Islam è 
largamente estraneo (non si tratta quindi solo di 
un problema “di civiltà”, bensì anche di geopoliti-
ca e di distribuzione delle risorse). Tutto ciò non 
va mai dimenticato. 
Secondo. A parte la storica divisione confes-
sionale dell’Islam in sunniti, sciiti e kharijiti1, è 
impossibile capire o anche solo immaginare che 
cosa concretamente significhi “essere musulma-
no” per ciascuno dei componenti di quell’enor-
me massa di oltre un miliardo e mezzo di fedeli 
o di persone sociologicamente considerate tali: 
sappiamo che comunque, tra i modi più diffu-
1 Per questi termini, e in generale per un quadro sintetico relativo 
a confessioni, scuole e indirizzi presenti nella fede musulmana, 
cfr. infra, cap. 7. 
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46 “l’islam è una minaccia”
si di esserlo, c’è quello dell’adesione a una fede 
tradizionalmente tramandata e che implica la 
professione di fede e il rispetto di pochi semplici 
precetti. Si tenga presente che anche la fede mu-
sulmana, che in sé nessuno si cura di contestare, 
è nella sua sostanza profonda in crisi come tut-
te le altre religioni storiche del mondo: e quello 
ch’è stato definito il “ritorno selvaggio di Dio”, 
più che un revival o l’avvio di un’inversione di 
tendenza, è una conferma della crisi stessa. 
Terzo. A proposito del fatto che l’Islam manchi 
del tutto di istituzioni ecclesiali in grado d’inqua-
drare l’esercizio della fede in un preciso contesto 
istituzionale e concettuale, cioè di un vero e pro-
prio autorevole centro referenziale: considerando 
la complessità della storia dei pae si musulmani, 
la loro eterogeneità etnolinguistica (a parte l’uso 
comune di una “lingua sacra”, l’arabo, che i più 
conoscono solo come lingua di preghiera fatta di 
formule recitate a memoria) nonché la plurali-
tà dei costumi, delle scuole teologico-giuridiche, 
delle tradizioni pietistiche e devozionali, del-
le scuole e delle confraternite cui i fedeli fanno 
capo, sarebbe opportuno parlare sempre non 
dell’Islam, bensì degli Islam. È stato ampiamen-
te dimostrato, ad esempio, che tra l’Islam magh-
rebino e subsahariano, tra quello turcomongolo 
dell’Asia centrale e quello diffuso nel Sud-est 
asiatico le differenze nell’approccio al testo arabo 
del Corano, nelle pratiche giuridiche, nell’etica 
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4. i fondamenti dell’islamofobia 47
pratica, nella vita quotidiana, nel rapporto tra fe-
de musulmanae pratiche folkloriche ancestrali 
(la magia, il feticismo, lo sciamanesimo e via di-
cendo) sono infinite e le distanze astrali. 
Quarto. L’atteggiamento del mondo musul-
mano nei confronti del cosiddetto “Occidente” 
è passato, storicamente parlando, attraverso 
tre fasi. Tra VII e XVII-XVIII secolo, la fase 
del disprezzo: i musulmani (dal Quattro-Cin-
quecento distribuiti fra i tre imperi ottomano, 
persiano e moghul) erano convinti della propria 
assoluta superiorità politica e culturale sugli in-
fedeli, pur rendendosi progressivamente conto 
delle straor dinarie risorse tecnologiche delle 
quali essi disponevano e cercando di renderse-
ne partecipi. Tra XVIII e XX (potremmo indi-
care più specificamente, come date di parten-
za e di arrivo, lo sbarco di Bonaparte in Egitto 
nel 1798 e la fine della prima guerra mondiale), 
la fase dell’ammirazione e dell’emulazione: i 
musulmani restarono affascinati dal mondo oc-
cidentale, cercarono d’imitarne (o di mutuarne) 
alcune istituzioni e cominciarono a interessarsi 
ad esso anche inviando i loro figli a studiare nei 
paesi europei. A partire dagli anni Venti del XX 
secolo ecco la fase della delusione, del disincan-
to e del rancore: ci si rese progressivamente con-
to che l’Occidente intendeva dominare il mondo 
musulmano sfruttandone le risorse e si cercò di 
ostacolarne i piani prima avvicinandosi in va-
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48 “l’islam è una minaccia”
rio modo a ideologie che però erano a loro vol-
ta d’origine occidentale (fascismi, socialismo), 
quindi cercando di costruire una risposta mu-
sulmana all’Occidente stesso nella sua globalità, 
un radicalismo che, sia pur nelle sue differenti 
espressioni – e da Khomeini ad al-Baghdadi ce 
n’è, di distanza! –, eravamo fino a pochi anni fa 
abituati a definire “fondamentalismo” e ora pre-
feriamo chiamare jihadismo o islamismo, e che 
può a sua volta avere contatti con il terrorismo, 
generarlo e giustificarlo, ma non dev’essere in 
sé né confuso, né identificato con esso2. D’altra 
parte, si tende in generale a sottovalutare se non 
a ignorare la profonda occidentalizzazione dei 
costumi musulmani e il fascino che la società dei 
consumi e dei profitti nonché i suoi beni mate-
riali, i suoi “oggetti”, esercitano su tutto il mondo 
musulmano: in primis, ma non solo, sui giovani 
di entrambi i sessi.
Quinto. Contrariamente a quello che si affer-
ma (e che forse addirittura si crede), il fenome-
no del sorgere del cosiddetto fondamentalismo 
a partire dagli anni Venti – con radici peraltro 
già antiche di oltre un secolo – e con nuovo e 
maggior vigore dai Settanta-Ottanta del secolo 
2 Il jihadismo si propone come ideologia politica che pretende di 
rivendicare una fede religiosa: ma resta un movimento di pensiero 
suscettibile di trasformarsi in politica. Il terrorismo è l’arma uti-
lizzata dai gruppi jihadisti nella loro “guerra asimmetrica” contro 
gli Stati e i poteri costituiti, musulmani o no, occidentali o meno. 
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4. i fondamenti dell’islamofobia 49
scorso, affonda le sue basi più nel pensiero po-
litico e utopistico occidentale che non nella fe-
de coranica e nella tradizione musulmana; esso 
non ha semplificato le cose – determinando un 
modo diffuso e unitario, più deciso e radicale, di 
considerare la fede – bensì le ha ulteriormente 
complicate. Comunque si voglia considerarlo, 
il fondamentalismo ha coinciso non già con un 
rinnovato slancio dell’antica fede tradizionale, 
bensì con un suo ulteriore appannarsi. Il fonda-
mentalismo, per quanto talora così si presenti, 
non è per nulla un movimento religioso o poli-
tico-religioso animato dalla volontà di un “ritor-
no alle origini”; non ha niente del movimento 
tradizionalista (infatti detesta la spiritualità dei 
sufi). Al contrario, è semmai “modernista” e “oc-
cidentalista”: il suo nucleo forte è costituito dalla 
volontà di appropriarsi degli elementi di poten-
za propri dell’Occidente conseguendoli però at-
traverso il linguaggio e i valori musulmani (non 
“occidentalizzare/modernizzare l’Islam”, bensì 
“islamizzare l’Occidente/Modernità”). Esso non 
è affatto neppure una forma di “politicizzazio-
ne della religione”; al contrario, è semmai una 
forma di “religionizzazione della politica”. I jiha-
disti nominano di continuo il Nome di Allah, 
ma pregano poco e trascurano allegramente le 
cinque preghiere canoniche quotidiane; difficile 
coglierli con la macchina fotografica o la teleca-
mera mentre hanno in mano un Corano o una 
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50 “l’islam è una minaccia”
misbaha3, mentre è consueto che armeggino con 
telefonini e computer. La loro ispirazione si pre-
senta come arcaica, ma i loro atteggiamenti sono 
in realtà postmoderni. Non somigliano affatto 
agli ansar del Profeta, ma piuttosto ai guerril-
leros del “Che” Guevara o ai politischen Solda-
ten descritti da von Salomon e definiti da Carl 
Schmitt. Quella dell’IS è un’armata di sanculotti 
inquadrata da ufficiali giacobini (i laicissimi re-
duci dell’esercito baathista – nazionalista e so-
cialista – di Saddam Hussein) e inalberante inse-
gne vandeane. A modo loro e mutatis mutandis, 
potremmo ben definirli degli “atei devoti”.
Sesto. Per una misteriosa “coincidenza” stori-
ca, quella della diffusione dell’Islam tra i secoli 
VII e XVIII ha quasi per intero coinciso esatta-
mente con la medesima ampia area mediterra-
neo-afrasiatica (con appendici e pertinenze eura-
siatiche a nord e con una significativa diffusione a 
sud tra Oceano Indiano e Sud-est asiatico) dalla 
quale provenivano e nella quale venivano com-
mercializzate le principali materie prime e i più 
apprezzati prodotti dei quali l’Europa fu avida ac-
quirente almeno prima dell’età delle grandi sco-
perte geografiche. Per lunghi secoli, le principali 
direttrici di commercio mondiali (la “via delle 
spezie” tra Oceano Indiano e Vicino Oriente; la 
“via della seta” tra Estremo Oriente e Mediterra-
3 Cfr. Glossario, s.v. 
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4. i fondamenti dell’islamofobia 51
neo; le vie “dell’oro”, “dell’avorio” e “degli schiavi” 
tra Maghreb e Corno d’Africa) hanno corrisposto 
in tutto o in gran parte all’area di espansione e 
d’insediamento dei musulmani (il dar al-Islam): 
il che ha fatto di loro, dal tempo dell’egemonizza-
zione musulmana del Mediterraneo fino al tota-
le assoggettamento del mondo all’imperialismo 
e al capitalismo europei, i costanti interlocutori 
dell’Occidente. La teoria dello “scontro di civiltà” 
deriva da una considerazione superficiale e par-
ziale di questa realtà, della quale si è tendenzio-
samente voluto vedere soltanto o principalmente 
l’aspetto del ricorrente scontro militare ignoran-
done o sottovalutandone sistematicamente quelli 
degli scambi economico-commerciali, diploma-
tici, sociopolitici, culturali. 
Settimo. Ulteriore coincidenza ha voluto che 
alcuni tra i principali e più vasti giacimenti della 
materia prima nonché merce più ambita dagli 
occidentali nel XX secolo, il petrolio, si trovasse-
ro ancora una volta concentrati nel dar al-Islam 
e addirittura coincidessero (ironia di Dio, o della 
Natura, o della Storia, o del Caso...) con alcune 
regioni attraversate dagli antichi tracciati delle 
“vie” della seta, delle spezie, dell’oro, dell’avorio, 
degli schiavi (piste carovaniere, naturalmente, 
ben diverse dalle vie consolari romane o dalle 
moderne autostrade).
Ottavo. L’oltre miliardo e mezzo di musulmani 
che attualmente sono presenti nel mondo parte-
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52 “l’islam è una minaccia”
cipano di una realtà socioreligiosa nella quale 
l’unità del nome “Islam” non deve far dimentica-
re la pluralità delle tendenze e delle disposizioni 
in esso presenti, né le molte forme di fitna che in 
gran parte di esso infuriano e che viene anzi pro-
grammaticamente incoraggiata proprio da pae-
si che, come l’Arabia Saudita e il Qatar, sono tra 
i più sicuri alleati politici e militari dell’Occiden-
te eppure tra ipiù rigidi sostenitori di un Islam 
istituzionalmente e civilmente impenetrabile ai 
valori e ai costumi moderni4. Va aggiunto che in 
moltissimi musulmani meno colti e non esperti 
del nostro mondo vige il pregiudizio che l’Oc-
cidente attuale sia ancora una “Cristianità”. La 
realtà del “processo di secolarizzazione” dell’Oc-
cidente tende a sfuggire alla maggior parte di 
loro. Infine, bisogna tener presente che la po-
polazione dei paesi islamici è per la stragrande 
maggioranza molto più giovane di quella dei 
paesi europei. 
Nono. Per quanto condizionati da un diffu-
so analfabetismo e da una massiccia povertà, i 
musulmani conoscono gli occidentali media-
mente meglio di quanto questi non conoscano 
quelli: grazie sia alla passata dominazione colo-
niale, sia alla loro abituale frequentazione delle 
comunicazioni televisive, informatiche e tele-
4 Cfr. N. Chomski, A. Vltchek, Terrorismo occidentale, tr. it., Firen-
ze, Ponte alle Grazie, 2015. 
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4. i fondamenti dell’islamofobia 53
matiche, sia all’immigrazione dei nostri giorni 
nelle più varie forme.
Decimo. Non bisogna dimenticare che nono-
stante tutte le “crisi” e tutti i “tramonti” dell’Oc-
cidente che vogliamo, l’Occidente/Modernità è 
ancora, ed è destinato a rimanere molto a lun-
go, la forza culturale, scientifica e tecnologica 
che informa tutto il mondo. Oggi tutte le élites 
politiche, economico-finanziarie, manageriali e 
intellettuali della Terra – non importa a quale 
identità etnica o religioso-culturale si richiami-
no – fanno sempre e comunque parte dell’Oc-
cidente, il quale pertanto sarà vinto, battuto, 
sostituito solo da se stesso. Che imploda o che 
si suicidi, è possibile e magari perfino probabi-
le. Che possa radicalmente trovare la strada di 
una trasvalutazione dei valori, è al giorno d’oggi 
molto meno credibile. Arabe, o indiane, o cinesi, 
o giapponesi che siano, le élites del futuro – una 
volta magari soppiantati i nordamericani, gli 
europei, gli australiani e insomma tutti i nipo-
tini della Cristianità e orfani della Modernità – 
continueranno a vivere, a parlare, a studiare, a 
pensare, a far profitti, a produrre e a consuma-
re in perfetto “occidentalese”: idioma al quale 
sembrano mutatis mutandis molto ben adatta-
ti anche i figli dell’Oriente Rosso, della Lunga 
Marcia, della rivoluzione culturale cinese e del-
la rivoluzione islamica “fondamentalista” nelle 
versioni sia sciita, sia sunnita. 
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5. “L’Islam moderato non esiste”
Oriana Fallaci, col suo La rabbia e l’orgoglio1, 
ha fatto scuola: soprattutto, e parrà strano, tra 
gente – in generale più o meno cattolica e de-
strorsa – che fino ad allora l’aveva cordialmente 
odiata e che lei ha disprezzato per tutta la vita e 
continuato a disprezzare anche quando sapeva 
bene che quelli là erano diventati i suoi fans, che 
la veneravano e la chiamavano “l’Oriana”. Par-
lava di rabbia e d’orgoglio, l’Oriana: e lei, che 
di coraggio perdinci ne aveva sempre avuto da 
vendere, aveva ben il diritto di parlare così. Ma 
per gli altri, per i politicanti decisi a far frutta-
1 Oggi, per un panorama più ampio delle idee fallaciane, è con-
sigliabile rifarsi a O. Fallaci, Le radici dell’odio. La mia verità 
sull’Islam, Milano, Rizzoli, 2015; ma vale la pena di rileggere le 
repliche a suo tempo proposte a La rabbia e l’orgoglio da La paura 
e l’arroganza, a cura di F. Cardini, Roma-Bari, Laterza, 2002, e da 
S. Allievi, Ragioni senza forza, forze senza ragione. Una risposta a 
Oriana Fallaci, Bologna, EMI, 2004. 
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5. “l’islam moderato non esiste” 55
re quella rabbia e quell’orgoglio versandoli sui 
conti correnti dei suffragi elettorali a proprio 
vantaggio, per i travet della politica delle “poche 
idee ma confuse” in cerca di pretesti con i quali 
riempire il loro vuoto (ora che l’antisemitismo 
non è più praticabile e che l’anticomunismo ha 
smesso di pagare), ecco l’“orianismo” che tradu-
ce quella rabbia e quell’orgoglio in paura, una 
merce che si traffica bene e che molto rende sul 
piano elettorale. 
Secondo il pamphlet di un giornalista di suc-
cesso, addirittura bisognerebbe averne di più, di 
paura: non ne abbiamo abbastanza; la paura è 
una piantina velenosa che per diventare un albe-
ro rigoglioso e mortale va innaffiata ogni giorno, 
va irrorata di notizie fresche anche se sono false 
o mal interpretate; e va metabolizzata, appun-
to, in odio. Paura dell’Islam: cioè, letteralmente, 
“islamofobia”. La leonessa Oriana ruggisce alto 
e terribile il suo “diritto all’odio”; e lo proclama 
in termini che non esito a definir a modo loro 
nobilissimi, quanto meno sul piano letterale (e 
letterario): “Abbiamo paura di non essere suffi-
cientemente allineati, obbedienti, servili, e veni-
re scomunicati attraverso l’esilio morale con cui 
le democrazie deboli e pigre ricattano il cittadi-
no. Paura di essere liberi, insomma. Di prendere 
rischi, di avere coraggio”. 
Basta mettere in fila le generalizzazioni e 
le semplificazioni alle quali l’Oriana si affida – 
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56 “l’islam è una minaccia”
trattandole sempre in modo professionalmente 
parlando magistrale – per capire il suo metodo e 
il suo gioco: ma è appunto ciò che dovrebbe vac-
cinarcene. Per lei i “musulmani buoni” non esi-
stono perché un musulmano buono è comunque 
uno che picchia la moglie, sempre e comunque. 
Più di un miliardo e mezzo di mariti e di padri 
picchiatori, di mogli e di figlie picchiate, di figli 
sottomessi e plagiati, di zii e di fratelli maggiori 
tiranni: e tutto senza sfumature, senza articola-
zioni, senza eccezione, senza remissione. La vita 
delle donne musulmane “vale meno di una vacca 
o un cammello”; esse sono tutte velate da capo a 
piedi, “ancora oggi vivono dietro la nebbia fitta 
di un velo come attraverso le sbarre di una pri-
gione”. La sua descrizione dell’Iran dell’imam 
Khomeini è una truce caricatura2 ma efficacis-
sima, se bevuta a digiuno da gente che tanto le 
beve tutte e che non ha mai visitato quel paese 
né letto nulla di serio al riguardo.
Eppure – l’Oriana era una faziosa, una pas-
sionale, magari perfino una bugiarda: ma, al-
tro paradosso, non fu mai disonesta – Le radici 
dell’odio è un libro importante, sia come testi-
monianza di una battaglia combattuta con forza 
e con coraggio, sia in sé e per sé, per i contenuti. 
2 Fallaci, Le radici dell’odio, cit., pp. 288-297; per una più equa e 
informata considerazione, R. Guolo, Generazione del fronte e altri 
saggi sociologici sull’Iran, Milano, Guerini e Associati, 2008.
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5. “l’islam moderato non esiste” 57
Nei reportages e nelle interviste in quella sede 
raccolti trapelano spesso – involontariamente? 
chissà... – scenari, verità, cose e persone che si 
sottraggono al suo schema recriminatorio: cose 
e persone per le quali, contrariamente a quan-
to proclama, lei sembra provare ammirazione e 
qua e là perfino simpatia; e si ha l’impressione 
che, invece di reprimere queste sensazioni che 
dovrebbero esserle sembrate controproducenti 
per il suo assunto, le lasci volontariamente scap-
pare, libere di suggerire scenari diversi da quelli 
che lei delinea.
Resta comunque il fatto che l’Oriana, pro-
prio perché è una grande scrittrice, appartiene 
obiettivamente al genere più pericoloso di anti-
conformisti: quelli che, con la loro genialità e il 
loro fascino, creano e legittimano per non dire 
nobilitano il conformismo altrui; quei libertari 
assoluti e insofferenti di limiti che riescono solo 
a generare dipendenza e schiavitù morale in chi 
li apprezza e li ammira, vale a dire esattamente 
quanto pretendono e proclamano di detestare. 
La sesta parte del libro, significativamente inti-
tolata La commedia della tolleranza3, è davvero 
così intollerante da riuscire intollerabile. Sen-
tite questa. Subito dopo aver proclamato che, 
appena conclusa la trasformazione dell’Europa 
in Eurabia, gli islamicichiuderanno noi euro-
3 Fallaci, Le radici dell’odio, cit., pp. 389-474.
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58 “l’islam è una minaccia”
pei in riserve simili a quelle che gli statunitensi 
riservarono ai native Americans (“come i pelle-
rossa”), declama: 
Soprattutto non credo alla frode dell’Islam Moderato. 
Come protesto nel libro Oriana Fallaci intervista se stes-
sa e ne L’Apocalisse, quale Islam moderato?!? Quello dei 
mendaci imam che ogni tanto condannano un eccidio ma 
subito dopo aggiungono una litania di “ma”, “però”, “non-
dimeno”? È sufficiente cianciare sulla pace e sulla miseri-
cordia per essere considerati musulmani moderati? È suf-
ficiente portare giacche e pantaloni invece del djabalah, 
blue jeans invece del burka o del chador, per venire definiti 
Mussulmani Moderati? È un Mussulmano Moderato uno 
che bastona la propria moglie o le proprie mogli e uccide 
la figlia se questa si innamora di un cristiano? Cari miei, 
l’Islam moderato è un’altra invenzione. Un’altra illusione 
fabbricata dall’ipocrisia, dalla furberia, dalla quislingheria 
e dalla Realpolitik di chi mente sapendo di mentire. E non 
esiste perché non esiste qualcosa che si chiama Islam Buo-
no e Islam Cattivo. 
Esiste l’Islam e basta. E l’Islam è il Corano. Nient’altro 
che il Corano. E il Corano è il Mein Kampf di una religione 
che ha sempre mirato ad eliminare gli altri. Una religione 
che si identifica con la politica, col governare. Che non con-
cede una scheggia d’unghia al libero pensiero, alla libera 
scelta. Che vuole sostituire la democrazia con la madre di 
tutti i totalitarismi: la teocrazia. Come ho scritto nel saggio 
Il nemico che trattiamo da amico, è il Corano non mia zia 
Carolina che ci chiama “cani infedeli” cioè esseri inferiori, 
poi dice che i cani infedeli puzzano come le scimmie e i 
cammelli e i maiali. È il Corano non mia zia Carolina che 
umilia le donne e predica la Guerra Santa, la Jihad. Leg-
getelo bene, quel Mein Kampf, e qualunque sia la versione 
ne ricaverete le stesse conclusioni: tutto il male che i figli 
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5. “l’islam moderato non esiste” 59
di Allah compiono contro di noi e contro se stessi viene da 
quel libro. È scritto in quel libro. E se dire questo signi-
fica vilipendere l’Islam, Signor Giudice del mio Prossimo 
Processo, si accomodi pure. Mi condanni pure ad anni di 
prigione. In prigione continuerò a dire ciò che dico ora. 
E continuerò a ripetere: “Sveglia, Occidente, sveglia! Ci 
hanno dichiarato la guerra, siamo in guerra! E alla guerra 
bisogna combattere!”4 
Quale perfida, inaccettabile, ripugnante, 
eppur magnifica anzi superba perorazione! Sa-
rebbe facile smontarne uno per uno i contenuti: 
dimostrare che una che parla così non sa nulla 
(“leggetelo bene”, il Corano: appunto...); che in-
tende deliberatamente ignorare e falsare i dati 
obiettivi della storia; che è ammalata della peg-
gior forma d’ignoranza, quella che consiste nel 
non voler sapere né capire proprio un bel niente 
in quanto profondamente convinta che il sapere 
e il capire minerebbero alle basi quel patrimo-
nio di paura e di odio che essa vuol trasmettere 
all’“Occidente” come il più prezioso dei tesori. 
Ma sarebbe altresì inutile obiettare, magari 
infilando collanine dottissime di citazioni te-
stuali e bibliografiche, che il gioco di prestigio 
tendente a voler presentare l’esistenza di un 
“Islam moderato” per poi negarla – senza peral-
tro mai definirla – equivale in realtà da solo a 
ribadire l’altro e non meno infame concetto, che 
4 Ivi, p. 473.
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60 “l’islam è una minaccia”
cioè se un musulmano solo provasse sincera-
mente a incamminarsi sulla via della “modera-
zione” (una “moderazione”, ovviamente, dettata 
e stabilita da altri...) dovrebbe cominciar con il 
rinnegare l’Islam. Sarebbe tempo perduto rile-
vare che l’affermazione secondo la quale l’Islam 
è “una religione che si identifica con la politica, 
col governare”, e l’altra per cui esso “vuole sosti-
tuire la democrazia con la madre di tutti i tota-
litarismi: la teocrazia” (a parte il fatto che molti 
studiosi sostengono che la madre del totalitari-
smo è semmai l’utopia teista se non addirittura 
atea nata nel contesto illuminista), contrastano 
fra loro. Sarebbe vano sottolineare che l’Islam 
come realtà storica è ben altro che il solo Corano, 
e che il paragone terroristico tra Corano e Mein 
Kampf può essere proposto solo da chi non ha 
mai avuto né l’intenzione né gli strumenti critici 
necessari a leggere sia l’uno, sia l’altro. Sarebbe 
ozioso osservare che se la retorica musulmana 
ha potuto indulgere a chiamare “cani infedeli” i 
cristiani (e del resto è accaduto anche il recipro-
co), ciò non toglie che per l’Islam ebrei e cristia-
ni sono in realtà ahl al-Kitāb, “gente del Libro” 
partecipe della Rivelazione divina e alla quale 
possono ben essere imposte alcune restrizioni 
ma alla quale non si può intimare in alcun modo 
di abbandonare la sua fede (che lo facciano quel-
li dell’IS è una prova di più del fatto che non si 
tratta di veri musulmani: sappiamo ormai bene 
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5. “l’islam moderato non esiste” 61
del resto che nelle file del califfo militano merce-
nari strapagati e delinquenti abituali). Sarebbe 
superfluo additare il gratuito scenografico vit-
timismo di chi s’immagina in procinto di venir 
condannato per quel che ha scritto ben sapendo 
in realtà che tutto quel che scrive è accolto in 
trionfo da alcuni grandi quotidiani e da alcune 
potenti case editrici nonché esaltato e osannato 
da politici e da media a dir poco compiacenti: al 
punto che oggi esistono un conformismo e un 
politically correct islamofobi, non il contrario, 
e una massa d’imbrattacarte e di plagiari che 
fondano la loro più o meno modesta visibilità 
sull’arte di far da mosche cocchiere a banali bu-
gie travestite da scandalose denunzie. Un sacco 
di San Giorgi i quali, prima di partire lancia in 
resta contro il drago, si accertano ch’esso non 
sia più grande di una lucertola. Persone che si 
augurerebbero tanto un compassionevole imam 
che scagliasse contro di loro una fatwa da osten-
tare come una decorazione e da sventolare per 
farsi belle pretendendo tanta pubblicità, inter-
viste in TV e magari una scorta permanente a 
spese del popolo italiano.
Certo l’Oriana, quanto a lei, era di ben altra 
pasta di tanti quacquaraquà che sono diventati 
suoi ammiratori. Ma il guaio sta nei guasti pro-
dotti dal suo esempio e dal “genere polemico-
letterario” da esso nato e trasformatosi in parai-
deologia: l’“orianismo”, che esenta dallo studia-
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62 “l’islam è una minaccia”
re e dal capire sostituendo studio e comprensio-
ne con l’invettiva e la calunnia; che trasforma 
l’ultimo tanghero analfabeta in un profeta della 
Guerra Santa contro il Nemico; che eleva dei di-
sonesti e degli incompetenti al rango di opinion 
makers per autocertificazione propria o per ci-
nica strumentalizzazione altrui. 
Esiste ormai difatti un genere mediatico-let-
terario che dell’islamofobia ha fatto un oggetto 
privilegiato di “analisi”, un trampolino di lancio 
per una “visibilità” da conseguire o da accresce-
re, uno strumento di affermazione politica, una 
pratica dialettica, in qualche caso addirittura 
un mestiere o una vera e propria professione di 
fede. Nella prospettiva delle elezioni regionali 
siciliane un candidato fortemente sostenuto da 
alcune componenti dell’attuale destra italiana, 
il giornalista e romanziere Pietrangelo Butta-
fuoco5, è stato stoppato e per così dire ricusato 
per iniziativa di alcuni leaders di quella parte 
politica in quanto giudicato “dichiaratamente 
islamico”. Ignoro se Buttafuoco, del quale cono-
sco e apprezzo i libri e i romanzi, sia davvero un 
convertito all’Islam o non piuttosto un intelli-
gente agnostico che – se non altro da buon si-
ciliano – avverte il fascino della fede coranica e 
ne difende gli adepti con particolare, convinta 
5Del quale non si può perdere il “controsaggio” P. Buttafuoco, Il 
feroce saracino, Milano, Bompiani, 2015.
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5. “l’islam moderato non esiste” 63
efficacia. Quello che so è che l’Italia è una re-
pubblica “laica”, dove ci si sforza di restar fedeli 
ai princìpi dello stato di diritto e nella quale si 
è rinunziato a professare una religione di Stato: 
cosa che in quanto cattolico, lo confesso, mi fa 
piacere personalmente solo fino a un certo pun-
to. Ma tant’è: il che rende a fortiori ancora più 
bislacca la decisione di escludere qualcuno dalla 
candidatura a un pubblico ufficio sulla base del-
la sua professione di fede, o ancor peggio di certe 
sue dichiarate e sia pur accese simpatie. D’altra 
parte, visto il successo di un recente romanzo di 
Michel Houellebecq, nel quale s’ipotizza ucro-
nicamente una Francia dell’immediato futuro 
nella quale un musulmano “islamista modera-
to” ottiene il potere addirittura con l’appoggio 
di larghi strati dell’opinione pubblica cattolica 
(parte di quella tradizionalista compresa)6, e 
visto che anche in Italia si assiste al fenomeno 
d’una narrativa ucronica nella quale, ad esem-
pio, la basilica veneziana di San Marco viene tra-
sformata in moschea seguendo con oltre mezzo 
millennio di ritardo il destino del suo venerabile 
modello, Santa Sofia di Costantinopoli, direi che 
non c’è nulla di cui stupirsi. 
Del resto, che in gran parte d’Europa si con-
tinui ancora – perfino a livello universitario – a 
mantenere l’ostracismo nei confronti di perso-
6 M. Houellebecq, Sottomissione, tr. it., Milano, Bompiani, 2015.
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64 “l’islam è una minaccia”
naggi che possono anche essere politicamente 
discutibili ma dei quali sono innegabili lo spes-
sore e l’autorevolezza intellettuali, e mi limito a 
ricordare il caso di Tariq Ramadan7, è uno scan-
dalo che si può sostenere senza arrossire – dal 
momento che ci si ritiene “democratici” e “tol-
leranti” – solo sulla base del dogma non scritto 
secondo il quale la libertà di pensiero e d’opi-
nione, in linea di massima sacrosanta, ha pur 
qualche limite e deve sopportare rarissime dero-
ghe: eccezioni destinate magari, nelle intenzioni 
di chi le accetta, a confermare la regola. Come 
per molti la storia della Shoah è giunta a con-
clusioni che in un certo senso vanno considerate 
canoniche, ragion per cui chiunque vi apporti 
contributi che siano o che appaiano in qualche 
modo da esse divergenti o rispetto ad esse cor-
rettive dev’esser condannato alla damnatio opi-
nionis in quanto “revisionista” (come se scriver 
di storia non sia di per sé esercizio costante di 
revisione di tesi e ipotesi precedenti) o, peggio 
ancora, “negazionista”, allo stesso modo almeno 
in alcuni ambienti politici e mediatici si cerca di 
spargere indiscriminatamente odore di zolfo su 
chi tenta di correggere le idées reçues ormai dif-
fuse e radicate, come quella secondo cui l’Islam 
sia per sua natura totalmente, irreversibilmente 
7 Europa domani. Conversazione con Tariq Ramadan, a cura di O. 
Casagrande, Roma, Jouvence, 2008. 
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5. “l’islam moderato non esiste” 65
e incorreggibilmente nemico delle libertà, del 
progresso civile e in generale di quel che viene 
definito “la nostra civiltà occidentale”: posizioni 
aprioristiche, queste, ispirate peraltro a modelli 
che hanno almeno un padre nobile nel grande 
orientalista, arabista e islamologo sir Bernard 
Lewis e un autorevole ispiratore nello storico e 
sociologo Samuel P. Huntington, autore dell’or-
mai “classico” best seller dedicato a Lo scontro 
delle civiltà.
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6. “Islam e Modernità 
sono inconciliabili”
Se l’Islam radicale, regolarmente – e indebi-
tamente – collegato al terrorismo, anzi spesso 
confuso con esso, è quello che riempie le nostre 
cronache mediatiche, pochissima attenzione si 
dedica invece al resto di quel vastissimo uni-
verso sociale, civile e culturale e alle profonde 
differenze che lo solcano. Pochissima, in parti-
colare, al tema del rapporto tra Islam e Moder-
nità, tra Islam e democrazia, tra Islam e laicità. 
Si tratta di temi che vengono ignorati oppure li-
quidati con frettolose, superficiali sentenze che 
ne decretano l’impossibilità e l’inconciliabilità. 
Un Islam “moderno”? Controsenso. Un Islam 
“democratico”? Impossibile. Un Islam “laico”? 
Contraddizione. Lasciamo perdere il tormen-
tone sull’“Islam moderato”, impossibile perfi-
no a discutersi date l’ambiguità e la genericità 
dell’aggettivo scelto. Decenni di studi e di dibat-
titi, tonnellate di carta stampata al riguardo, ore 
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6. “islam e modernità sono inconciliabili” 67
e ore di convegni e di dibattiti televisivi: tutto 
ignorato. “Les Temps modernes”, la prestigiosa 
rivista fondata da Jean-Paul Sartre e da Simone 
de Beauvoir e ora diretta da Claude Lanzmann 
dedica un intero, corposo numero speciale al-
la questione del rapporto tra la fede e lo Stato, 
quindi tra teologia e politica nel mondo musul-
mano1: politici e media hanno concordemente 
guardato da un’altra parte. 
Fatima Mernissi, la nota studiosa e scrittrice 
marocchina scomparsa nel novembre 2015, ha 
aperto ormai da quasi un quarto di secolo un 
serrato e a tratti ribollente dibattito sui moltepli-
ci sensi e significati che la parola e il concetto di 
democrazia assumono nel mondo musulmano, 
provocando sospetto e apprensione, ma senza 
dubbio anche interesse e speranze2: nel suo pa-
ese, la problematica allora da lei affrontata ha 
finito con il determinare nel 2004 una profonda 
rielaborazione del codice di famiglia rimettendo 
in discussione una problematica che si era pur 
aperta già fin dal 1957 ma che sembrava impan-
tanata in un paese considerato tra i più rigorosa-
mente tradizionalisti e ora passato all’avanguar-
dia in quel che concerne il delicatissimo tema 
della “liberazione della donna”, per quanto le re-
1 Dieu, l’Islam, l’État, “Les Temps modernes”, 70, 683, avril-juin 
2015. 
2 F. Mernissi, Islam e democrazia. La paura della Modernità, tr. 
it., Firenze, Giunti, 2002 (e successive ristampe).
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68 “l’islam è una minaccia”
sistenze siano ancora fortissime3: ma in quanti 
hanno preso in considerazione nel nostro paese 
tutto ciò, chi ne ha dato notizia, chi ha mostra-
to di accorgersene anziché ripetere stancamente 
il solito mantra dell’“Islam contro i diritti delle 
donne”? Nel dicembre 2015 in Arabia Saudita si 
è concesso il diritto di voto alle donne. La noti-
zia è senza dubbio straordinaria, tanto più che 
quel paese resta la roccaforte della misoneista e 
intransigente setta wahhabita4. Sarebbe stata de-
gna di approfondimenti e discussioni: è passata 
quasi inosservata. Il conformismo islamofobo è 
ormai penetrato tanto a fondo nella cultura dif-
fusa che, in casi come questo, si trova del tutto 
naturale far la politica dello struzzo: non sembra 
che valga nemmeno la pena di esprimere dubbio 
o disincanto. Potrebbe succedere qualunque co-
sa, ma il cliché dell’Islam immobile e compatto 
nella sua alterità rispetto a noi resterebbe intatto.
Un grande islamista come Olivier Carré sta 
lavorando da oltre un trentennio sui temi dell’I-
slam “laico”, per quanto questo aggettivo sia poco 
appropriato5: egli ha limpidamente dimostrato 
3 H. Rachik, Contesa sul bene della donna. E su chi lo decide, “Oa-
sis”, XI, 21, giugno 2015, pp. 52-63.
4 Per questa setta originariamente piccola e marginale, divenuta 
potentissima in seguito all’appoggio che i britannici prima, gli sta-
tunitensi poi, hanno concesso ai sauditi, cfr. G. Bonacina, Eretici 
e riformatori d’Arabia. I wahhâbiti in prospettiva europea, 1772-
1830, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011. 
5 O. Carré, L’Islam et l’État dans le monde aujourd’hui, Paris, PUF, 
1982; Id., L’Islam laico, tr. it., Bologna, Il Mulino, 1997.
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6. “islam e modernità sono inconciliabili”69
come quella secondo la quale la cultura musul-
mana non saprebbe separare la dimensione reli-
giosa e spirituale da quella politica sia una balla, 
il risultato di una visione inquinata e distorta: 
egli, senza nulla togliere né alla religiosità né 
alla politicità della tradizione musulmana – che 
esistono insieme, collegate e intrecciate, ma non 
indistinte né confuse –, ha mostrato che il pen-
siero islamico è da sempre, nei suoi migliori e più 
validi filoni, aperto e disposto ad accogliere e a 
discutere le novità, mentre sarebbero semmai i 
movimenti fondamentalisti ad aver proposto e a 
cercar d’imporre una sorta di malvagio “moder-
nismo”, una “tradizione corta” che equivale a una 
“ortodossia deviante”; ebbene, questa straordina-
ria lezione scientifica – esposta anche più volte at-
traverso media di grande diffusione e addirittura 
divulgativi – continua a restare quasi ignota salvo 
che per gli specialisti. Il noto storico marocchino 
Abdallah Laroui lavora da tempo sul confronto 
tra Islam e Modernità, soprattutto a proposito 
dell’Illuminismo e del Romanticismo, e le sue 
ricerche pongono con forza il problema delle in-
fluenze e delle convergenze tra culture che hanno 
radici comuni – il monoteismo abramitico, il co-
mune precedente ellenistico-romano – ma fron-
de, fiori e frutti tanto lontani e diversi fra loro6. 
Da noi uno specialista di solida e raffinata 
6 A. Laroui, Islam e Modernità, tr. it., Genova, Marietti, 1992. 
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70 “l’islam è una minaccia”
preparazione, Massimo Campanini7, insiste da 
tempo sull’ampiezza e la profondità del pensiero 
politico musulmano e sui protagonisti dell’assi-
milazione razionale della Modernità, come il 
pakistano Fazlur Rahman venuto a mancare 
settantenne nel 19888: ma da noi, per i nostri 
opinion makers, il “pensiero politico musulma-
no” è tutto compreso tra Usama bin Laden e il 
califfo al-Baghdadi.
Ma attenzione: se è vero che la penetrazione 
dell’Occidente nel mondo musulmano ha susci-
tato un ricco e fecondo dibattito in sedi qualifi-
cate, e se è addirittura vero che le prospettive di 
“integrazione” e di “unificazione”, per non dire di 
“fusione”, potrebbero andare al di là delle prospet-
tive di semplice convivenza9, non è detto che ciò 
equivalga a un segno totalmente rassicurante. Al 
contrario. Intanto, omologazione e livellamento 
non fanno bene al genere umano: sono le diffe-
renze e il confronto tra esse, con l’emergere del 
senso di complementarità, il sale del confronto 
tra le culture come tra i singoli esseri umani: vive 
la difference. C’è inoltre un aspetto dell’Islam ben 
conosciuto dai nostri professionisti che lavorano 
nel campo della produzione industriale, dell’ex-
7 M. Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Bologna, Il 
Mulino, 2005, e Id., Storia del medio Oriente 1798-2005, ivi 2006.
8 Islamic political thought. An Introduction, a cura di G. Bowe-
ring, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2015.
9 M. Camdessus, J. Daniel, U. Eco, A. Riccardi, Islam e Occidente. 
Riflessioni per la convivenza, Roma-Bari, Laterza, 2002.
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6. “islam e modernità sono inconciliabili” 71
port e della finanza, per quanto essi non abbiano 
interesse a farlo trapelare nei media da essi con-
trollati e che, al contrario, spargono invece spesso 
i semi avvelenati dell’islamofobia. Tale aspetto è 
la pervasività con la quale il sistema globalizzato, 
con le sue merci, i suoi processi di produzione e 
di marketing, la capacità di fascinazione del con-
sumismo, è riuscito a conquistare un mondo che 
tuttavia, al suo interno, è fortemente segnato dal-
la povertà e condizionato da correnti di pensiero 
e da movimenti politici antioccidentali. Eppure 
l’antimodernità religiosa, politica ed etica si con-
cilia sovente, all’ombra della mezzaluna, con un’i-
permodernità galoppante sotto il profilo dell’uso 
della tecnica (specie dell’informatica) e dell’abu-
so dei consumi. 
Guardate ai “guerrieri-santi” dell’IS, ai poli-
tischen Soldaten che si battono sotto la bandiera 
su cui è scritto il Nome di Allah ma che sono 
peraltro inquadrati da ufficiali ex saddamisti, 
cioè da nazionalisti e socialisti del partito Baath 
che non ha mai avuto una grande fama di pie-
tas. Quelle quattro o cinque decine di migliaia di 
ragazzi fanatizzati, di avventurieri mercenari, di 
foreign fighters, che secondo Edward Luttwak 
potrebbero facilmente venir spazzati via da una 
bella offensiva di terra10 – solo che non si tro-
va quasi nessuno disposto a metterla in campo, 
10 Intervista a E. Luttwak, a cura di D. Lazzeri, in War Games, “Il 
Nodo di Gordio”, III, 6, settembre 2014, pp. 92-96.
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72 “l’islam è una minaccia”
quell’offensiva, a parte i turchi, che presumi-
bilmente però si dedicherebbero ai curdi – a 
guardarli bene somigliano ai nostri; e “si fanno” 
di “roba” al pari dei nostri. I ragazzi musulmani 
ostentano i ritratti di Usama bin Laden oppure 
i simboli delle organizzazioni politico-militari 
musulmane, irti di mitra e di bandiere, sulle 
stesse t-shirts che i ragazzi occidentali ornano 
di teschi, di scritte gotiche e di ragazze nude. 
Vanno di moda tra loro i tatuaggi, e gli ulema di-
scutono se essi siano halal o haram11. Insomma, 
i rigoristi – che del resto, almeno quelli più seri, 
abbondano più nelle fila delle confraternite sufi 
piuttosto che nei ranghi dei combattenti jihadi-
sti – hanno le loro ragioni nel preoccuparsi di 
come, e quanto in profondo, la globalizzazione 
sia entrata nel mondo musulmano scardinando-
ne una tradizione ch’era già in pericolo e che il 
nuovo fondamentalismo militante ha ulterior-
mente compromesso anziché mobilitare12.
Questo è un nodo problematico molto intri-
cato e doloroso. Confessiamolo: siamo stati in 
tanti a concordare con il bel Jihad vs. McWorld 
di Benjamin R. Barber, del 1995, magari senza 
esser invece d’accordo con lui a proposito del-
lo spirito con il quale egli rilevava che i fonda-
mentalismi e gli integralismi potevano venir 
11 Cfr. Glossario, s.v.
12 D. Bellucci, L’Islam e l’occidentalizzazione del mondo, Genova, 
Effepi, 2002. 
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6. “islam e modernità sono inconciliabili” 73
letti “come reazioni identitarie al processo di 
mondializzazione”13. E quando si parlava di una 
possibile “islamizzazione della Modernità”, con-
trapposta alla “modernizzazione dell’Islam”, non 
si andava lontano da quel che l’imam Khomeini 
dichiarava nel settembre del 1979 rispondendo a 
una – ovviamente provocatoria – domanda della 
sua intervistatrice, Oriana Fallaci, che gli aveva 
rinfacciato l’uso del telefono, della televisione, 
del condizionatore d’aria (“se siamo così corrot-
ti e corruttori, perché usa i nostri strumenti di 
male?”): 
Perché queste sono le cose buone dell’Occidente. E non 
ne abbiamo paura e le usiamo. Noi non temiamo la vostra 
scienza e la vostra tecnologia, temiamo le vostre idee e i vo-
stri costumi. Il che significa che vi temiamo politicamente, 
socialmente. E vogliamo che il paese sia nostro, vogliamo 
che non interferiate nella nostra economia e nelle nostre 
usanze e nelle nostre faccende14.
Ma molte cose sono andate altrimenti da co-
me si potevano immaginare alcuni decenni or 
sono. I fondamentalisti musulmani si sono rive-
lati qualcosa di molto diverso da una forza tra-
dizionalista: anzi, essi sono nemici giurati delle 
tradizioni. Non solo di quelle altrui, come hanno 
dimostrato distruggendo i Buddha di Bamiyan, 
i colossi di Nimrud, le vestigia di Palmira: scem-
13 A. Riccardi, La civiltà del convivere, in Camdessus, Daniel, Eco, 
Riccardi, Islam e Occidente, cit., p. 27.
14 Fallaci, Le radici dell’odio, cit., pp. 296-297.
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74 “l’islam è una minaccia”
pi e delitti consumati all’ombra dell’alibi mono-
teistico e antidolatrico che spinge ai nostri gior-
ni altri gruppi fondamentalisti, non importa se 
musulmani o ebrei, ad auspicare la distruzionedelle Piramidi o delle moschee dell’Haram esh-
Sharif di Gerusalemme. I nuovi vandali hanno 
dimostrato di trovare nella venalità un argine 
alla loro barbarie: a Palmira, quel che si poteva 
trafugare e rivendere è stato risparmiato dal-
la distruzione. Ma l’ideologia islamistica, nelle 
sue differenti declinazioni, ha scoperto il suo 
volto nichilista che ha comunque la sua radice 
wahhabita, sia fra i talibani dell’Afghanistan sia 
fra i miliziani dell’IS. Chi in Occidente lamenta 
le persecuzioni dei cristiani e la distruzione delle 
chiese a torto attribuendo all’Islam la violenza 
distruttrice di un’ideologia politica nata dal suo 
seno e ammantata dei suoi simboli ma ad esso 
estranea ancorché intrinseca, ignora o finge d’i-
gnorare quel che ad esempio è accaduto perfino 
nella Città Santa dell’Islam, alla Mecca, dove 
sono stati demoliti santuari venerabili per dar 
luogo a edifici ispirati all’opulenta paccottiglia 
occidentalizzante: 
Tra gli edifici distrutti alla Mecca ci sono la casa di Kha-
dijah, moglie del Profeta, che ha lasciato il posto a dei bagni 
pubblici, e la casa di Abu Bakhr, compagno del Profeta e 
primo califfo, dove adesso c’è un hotel Hilton15.
15 “Esquire”, January 2011, cit. da Buttafuoco, Il feroce saracino, 
cit., p. 108.
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6. “islam e modernità sono inconciliabili” 75
Se i cristiani e le loro chiese sono vittime 
dei fondamentalisti musulmani, anche molti 
musulmani e molti loro sacri monumenti sono 
vittime della stessa furia: la fitna scatenata ormai 
da anni, che ha nei tiranni della penisola arabica 
i suoi promotori e mandanti e nell’Islam sciita 
il suo primario obiettivo, si esprime addirittura 
come sacrilega violazione della stessa legge di-
vina. Come ha nobilmente dichiarato – subito 
censurato dai media occidentali – a proposito 
del delitto del 7 gennaio 2015 il capo militare 
degli Hezbollah in Libano, Hassan Nasrallah: 
“Le vignette di ‘Charlie Hebdo’ offendono Allah, 
ma l’uccisione dei vignettisti offende ancora di 
più Allah”.
Ma se l’iconoclasmo e l’archeofobia fonda-
mentalisti sono disvalori ideologici rozzamente 
travestiti da pie virtù, accanto ad essi c’è dell’al-
tro: la passione per l’Occidente – che spingeva 
tra Cinque e Settecento sultani ottomani e shah 
safawidi prima e qajar poi a coprire d’oro e di 
onori gli ingegneri occidentali rudi e sporchi, 
che non sapevano né lavarsi né comportarsi, 
ma che nelle loro manacce custodivano i segreti 
costruttivi delle grandi velature mobili che per-
mettevano alle navi di manovrare controvento, 
dei preziosi orologi e dei possenti cannoni – 
sembra essere rinata o essersi mantenuta intatta 
oggi nelle città musulmane. E l’esempio-limite 
è, inaspettatamente per noi, proprio la Città 
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76 “l’islam è una minaccia”
Santa, La Mecca, inaccessibile agli infedeli ma 
non ai loro media. 
E allora, dietro l’impressionante marea di 
pellegrini biancovestiti e le vertiginose candi-
de rampe d’accesso ai santuari, dietro le mas-
se delle moschee e le guglie sottili dei minareti, 
s’intravede l’opulento scempio postmoderno: la 
città antica scomparsa, inghiottita dalle ardite 
svettanti torri dei lussuosi hotel per superricchi 
e, di notte, il lampeggiare di migliaia d’insegne 
pubblicitarie tra le quali, insieme con l’eterna 
onnipresente Coca-Cola, non è difficile distin-
guere quelle di Fendi, di Valentino, di Dolce & 
Gabbana, di Dior, di Gucci, di Trussardi, di Ar-
mani. Il centro di Baku, la perla nera del Ca-
spio (nera di petrolio), ha vie intere dedicate alle 
grandi griffes: ebbene, La Mecca lo batte. Certo, 
Dior non è rappresentato da Charlize Theron 
che fa il bagno nell’oro: se noi vediamo nel “velo” 
il segno dell’inferiorità della donna nell’Islam, i 
musulmani – ostilità per le immagini umane a 
parte – individuano nell’uso nel nudo femminile 
il segno dell’abiezione alla quale gli occidentali 
condannano per avidità le donne, sottoponen-
dole al loro desiderio e alla loro sete di guada-
gno. Ma l’immaginario della grande meta dello 
haj, del pellegrinaggio alla Santa Kaaba, è or-
mai quello della scintillante megalopoli il cui 
skyline, lasciatesi ormai dietro New York, San 
Francisco e Sidney, punta verso i modelli post-
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6. “islam e modernità sono inconciliabili” 77
moderni di Singapore, di Shanghai e di Hong 
Kong, avveniristici modelli occidentale d’O-
riente. “Al viaggiatore che esca dall’aeroporto 
di Dubai, Abu Dhabi o da quello di Doha, oggi 
non farebbe troppa meraviglia se ad attenderlo 
fuori ci fosse una navicella spaziale invece che 
un taxi”16. Se tale è il destino dell’Occidente, esso 
si squaglierà inghiottito da un Oriente più occi-
dentale di lui. 
L’amore per quel mondo decadente, che se-
condo i jihadisti pur si dovrebbe da parte mu-
sulmana detestare e denigrare, si spinge poi ben 
oltre, fino a invadere capillarmente i gusti del 
quotidiano, a partire per la voga travolgente dei 
McDonald’s e dei Kentucky Fried Chicken, tutti 
beninteso halal, ma di un halal piuttosto sospet-
to che per essere riconosciuto o, meglio, consi-
derato tale necessita di un “bollino” di garanzia 
ch’è divenuto un immenso business in grado di 
sdoganare come religiosamente puri dei prodot-
ti alquanto dubbi17. I ragazzi musulmani ricchi 
vanno matti per i capi firmati, per i balocchi tec-
nologici, ovviamente status symbol che finisco-
no per avere un valore etnoculturale oltre che 
socioeconomico. I film di stile hollywoodiano 
16 F. Caferri, Leggere fantascienza araba a Bagdad, “la Repubbli-
ca”, 3.10.2015. Gli autori arabi di fantascienza sono parecchi e ben 
quotati. 
17 L. Declich, L’Islam nudo. Le spoglie di una civiltà nel mercato 
globale, Roma, Jouvence, 2015. 
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78 “l’islam è una minaccia”
proposti da una holding qatariota e destinati a 
celebrare le glorie dell’antico Islam si fregiano 
magari della consulenza religiosa di telepredi-
catori fondamentalisti come il noto Yusuf al-Qa-
radawi, ma ostentano un immaginario occiden-
tale e orientalista del mondo musulmano con 
tanto di turbanti colorati e di affilate scimitarre. 
L’esistenza di questo “McIslam’s” può sfuggire 
per quel che riguarda La Mecca, interdetta ai 
non musulmani: ma è impudicamente eviden-
te in tutte le città del mondo musulmano e, in 
termini di mercati e di fatturato, è lungi dall’es-
sere ignota alle nostre imprese e al vasto bacino 
mediatico che le coinvolge. Per quale forma di 
strana schizofrenia, quindi, può resistere il cli-
ché dell’Islam estraneo e nemico rispetto all’Oc-
cidente? Come si direbbe a Roma, “ce so’ o ce 
fanno?”. 
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7. “Esiste un solo Islam”
Ma insomma, che cos’è, e dove va, l’Islam in 
questo nostro secolo ancor giovane, inaugura-
to dall’immagine paurosa del crollo delle Twin 
Towers? 
Noi diciamo l’Islam. Più corretto, come si è 
già detto, sarebbe forse parlare degli Islam. D’al-
tra parte, anche il cristianesimo e l’ebraismo si 
potrebbero – e forse si dovrebbero – declinare 
al plurale. Vanno comunque anzitutto richiama-
ti, nell’interesse della chiarezza di queste brevi 
note, alcuni dati fondamentali. La comunità dei 
fedeli musulmani, l’umma, si è scissa fin dal VII 
secolo in tre fondamentali confessioni – la sun-
nita, la sciita e la kharijita –, a loro volta distinte 
in scuole e in sette. 
Oggi la maggioranza dei musulmani, pari a 
circa l’85% dei credenti o di quelli che sociolo-
gicamente vengono ritenuti e computati dalle 
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80 “l’islam è una minaccia”
statistiche come tali in quanto nati in paesi a 
maggioranza musulmana, si dichiara “sunnita”: 
si riconosce cioè nella sunna, la “tradizione”, i 
cui strumenti canonici sono il Corano – il “Santo 
Libro” contenente la Parola di Dio: increato e 
coesistente con Lui – e le migliaia di hadith, cioè 
di “racconti” relativi ai dicta e ai facta del profe-
ta Muhammad, raccolti da numerositestimoni. 
Gli “sciiti” traggono invece la loro origine dal-
la shī‘a, il “partito” di ‘Ali, genero e cugino di 
Muhammad – considerato imam infallibile e 
capostipite di una serie di imam a loro volta in-
fallibili mediatori tra Dio e gli uomini –; essi ri-
conoscono il Corano ma rifiutano l’autorità de-
gli hadith e attendono la rivelazione dell’ultimo 
imam, quello nascosto (il mahdi), alla fine dei 
tempi. Dalla shī‘a si separò all’indomani della 
battaglia di Siffin del 657 la fazione puritana dei 
kharij, “quelli che sono usciti”: secondo i khari-
jiti il ruolo di khalifa, “califfo”, capo spirituale 
della comunità dei credenti e vicario del Profeta, 
va egualitariamente attribuito al migliore fra i 
credenti, qualunque siano la sua razza e il suo 
rango.
I sunniti si distinguono in quattro principali 
scuole giuridico-teologiche: i “malikiti”, forti so-
prattutto nel Maghreb; gli “shafi‘iti”, localizzati 
nell’Africa orientale; gli “hanbaliti” nella peniso-
la arabica; gli “hanafiti” tra Vicino Oriente e Asia 
centrale. Ma da un’antica scuola giuridica origi-
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7. “esiste un solo islam” 81
nariamente definita come “razionalista” e viva 
nel IX secolo, i “mu‘taziliti”, è derivato tra XIX 
e XX secolo il movimento riformista-radicale 
della salafiyya (da salaf, “ritorno alla religione 
delle origini”), che nello scorcio tra i due secoli si 
coagulò attorno all’imam Muhammad ‘Abduh e 
al suo riformismo (ishlah) espresso dall’univer-
sità coranica di al-Azhar in Egitto e mirante alla 
restaurazione della purezza della fede. Vanno 
inoltre tenuti presenti i “wahhabiti”, così chia-
mati dal loro fondatore Muhammad ibn ‘Abd al-
Wahhab (1703-1792), che preferiscono definirsi 
al-Muwahhidun (“seguaci dell’unicità divina”), 
insistono sulla necessità di un’adesione letterale 
al Corano e agli hadith e combattono radical-
mente qualunque forma di cedimento nei con-
fronti del carattere rigorosamente monoteista 
dell’Islam, secondo un atteggiamento dottri-
nale affine agli almohadi maghrebino-iberici 
(la parola che designa il quale è, appunto, l’i-
spanizzazione di al-Muwahhidun). I wahhabiti 
avversano altresì, considerandoli un cedimento 
al politeismo e all’idolatria, qualunque tipo di 
culto dei santi, di musica e di danza1. 
Nonostante il suo originario carattere rigoro-
samente misoneista, il wahhabismo si è fin dal 
Settecento collegato alla dinastia fondata dall’e-
miro Muhammad Ibn Sa‘ud e perciò in Occi-
1 Cfr. Bonacina, Eretici e riformatori d’Arabia, cit. 
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82 “l’islam è una minaccia”
dente detta “saudita”, che dagli anni Venti del 
secolo scorso domina l’Arabia, appunto, “Saudi-
ta” e, rivendicando una fede e un’etica formali 
e ufficiali ispirate alla rigorosa, immutabile tra-
dizione, spregiudicatamente utilizza al tempo 
stesso gli strumenti della tecnologia, della finan-
za e dell’informatica-telematica moderne.
Gli sciiti, dal canto loro, aderiscono princi-
palmente alla corrente “duodecimana”, che ri-
conosce una serie di dodici imam (da ‘Ali fino 
alla figura messianica di Muhammad al-Mahdi, 
scomparso nell’874, mai morto e che tornerà 
alla fine dei tempi), forti soprattutto in Iran (il 
90% della popolazione) e in Iraq (più del 50%). 
I “settimani” ammettono invece una serie di soli 
sette imam precedenti il mahdi: tra essi vanno 
ricordati gli “zaiditi” dello Yemen, e gli “ismaili-
ti” che divinizzano la figura dell’imam e lo con-
siderano il depositario del senso segreto (batin) 
del Corano. Tra i movimenti ismailiti più noti 
vanno ricordati i “carmati” del X secolo; i “fa-
timidi” fondatori di un califfato sciita nei secoli 
XI-XII; i “nizari”, molto noti anche in Europa 
tra XII e XIII secolo come “setta degli Assassi-
ni” e guidati oggi dall’agha khan che ha la sua 
sede privilegiata nella vallata dello Hunza tra 
India e Pakistan ed è leader riconosciuto di cir-
ca 300.000 fedeli presenti principalmente nel 
subcontinente indiano. Collegati agli ismailiti 
sono i “drusi”, il capostipite dei quali, il califfo 
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7. “esiste un solo islam” 83
fatimide al-Hakim, si presentò fra X e XI secolo 
quale incarnazione della Divinità ed è venerato 
come mahdi: le loro credenze presentano forti 
elementi neoplatonici (ad esempio l’idea di me-
tempsicosi) e le loro comunità sono oggi sparse 
tra Siria, Israele e soprattutto Libano. Dall’ima-
mismo duodecimano si separò fin dal IX secolo 
il movimento dei “nusayri”, o “alawiti”, caratte-
rizzato da una dottrina a carattere iniziatico che 
contiene elementi desunti dal cristianesimo e 
dallo zoroastrismo. Insediati in Siria soprattut-
to attorno alla città di Lattakia, gli “alawiti” vi 
fondarono nel 1922 uno Stato autonomo rico-
nosciuto sino alla fine del “mandato” francese su 
quella regione e ancor oggi vi hanno un ruolo 
(“alawita” è la famiglia del rais Assad). Comu-
nità sciite, per la maggior parte duodecimane, 
sono presenti in Azerbaijan, nel Bahrein, in 
Libano, nello Yemen e nella comunità degli ha-
zara in Afghanistan (2 milioni e mezzo circa di 
persone, di origine etnica uraloaltaica, insediate 
nelle montagne del centro del paese). Quanto ai 
kharijiti, essi sono ancora presenti soprattutto 
nel Maghreb (in Marocco e in Algeria). 
L’Islam contemporaneo è passato tra XX e 
XXI secolo attraverso una serie di mutamen-
ti – e, in qualche caso, di sconvolgimenti – che 
possono essere identificati prima in un tutto 
sommato breve periodo a cavallo tra secondo e 
terzo decennio del Novecento, quindi in due av-
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84 “l’islam è una minaccia”
venimenti-chiave. Anzitutto l’immediato primo 
dopoguerra, quando da una parte le “rivoluzioni 
laiche” e “occidentalizzanti” nell’impero ottoma-
no e in quello persiano, trasformatisi rispetti-
vamente in Turchia e Iran (in Turchia la ferrea 
volontà di Mustafa Kemal impose l’abolizione 
del califfato il cui titolo era stato rivendicato dai 
sultani), dall’altra il radicalizzarsi a cominciare 
dall’Egitto e dall’India di movimenti a caratte-
re pietistico-politico (che dagli anni Settanta si 
prese l’abitudine di definire impropriamente co-
me “fondamentalisti”, mentre oggi si preferisce 
il termine “islamisti”) che chiedevano il “ritorno 
al puro Islam”, determinarono una nuova forma 
di divisione all’interno dell’umma tra “estremi-
sti religiosi” e “moderati” che andò a sommarsi 
a quella, plurisecolare, tra sunna e shī‘a diffon-
dendosi in entrambi quegli ambiti e in parte 
mutandone i reciproci rapporti. Successivamen-
te, la rivoluzione islamica iraniana proclamata 
a Teheran nel febbraio del 1979 dallo ayatollah 
Khomeini. Infine, gli attentati dell’11 settembre 
2001 negli Stati Uniti d’America che segnarono 
l’inizio dell’epoca dominata nella politica e nella 
propaganda americana dal War against Terror, 
con episodi drammatici come gli attentati a Ma-
drid e a Londra e le invasioni in Afghanistan e in 
Iraq condotte da due differenti coalizioni milita-
ri in entrambi i casi decise e guidate dalla Casa 
Bianca, sotto la presidenza di George W. Bush jr. 
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7. “esiste un solo islam” 85
Già nel corso del Novecento, ma con maggior 
chiarezza dal 1979 e ancor più dal 2001 in poi, si 
era avuta l’impressione – in una qualche misura 
corrispondente a una pur semplificata realtà – 
che il mondo musulmano si andasse scindendo 
in due fronti. Da una parte, quanti ritenevano 
che ormai, dopo un complesso secolare dialogo 
caratterizzato da scambi e da scontri, si potes-
se avviare, attraverso un rinnovato e più franco 
dialogo tra l’Occidente/Modernità e l’Islam, un 
pur lento e difficile processo di confronto e di 
osmosi che avrebbe condotto all’affermazione 
di un Islam “liberale”. Dall’altra, quanti invece 
erano convinti che solo tornando a guardare a 
se stessa e a riscoprire i suoi antichi e originali 
caratteri la compagine dei credenti nella Leg-
ge coranica avrebbe saputo attingere a un’au-tentica rinascita, risollevandosi da quell’eclisse 
avviata nel Sei-Settecento e da molti ritenuta 
irreversibile. 
Si era intanto verificato un altro fenomeno 
lento ma qualificante, radicato nei secoli ma 
oggetto di una forte accelerazione negli ultimi 
decenni: il deep core del mondo musulmano, na-
to tra Vicino Oriente e bacino mediterraneo, si 
era andato spostando verso l’Asia, mentre anche 
parte del continente africano (totalmente il suo 
nord, meno profondamente il centro) era stata 
coinvolta in un’islamizzazione l’avvio della quale 
si era presentato a partire dalla metà del Nove-
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86 “l’islam è una minaccia”
cento anche in Europa e nei continenti ameri-
cano e perfino oceanico, a causa della diaspora 
dai paesi musulmani in quei continenti e della 
fondazione di molte comunità di migranti, alcu-
ne delle quali caratterizzate da una più o meno 
pronunziata carica missionaria. Proselitismo e 
incremento demografico hanno favorito e inco-
raggiato tale dinamica, che ai nostri tempi pro-
segue. Oggi, per quanto l’idioma arabo continui 
ad essere la “lingua sacra” dell’Islam e il suo fon-
damentale supporto linguistico sotto il profilo 
teologico e giuridico, la maggior parte dei fede-
li non è più etnicamente araba: dalla Turchia 
all’Iran alla vasta area eurasiatica che si estende 
dal Caucaso all’Indo Kush sino al Sud-est asia-
tico e all’Africa equatoriale, si è affermata una 
realtà islamica etnicamente parlando “nuova”, 
alla quale vanno aggiunti i circa 19 milioni di 
musulmani presenti in Europa su oltre 500 mi-
lioni di abitanti (cioè il 3,8% della popolazione 
globale) e i circa 3 milioni e mezzo di musulmani 
negli Stati Uniti (cioè l’1% della popolazione). 
Oggi il primo paese musulmano del mondo è 
l’Indonesia, con 203 milioni di abitanti: ma è 
sintomatico che, fino a pochi decenni fa, que-
sto paese veniva indicato come un modello di 
convivenza tra cristiani, musulmani, induisti e 
buddhisti che lo abitavano, mentre più tardi si 
è imposto come uno dei più violenti e pericolosi 
focolai di scontro etnoreligioso. 
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7. “esiste un solo islam” 87
Questi dati, evidentemente arrotondati e 
approssimativi sotto il profilo quantitativo, si 
riferiscono al 2012 e sono soggetti a una forte 
dinamica espansiva in termini sia assoluti, sia 
relativi. Teniamo infatti presente che, come det-
to, se il cristianesimo è la religione ancor oggi 
più diffusa nel mondo con oltre 2 miliardi di fe-
deli ripartiti nelle varie Chiese e l’Islam lo segue 
(mentre la terza religione più praticata al mondo 
dopo queste prime due, l’induismo, conta circa 
un miliardo di aderenti), il trend attuale presen-
ta una tendenza al ristagno nel mondo cristiano 
connessa sia con la regressione demografica e la 
sempre maggiore “laicizzazione” dell’Occiden-
te sia con la crescente ondata di forme varie di 
pressione, intimidazione e persecuzione in Asia 
e in Africa; si registrano invece un incremento 
del mondo musulmano per ragioni demografi-
che e proselitistiche e una sostanziale stabilità 
di quello induista che demograficamente a sua 
volta tende alla crescita, ma non fa proselitismo. 
Non va poi dimenticato il rapporto, già citato in 
precedenza, tra diffusione dei differenti culti e 
standard socioeconomico: una buona metà dei 
cristiani vivono tra Europa, America settentrio-
nale e Australia, vale a dire in aree nelle quali si 
concentra quella parte del genere umano, cal-
colabile in un numero non troppo superiore al 
15% circa della popolazione mondiale (vale a di-
re a poco più di un miliardo di persone su ormai 
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88 “l’islam è una minaccia”
quasi sette), che gestisce il 90% circa della ric-
chezza del globo terracqueo, mentre gran parte 
dei musulmani e tutti gli induisti sono insediati 
tra Asia e Africa, continenti che appartengono 
all’area nella quale vive il restante 85% degli abi-
tanti del globo, quelli che ne gestiscono il 10% 
circa. 
Tale sperequazione viene di solito sottovalu-
tata se non ignorata o, peggio ancora, nascosta 
dagli osservatori che s’impegnano nell’interpre-
tare il fenomeno delle nuove forme di “intol-
leranza” e di aggressività presenti nell’umma 
musulmana, addebitandone il carattere alla 
sostanza o alla genesi della fede coranica e di-
menticando sia l’incidenza sui suoi fedeli del 
disagio socioeconomico sia il senso di rancore 
e di rivalsa generato dalla conoscenza – sia pure 
spesso oscura e lacunosa – del processo di glo-
balizzazione che, dal Cinquecento in poi, han-
no determinato la straordinaria disuguaglianza 
oggi presente appunto tra chi detiene, gestisce e 
sfrutta le risorse del globo e chi ne è invece solo 
oggetto. 
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8. “I musulmani sono tutti uguali”
È tempo di giungere ad alcune brevi considera-
zioni desunte in modo più specifico dalla realtà 
contemporanea. Una buona data di partenza, 
a tale scopo, potrebbe essere rappresentata dal 
20 ottobre 1986 quando, a Karachi in Pakistan, 
venne costituito il “Consiglio internazionale del-
la da‘wa musulmana”; il suo presidente Sayyd 
Foudil Abadou precisò che lo scopo della da‘wa, 
cioè dell’appello alla promozione della fede 
al quale ogni musulmano è tenuto, “consiste 
nell’organizzar missioni per i non musulmani 
allo scopo di trasmettere nelle loro rispettive lin-
gue gli insegnamenti dell’Islam”. Sarebbe age-
vole riscontrare un sostanziale accordo meto-
dologico tra le intenzioni di cui è testimonianza 
la Costituzione dogmatica Lumen gentium del 
Concilio Vaticano II e quelle di cui si fa portatri-
ce la da‘wa: ma come ciò potrebbe condurre da 
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90 “l’islam è una minaccia”
una convergenza intenzionale a una concordia 
sul piano concreto, è inimmaginabile: anzi, la 
concorde intenzione missionaria apparirebbe 
entro certi termini difficile a comporsi, se non 
addirittura in contrasto, con le prospettive di 
dialogo. A nessuna religione si può d’altronde 
chiedere di rinunziare a parte della sua identità, 
cioè di perdere la sua intima natura, nel nome 
del dialogo tra diversi.
Se la strada del colloquio e del confronto tra 
cristiani e musulmani passa non attraverso una 
prospettiva “dialogica” che miri ad attutire e 
stemperare le differenze nel nome di una comu-
ne ispirazione genericamente irenica e umani-
taria delle due fedi (una soluzione, questa, che 
parrebbe piacere a taluni ambienti cristiani ma 
che incontra in genere resistenza e incompren-
sione nel mondo islamico proprio per il diver-
so grado di acquiescenza alla secolarizzazione 
occidentale e al suo carattere antropocentrico, 
rispetto al quale le due fedi hanno una posizione 
ben differente), bensì attraverso la sempre più 
chiara assunzione di coscienza delle rispettive 
identità – un modo migliore di salvaguardarle 
anziché quello che consiste nel denigrare quelle 
altrui – e dell’obiettivo legame tra loro esistente, 
quella del confronto con la Modernità deve ne-
cessariamente verificarsi attraverso la scoperta 
della relatività di qualunque posizione storico-
culturale, e, attenzione!, dico “relatività”, che 
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8. “i musulmani sono tutti uguali” 91
non coincide affatto con alcuna forma di “relati-
vismo”. Ma se a cristianesimo e Islam si chiede a 
cuor leggero di limitare e condizionare le conse-
guenze del fatto che esse si considerano religioni 
rivelate, è altrettanto facile e accettabile chiede-
re alla Modernità di rinunziar al presupposto di 
rappresentare il livello più alto di civiltà, di tro-
varsi cioè nel “senso” e nel “vento” della storia? 
Credenti e non credenti considerano semplice e 
naturale, poco più che un dettaglio, la domanda 
che essi rivolgono ai loro interlocutori; e al con-
trario inaccettabile e improponibile quella che si 
sentono rivolgere. Tutto ciò, in fondo, è logico: 
ma non consente un passo avanti sulla via della 
comprensione.
Arte difficile e dura disciplina,la compren-
sione. Essa s’impone sul serio solo allorché si 
rinunzia a partire dal presupposto che verità, 
ragione e natura riposino sui princìpi che veri, 
razionali e naturali ci paiono; e si accetta che 
altre “verità”, altre “nature”, altre “ragioni” si so-
no affermate e vigono altrove, sotto altri cieli, in 
culture diverse dalla nostra. E si sviluppa solo 
nella misura in cui si sottopongono i fenome-
ni che la storia ci presenta a un’analisi che va-
da al di là della loro apparenza. Prendiamo il 
cosiddetto fondamentalismo islamico, che a un 
editorialista del “New York Times” dell’inizio 
del 1994 sembrava si stesse rapidamente tra-
sformando nella principale minaccia alla pace 
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92 “l’islam è una minaccia”
e alla sicurezza globale: una minaccia parago-
nabile a quella rappresentata dal nazismo e dal 
fascismo negli anni Trenta e dal comunismo ne-
gli anni Cinquanta. Dalla parte di chi si ritiene 
sicuro che i valori positivi del XX secolo siano 
stati espressi tutti e soltanto da quello che negli 
anni della guerra fredda veniva definito il “Mon-
do Libero”, è certamente così. Ma esistono molti 
Islam, dal Maghreb al Sud-est asiatico (a parte 
le comunità sparse letteralmente in tutto il mon-
do), e molti modi di essere musulmani; e adesso 
si presentano anche differenti dimensioni della 
concreta esperienza di esso: “l’Islam-cultura”, 
“l’Islam-rifugio”, “l’Islam-alternativa”, “l’Islam-
protesta”, perfino “l’Islam-business”. In quali di 
questi s’inquadra il fenomeno dell’esigenza del 
rigore religioso, espressa in termini neotradi-
zionalisti o in termini radicali? Dall’Algeria al-
la Turchia al Pakistan si è di recente constatato 
come sovente il collante religioso tenga insieme 
esigenze sociali insoddisfatte e forme varie di 
reazione a governi illiberali che non lo sono di 
meno per il fatto di essere filoccidentali. Da noi, 
si usa scandalizzarsi molto per la condizione 
d’inferiorità della donna nel mondo islamico: 
eppure essa è molto più pronunziata in paesi 
alleati e “amici” dell’Occidente come l’Arabia 
Saudita – per quanto di recente il rapporto fra 
essa e gli stessi USA si sia fatto ambiguo e com-
plesso – o l’Algeria (che, nonostante il colpo di 
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8. “i musulmani sono tutti uguali” 93
Stato che nel 1991 ha impedito agli integralisti 
del Fronte Islamico di Salvezza di ascendere al 
governo, ha mantenuto il codice di famiglia del 
1984, rigorosamente ispirato alla sharī‘a) che 
non in Iran, dove la rivoluzione khomeinista ha 
sempre rivendicato un ruolo attivo della donna 
nel mondo del lavoro e della partecipazione alla 
vita politica.
Quello della posizione della donna, con le re-
lative contraddizioni in cui gli occidentali cado-
no nel considerarla, è solo uno fra i molti esempi 
possibili dei rischi ai quali conduce una valuta-
zione aprioristica e schematica di questi proble-
mi. Giovi ricordare che oggi l’Islam si presenta 
distinto in due grandi aree geoculturali: la pri-
ma che si potrebbe considerare il vero e proprio 
dar al-Islam, dov’esso è prevalente o maggiori-
tario, o addirittura quasi esclusiva presenza; e 
la seconda, dov’esso è minoritario, “in diaspora”, 
ma in via di sviluppo e di consolidamento.
Vediamo la prima: le regioni a maggioranza e 
a cultura in tutto o in gran parte islamica sono, 
geograficamente parlando, nove. Anzitutto la 
penisola arabica, caratterizzata essenzialmente 
da varie monarchie a cominciare da quella sau-
dita, portatrice del movimento wahhabita, asso-
lutamente rigorista ed esportatrice per giunta di 
quei “guerrieri-missionari” che, dopo il jihad in 
Afghanistan ai tempi dell’occupazione sovietica, 
sono stati animatori di vere e proprie “brigate 
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94 “l’islam è una minaccia”
internazionali” musulmane nei Balcani e quin-
di sostenitori dei talibani dell’Afghanistan per 
finir con il costituire il nucleo della galassia ter-
roristica di al-Qaeda; in molti emirati arabi del 
Golfo, il sovrano di credo sunnita e amico de-
gli statunitensi e degli occidentali regna su una 
popolazione in parte sciita che guarda all’Iran. 
Poi la “mezzaluna fertile”, dove gli sciiti sono una 
cospicua presenza (55% in Iraq, 25% in Libano, 
18% in Siria), mentre numerosi sono anche gli 
arabi cristiani e forte la conflittualità, che negli 
ultimi anni ha favorito il crescere delle organiz-
zazioni estremistiche. Quindi l’Africa sahariana, 
dove i gruppi tradizionalisti sunniti sono ogget-
to di una certa repressione governativa (come 
in Egitto o in Algeria), mentre altrove (come 
in Mauritania e in Sudan) il governo persegue 
una linea politica ispirata a un Islam più duro. 
Segue la fascia centrale africana, dove l’Islam è 
maggioritario (Somalia, Gibuti, le Comore) o 
in posizione di consistente minoranza (Etiopia, 
Tanzania, Camerun, Mozambico), ma sovente 
contaminato da locali tradizioni animiste. 
Esiste anche un “Islam europeo” (o, per me-
glio dire, una “Europa musulmana” ch’era già 
presente quando si è avviata, a partire dall’ul-
timo quarto del secolo scorso, la più massiccia 
diaspora di genti islamiche dall’Asia e dall’Afri-
ca settentrionale alla volta dell’Europa): in Al-
bania, in Bosnia-Erzegovina, nella Repubblica 
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8. “i musulmani sono tutti uguali” 95
Federale Russa, nella Turchia “europea” vi sono 
musulmani discendenti di immigrati o di con-
vertiti del tempo delle dominazioni turco-otto-
mana o tartara dell’“Orda d’Oro”; vi sono poi 
gli immigrati di vecchia data ormai largamente 
integrati (come algerini, tunisini e marocchini 
in Francia e turchi in Germania, ai quali si sono 
aggiunti quelli in cerca di lavoro o profughi per 
ragioni politiche o per sfuggire ai conflitti dai 
vari paesi musulmani); a tutto ciò vanno infine 
aggiunte alcune decine di migliaia di euro-occi-
dentali convertiti di recente.
Consideriamo che gli attentatori del 7-9 gen-
naio e del 13 novembre 2015 a Parigi erano tutti 
cittadini francesi o belgi, comunque nati o resi-
denti in Europa. Ad essi vanno aggiunti altri eu-
ropei, i foreign fighters che partono per il Vicino 
Oriente. Perché mai un giovane occidentale può 
decidere di abbandonare la civiltà del benessere 
e dei diritti dell’uomo per abbracciare una fede 
violenta e fanatica, lontana – anzi opposta – al 
modo di vivere e di pensare nel quale è nato? 
Una risposta potrebbe stare nella sostanza stes-
sa del mondo moderno come luogo della ricerca 
della felicità: essa, cercata ma non trovata, ren-
de fatalmente infelici. E si scopre allora, ancora 
una volta, che noi non siamo quello che diciamo 
di essere, non ci comportiamo in conseguenza 
di quelli che sono a nostro dire i nostri princì-
pi e i nostri valori. Quando tale consapevolezza 
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96 “l’islam è una minaccia”
fa corto circuito con uno stato di delusione o di 
frustrazione personale, può sembrare non poi 
così assurdo l’abbandono del paradiso dei con-
sumi, che magari ci ha visto modesti e marginali 
fruitori di esso, a vantaggio del paradiso all’om-
bra delle spade.
Dal punto di vista politico-religioso è parti-
colare il caso dell’Iran, governato dal 1979 da un 
sistema repubblicano ispirato allo sciismo duo-
decimano che sposa tratti gerarchico-teocratici 
a tratti ispirati a un’ardita e diffusa democrazia 
assembleare, con il dichiarato obiettivo di elimi-
nare tutte le distorsioni e gli inquinamenti subi-
ti dalla fede durante il periodo occidentalizzante 
e modernizzante della monarchia Pahlavi che si 
appoggiava al docile quietismo della gerarchia 
teologico-giuridica degli ayatollah. La massi-
ma autorità della repubblica è oggi il Velayat-i 
Faqih, l’“Autorità del Giurisperito”, che veglia 
sulla piena applicazione della sharī‘a sulla qua-
le il diritto musulmano senza dubbio si fonda 
ma che – attenzione! – è ben lontano dall’esau-
rirsi in essa. In Asia centrale, sono musulmani 
l’Azerbaijan, il Turkmenistan, l’Uzbekistan,il Kazakhstan, il Kirghizistan (tutti di ceppo 
turco-tartaro), nonché il Tajikistan e l’Afghani-
stan (di ceppo indoeuropeo, affine al persiano); 
musulmani sono, ancora, gli uiguri della pro-
vincia cinese del Xinjiang. Nel subcontinente 
indiano i musulmani ascendono a quasi 300 
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8. “i musulmani sono tutti uguali” 97
milioni e fra essi c’è una forte minoranza scii-
to-ismailita, cioè sciito-settimana. La maggior 
parte dei musulmani sono confluiti nel Pakistan 
dopo la fine del dominio inglese, ma circa 80 
milioni sono rimasti in India. Infine, nel Sud-est 
asiatico, l’Islam è penetrato – specie in Indocina 
e in Malesia – attraverso le rotte commerciali.
Nel mondo tradizionalmente estraneo al dar 
al-Islam, i musulmani sono presenti in quattro 
forme: come emigrati in cerca di lavoro; co-
me discendenti – magari di seconda o di terza 
generazione – di emigrati di vecchia data, che 
hanno ormai acquisito la cittadinanza dei paesi 
nei quali sono insediati e dove si trovano abba-
stanza, molto o perfettamente a loro agio; come 
nuovi proseliti, nelle loro terre d’origine poco o 
per nulla interessati alla propria fede ma che, 
venendo da noi e trovandosi magari isolati, op-
pure essendosi imbattuti in qualche imam cari-
smatico o in qualche centro di propaganda isla-
mista (magari in un carcere dov’erano finiti per 
crimini comuni), hanno sviluppato una fede dai 
connotati nuovi e diversi rispetto a quella che 
conoscevano in patria, una fede attiva e proseli-
tistica; infine come cittadini locali, “occidentali” 
e magari “cristiani”, che si sono convertiti (e qui 
bisognerà valutare caso per caso caratteri e qua-
lità della loro conversione).
Nell’Europa occidentale bisogna distinguere 
tra paesi di antica immigrazione (turchi e ira-
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98 “l’islam è una minaccia”
niani in Germania; nordafricani e siro-libanesi 
in Francia; indiani, pakistani e indonesiani in 
Inghilterra), dove le comunità sono già in parte 
integrate e organizzate, e aree di immigrazione 
più recente, come Spagna e Italia stessa. Negli 
Stati Uniti d’America l’Islam ha acquistato un 
carattere pronunziatamente connesso con la 
protesta della minoranza afroamericana, come 
si vede nel movimento dei Black Muslims, fon-
dato nel 1930 ma sviluppatosi soprattutto negli 
anni Sessanta. Nell’America centrale e meridio-
nale la presenza islamica è scarsa, mentre una 
certa consistenza è raggiunta dall’emigrazione 
arabo-cristiana, i cui rapporti con gli arabo-
musulmani sono complessi; laddove in Guyana 
la presenza islamica raggiunge il 10% e in Suri-
name il 22%.
Dopo l’11 settembre 2001 e l’avvio di quella 
che è stata chiamata War against Terror, è di-
venuto tuttavia progressivamente chiaro che in 
nessun modo si può parlare di scontro di civiltà. 
La stragrande maggioranza dei musulmani de-
sidera una pacifica convivenza con gli “occiden-
tali”, che del resto è lungi dal considerare estra-
nei dato che ormai quella che di solito si usa de-
finire – molto genericamente e impropriamente 
– “civiltà occidentale” è divenuta la nuova koinè 
diálektos del mondo intero. Va però da sé che, 
come più volte è stato segnalato con lucidità ed 
energia esemplari da Giovanni Paolo II, la mi-
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8. “i musulmani sono tutti uguali” 99
seria e l’ingiustizia che coinvolgono i quattro 
quinti della famiglia umana sono purtroppo il 
vero brodo di coltura del terrorismo: e la recente 
politica di guerra inaugurata dal governo statu-
nitense e dai suoi alleati nel Medio e nel Vicino 
Oriente non ha fatto che portar acqua al mulino 
di quanti hanno interesse a dimostrare che l’Oc-
cidente “dei crociati” – come Usama bin Laden 
amava e il califfo al-Baghdadi ama definirlo – è 
in blocco nemico dell’Islam. Come spesso ac-
cade, gli opposti estremismi si sostengono e si 
giustificano a vicenda: quello fondamentalista 
e terrorista islamico ha trovato un perfetto sup-
porto nell’unilateralismo aggressivo teorizzato 
dai gruppi d’intellettuali e di politici americani 
cosiddetti “neoconservatori”, e viceversa. 
Né il fronte islamico è compatto. L’eteroge-
neità delle provenienze etniche, delle posizioni 
confessionali e culturali, delle convinzioni poli-
tiche dei musulmani immigrati in Occidente fa 
sì che lo scenario nel quale essi si muovono sia 
estremamente variegato. Ad esempio in Italia, 
mentre alcuni musulmani osservanti preferi-
scono la scuola laica in quanto si sentono me-
glio tutelati contro la possibilità di un indottri-
namento cattolico dei loro figli, altri non meno 
religiosamente sensibili optano per quella cat-
tolica preferendo un insegnamento basato su 
una visione etica e religiosa del mondo a uno 
che esponga i loro giovani al materialismo, al 
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100 “l’islam è una minaccia”
consumismo, all’assenza di valori morali. Anche 
rispetto alla stessa natura dell’Islam, forte tra gli 
intellettuali musulmani è il dibattito tra coloro 
che insistono sulla “autenticità”, sottolineando 
quanto sia necessario aderire ai valori religio-
si originari e tradizionali, e coloro che invece 
pongono l’attenzione sulla “contemporaneità”, 
convinti che la fede coranica abbia in sé tutti gli 
elementi per affrontare i problemi del presente.
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9. “Il Corano è un libro di guerra”
Ma per capire una buona volta che cosa sia dav-
vero l’Islam, basta o no leggere o rileggere il 
Corano? E in che lingua poi, dal momento che 
esso è per i musulmani la Parola di Dio e rap-
presenta quindi la base “classica”, codificata una 
volta per tutte, della lingua araba ed è in quan-
to tale intraducibile poiché notoriamente ogni 
traduzione è anche un’interpretazione, quindi 
obiettivamente un “tradimento”? In Turchia, la 
rivoluzione kemalista ha imposto la recitazio-
ne del Libro Santo tradotto appunto in turco, 
e forti da allora sono state le sollecitazioni e le 
istanze in tal senso in tutto il mondo musul-
mano: ma i movimenti fondamentalisti si sono 
duramente opposti a questo tipo di esigenze. 
Comunque naturalmente le traduzioni del Co-
rano praticamente in tutte le lingue del mondo 
– promosse e autorizzate o no da istituzioni o da 
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102 “l’islam è una minaccia”
sodalizi proselitistici musulmani – sono moltis-
sime e l’inglese tende a divenire ormai la koinè 
diálektos dell’Islam mondializzato. Nel Nove-
cento, tanto nella Turchia kemalista quanto nei 
paesi musulmani dell’Unione Sovietica anche 
l’alfabeto arabo è stato sostituito da quello latino 
o cirillico: ma attualmente i gruppi fondamen-
talisti stanno incoraggiando in molti paesi asia-
tici un ritorno ai caratteri arabi – sia pure per 
scrivere, naturalmente, nelle varie lingue locali 
– in evidente segno di devozione nei confronti 
della tradizione musulmana. 
Trasmesso oralmente fin dai primordi dell’I-
slam, memoria delle recitazioni del Profeta im-
parate a memoria e tramandate dai suoi compa-
gni, il Corano si presenta ai fedeli come Parola 
di Dio immutabile e definitiva: è il Verbum, ciò 
che nel Prologo del Vangelo di Giovanni è apud 
Deum, ed Esso stesso Deus. Se il cristianesimo 
è la fede in un Uomo, il Verbo incarnato, Gesù 
Cristo, l’Islam è la fede in una narrazione consi-
derata la Parola, il Verbo di Dio fatto Libro. Ma 
non è un codice giuridico come la Torah ebrai-
ca, non è propriamente una raccolta di cronache 
storiche e di componimenti profetici o escato-
logici come i vari libri (tà Biblìa, appunto, in 
greco) raccolti nella Bibbia. Il Corano presenta 
il magistero globale affidato dal Creatore ai cre-
denti e destinato a regolare per intero tutta la 
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9. “il corano è un libro di guerra” 103
loro vita. La sua autenticità, come accade per il 
dogma cristiano, è solo una questione di fede. 
Tra 644 e 656 d.C. una commissione di sag-
gi riunita dal terzo califfo, ‘Uthman, ne mise a 
punto una versione a quelpunto ritenuta uffi-
ciale e definitiva: tutte quelle precedenti, con le 
loro relative variabili, furono distrutte. La “vul-
gata” di ‘Uthman sopravvisse fino all’VIII seco-
lo, ma era grammaticalmente molto imperfetta 
e fu progressivamente emendata mentre le dif-
ferenti scuole coraniche discutevano gli aspet-
ti normativi del testo: finché, nel X secolo, la 
portata dell’ijtihad – lo sforzo di comprensione 
testuale e di applicazione giuridica, l’“esegesi” – 
venne fortemente limitata, per riprender forza 
in seguito. Ma metter mano al sacro testo, sia 
pure per emendarlo, era impossibile: se le Scrit-
ture ebraica e cristiana erano certo ispirate da 
Dio, ma in varia misura inquinate dalla mano 
dell’uomo, il Corano si proclamava esente da 
tale contaminazione e quindi perfetta, intangi-
bile Parola divina. Come applicare a quel testo 
venerabile i metodi brutali e le empie categorie 
dell’esegesi? 
Ai giorni nostri, quanti intendono in qualche 
modo riformare il diritto musulmano sostengo-
no la necessità dell’elaborazione di una nuova 
metodologia esegetica, di una nuova ijtihad. 
Questo è forse uno dei centri del problema co-
stituito dal rapporto tra le istanze tese a “moder-
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104 “l’islam è una minaccia”
nizzare l’Islam” e quelle volte invece a “islamiz-
zare la Modernità”. 
Del Corano esistono molte traduzioni mo-
derne: taluna divenuta “classica”, come quella 
in italiano del grande iranista Alessandro Bau-
sani ch’era un convertito alla fede baha’i. Una 
di esse, quella dignitosamente condotta e anno-
tata dal buon salesiano Cherubino Mario Guz-
zetti, è stata riproposta nel marzo del 2015 da 
un quotidiano milanese che l’ha offerta ai suoi 
lettori con l’introduzione di un giornalista che 
si qualifica come un convertito dall’Islam al cri-
stianesimo1. La perorazione del commentatore, 
esplicitamente e dichiaratamente molto severa 
nei confronti dell’Islam e del suo testo sacro, ha 
un esito che potrebbe sorprendere (e che è, inve-
ce, del tutto logico): il suo assunto islamofobico 
– fondato sul solito principio secondo il quale un 
“Islam moderato” non esiste e l’Islam autentico 
è solo quello propagandato dai tagliagole – pre-
senta un Islam ch’è appunto il medesimo imma-
ginato e proclamato dai peggiori fondamentali-
sti. Una volta di più, e come al solito, gli estremi 
si toccano: anzi, si giustificano, si legittimano e 
si sostengono a vicenda. 
Passiamo in rassegna alcune tra le più comuni 
1 Ringrazio l’amico Paolo Branca, uno dei più illustri arabisti e 
islamologi italiani, che su mia richiesta ha esaminato quella pro-
posta editoriale: le osservazioni che seguono sono frutto di quanto 
egli ha indicato.
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9. “il corano è un libro di guerra” 105
argomentazioni di chi sostiene che il Corano è un 
libro di guerra, testo sacro di una religione feroce 
i fedeli della quale sono – a vario e differente li-
vello – o dei fanatici, o degli ignoranti, o degli ipo-
criti, o un variegato miscuglio di queste tre cose.
La Fātiha, la breve “Sura Aprente” che in-
troduce alla lettura del testo e che i musulmani 
osservanti ripetono cinque volte al giorno nella 
preghiera canonica, conterrebbe una condanna 
nei confronti degli ebrei e dei cristiani. Non è 
vero: essa, che si può far risalire ai primissimi 
tempi della predicazione del Profeta, tende a 
presentare l’Islam in continuità con i precedenti 
monoteismi abramitici – ebraismo e cristianesi-
mo, appunto – nella prospettiva di una dura po-
sizione avversa a qualunque sorta di politeismo e 
d’idolatria. Vero che, nella controversistica mu-
sulmana, i cristiani sono spesso polemicamente 
indicati come politeisti in quanto “adoratori del-
la Trinità”: ma posizioni del genere non riguar-
dano né il Corano, né gli hadith. Negli ambienti 
fondamentalisti dei giorni nostri, nei quali la 
conoscenza e l’osservanza del Corano – anzi, in 
genere la religiosità – sono molto dubbie, si ten-
de a rispolverare l’accusa di politeismo rivolta 
ai cristiani. I nostri “dotti islamofobi” (spero mi 
sarà per una volta perdonato l’ossimoro) colgo-
no la palla al balzo allineandosi una volta di più 
al parere degli jihadisti più arrabbiati. 
I sagaci esegeti del “cattivo Corano” conti-
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106 “l’islam è una minaccia”
nuano facendo osservare che Allah non sarebbe 
stato “inventato” da Muhammad – dal momento 
che la tesi di una Rivelazione del Dio di Abramo 
indirizzata al cammelliere Muhammad è scar-
tata in partenza – bensì sarebbe un dio, magari 
concepito come unico ma nell’ambito di una “re-
ligione naturale”, come la chiamano gli storici e 
gli antropologi delle religioni, e non il Dio onni-
potente e creatore (quello di Abramo, di Mosè e 
di Gesù). Ci troveremmo in altri termini di fron-
te a un credo connesso con una dimensione mi-
tico-immanentistica, non storico-trascendente, 
ed estraneo a quella Rivelazione abramitica alla 
quale pur si richiama. Individuare una continui-
tà tra religione sincretistica del mondo arabo 
preislamico e fede musulmana sulla base della 
continuità onomastica del termine Allah (stret-
tamente affine all’ebraico El-Elohim) sarebbe 
come accusare i cattolici, che sulle facciate del-
le loro chiese mantengono spesso la sigla DOM 
(Deo Optimo Maximo) desunto dalla formula 
dedicatoria pagana dei templi in onore di Zeus-
Juppiter, di aderire in realtà a un qualche culto 
criptoneopagano; oppure di accusare d’idolatria 
Dante, che nella Divina Commedia chiama una 
volta Gesù con l’appellativo di “Sommo Giove”.
Il Corano, inoltre, sarebbe contraddittorio: 
direbbe tutto e il contrario di tutto. Non è ne-
cessario essere un esperto in storia dei testi sacri 
o un fenomenologo delle religioni per sapere che 
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9. “il corano è un libro di guerra” 107
questo tipo di problemi è costante nelle Scrit-
ture rivelate e connaturato ad esse. Che poi le 
“contraddizioni” siano effettive o solo apparen-
ti, è solo un’attenta e accurata indagine storica, 
filologica, glottologica, antropologica e sovente 
addirittura archeologica che può dircelo.
Il messaggio coranico parlerebbe solo o so-
prattutto di guerra agli “infedeli”. Paolo Branca 
ha contato solo 26 versetti (per giunta decon-
testualizzati) su oltre 6.000 che parlano di ciò. 
L’annientamento di ebrei e di cristiani è pari-
menti trattato solo in 16 versetti, anch’essi de-
contestualizzati. 
Ma la requisitoria dei distruttori del Cora-
no continua: Allah e Muhammad sono conce-
piti come capi militari quasi sullo stesso piano 
(il che è una pura bugia) e impegnati entrambi 
fianco a fianco nella lotta contro i miscredenti. 
Chi ha letto soprattutto (ma non solo) l’Esodo, i 
Libri dei Re, i Salmi e l’Apocalisse conosce be-
ne il Dio degli Eserciti, il Distruttore dei nemici 
d’Israele, l’Emanuele che significa Dio-con-noi 
(espressione che i cristiano-evangelici re di 
Prussia scrissero sulle loro bandiere, Gott mit 
uns, e motto che i soldati della Wehrmacht por-
tavano ancora inciso sulle fibbie dei cinturoni). 
Questo Dio guerriero non è certo monopolio dei 
musulmani2.
2 Cfr. D. Tessore, La mistica della guerra, Roma, Fazi, 2003. 
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108 “l’islam è una minaccia”
Inoltre, il libro propagandato dal Profeta 
sarebbe anche licenzioso (ecco una vecchia ac-
cusa, che riprende la controversistica cristiana 
tradizionale): il Profeta – che una gentile si-
gnora, manager “prestata” alla politica e dive-
nuta poi pasionaria dell’estrema destra dell’era 
berlusconiana, ebbe finemente a definire in TV 
“un pedofilo” – avrebbe avuto diritto a ben nove 
mogli, cinque in più del normale musulmano 
(che molti paesi islamici oggi addirittura proi-
biscano la poligamia e che ciò non sia sentito 
affatto come un tradimento all’Islam, è cosa che 
non ha evidentemente alcun peso). Correlato a 
ciò, ecco l’immancabile conteggio dei soprusi e 
delle violenze che nelle società musulmane sono 
inflittialle donne: che viceversa, in altre società, 
ne sono beatamente e notoriamente immuni.
Ancora, l’immaginario coranico riguardo 
all’Aldilà nelle sue varie forme sarebbe una 
grossolana parata di piaceri materiali. Anche 
qui, com’è noto, il Libro Santo dei musulmani è 
alquanto in buona compagnia: e da tempo. 
In termini di storia delle religioni abbiamo 
imparato ad aver a che fare con simboli, allego-
rie, analogie, metafore. Tutto ciò non scalfisce 
l’adamantina (ma anche coriacea) cotenna dei 
nostri esegeti. 
Sul problema della schiavitù, allo stesso mo-
do, parrebbe che il Corano fosse l’unico testo re-
ligioso a legittimarla. Si potrebbe andar avanti a 
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9. “il corano è un libro di guerra” 109
lungo di questo passo. Ma osservazioni rapsodi-
che come queste bastano a farci capire dinanzi 
a che tipo d’interlocutori ci troviamo. 
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10. “Europa e Islam sono nemici 
da sempre”
Le vicende successive all’11 settembre 2001 e ai 
tumultuosi eventi dell’ultimo quindicennio, fino 
alla nascita dello “Stato islamico” del califfo al-
Baghdadi e a tutto quel che ancora è in corso, 
hanno fatto riemergere una serie di pregiudizi 
che in realtà si erano già risvegliati progressi-
vamente a partire almeno dal 1979, vale a di-
re dall’anno della fondazione della repubblica 
islamica dell’Iran, ma che prima di allora erano 
sembrati, almeno fin dal primo Ottocento, di-
menticati o letargizzati. Fra questi, primo di tut-
ti anche se non forse più grave, quello secondo il 
quale Europa e Islam sarebbero dei “nemici sto-
rici” geopoliticamente se non metastoricamente 
destinati a scontrarsi. Tale pregiudizio è frutto 
di una visione storica distorta, superficiale e 
retorica, che privilegia la storia delle guerre (se 
non addirittura delle battaglie: Poitiers, Lepan-
to e così via) dimenticando di contestualizzare 
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10. “europa e islam sono nemici da sempre” 111
gli episodi bellici in un ricco e profondo conti-
nuum fatto di positivi e stretti rapporti econo-
mici, commerciali, culturali, diplomatici.
Altro pregiudizio è che l’Islam si sia sempre e 
comunque imposto solo con la forza guerriera: 
qui siamo per la verità dinanzi, piuttosto che a 
un pregiudizio, a una menzogna alla quale alcu-
ni pubblicisti o pseudostorici hanno di recente 
aggiunto l’altra, ridicola, secondo la quale il cri-
stianesimo (o addirittura l’Occidente, cristiano 
o postcristiano che fosse e che sia) si sarebbe al 
contrario dilatato sempre e soltanto grazie al-
la pacifica proposta agli altri dei propri positi-
vi modelli (la pace, la tolleranza, le democrazia 
rappresentativa, il progresso tecnologico).
Vediamo d’intenderci. Nella vulgata pseu-
dostorica diffusa dagli islamofobi (e per molti 
politici e pubblicisti l’islamofobia sembra ormai 
diventata una professione), la storia dei rapporti 
tra mondo occidentale e Islam è in sintesi rias-
sumibile in tre grandi ondate offensive, sempre 
scatenate dai musulmani assetati di conquista 
e decisi a convertirci e alle quali gli europei 
avrebbero puntualmente risposto animati dalle 
sacrosante ragioni della legittima difesa (le cro-
ciate medievali e le guerre antiturche del Me-
diterraneo sarebbero state la replica difensiva a 
quelle forsennate di natura offensiva)1. La pri-
1 Rimandiamo per questo a F. Cardini, Il califfato e l’Europa. Dalle 
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112 “l’islam è una minaccia”
ma ondata si sarebbe avuta nell’Alto Medioevo 
e sarebbe stata respinta dal movimento crocia-
to; la seconda, quella turca ottomana, tra XV e 
XVIII secolo, sarebbe stata contenuta e respinta 
dall’unanime sforzo degli europei (la battaglia 
di Lepanto nel 1571, i due falliti assedi ottomani 
di Vienna nel 1529 e nel 1683); la terza, dislocata 
secondo una tecnica “a tenaglia” le due ganasce 
della quale sarebbero le migrazioni e il terrori-
smo jihadista, sarebbe infine quella ancora in 
corso. Un percorso chiaro, limpido, razionale, 
facile da capirsi e da ricordarsi. Che però ha un 
solo difetto: non funziona. È un ridicolo esca-
motage. Una solennissima bufala. Vediamo di 
rimettere un po’ le cose al loro posto. 
La marea islamica dilagò tumultuosa tra VII 
e X secolo dall’Arabia al Maghreb e alla Spagna 
a ovest, all’India e all’Asia centrale a est, all’Ana-
tolia a nord, ai confini dell’Etiopia a sud, travol-
gendo ogni ostacolo, nonostante le lotte e gli sci-
smi all’interno dell’umma: sommerse e cancellò 
a nord-est l’impero persiano, giungendo fino 
all’Indo e al Syr Darja; occupò la Siria e la Cili-
cia bizantine mentre, con una rapida campagna 
tra 640 e 647, invadeva Egitto e Libia e da lì si 
portava con un ulteriore balzo sino al Marocco. 
Ai primi dell’VIII secolo la costa settentrionale 
crociate all’ISIS: mille anni di paci e guerre, scambi, alleanze e 
massacri, Torino, UTET, 2015. 
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10. “europa e islam sono nemici da sempre” 113
dell’Africa era interamente musulmana e le fie-
re popolazioni berbere, già restie ad accettare il 
cristianesimo, islamizzate: quello sarebbe stato 
per gli arabi il “Maghreb”, l’Occidente. Sappia-
mo bene che, tanto nel caso dell’impero bizanti-
no cristiano quanto in quello dell’impero persia-
no mazdaico, l’Islam giunse a risolvere una serie 
di conflitti interni: le popolazioni, stanche della 
tirannia o della decadenza dei vecchi sistemi, ac-
colsero i musulmani come liberatori e spesso si 
convertirono alla loro fede o comunque ne accet-
tarono l’egemonia, ben più mite di quanto non 
fosse stato, ad esempio, l’impero bizantino che 
trattava i cristiani del Vicino Oriente e dell’Egit-
to, la maggioranza dei quali era inquadrata nella 
Chiesa monofisita o nestoriana, come eretici e 
di conseguenza come ribelli, imponendo loro 
pesanti tasse e costringendoli a subire umilia-
zioni e deportazioni. La condizione di dhimmi, 
soggetti ai musulmani, che comportava come 
vedremo il pagamento d’imposte sopportabili e 
qualche restrizione nel campo civile, era per i 
cristiani orientali di gran lunga più sopportabi-
le del dispotismo bizantino. Altro che conquista 
solo “con la spada”, secondo un semplicistico e 
ingiustificato cliché molto diffuso, ohimè, anche 
a livello d’insegnamento scolastico! La conver-
sione dei popoli pagani al cristianesimo, dal V 
secolo in poi, è stata ben più violenta e sangui-
naria: dalle persecuzioni di età posteodosiana 
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114 “l’islam è una minaccia”
alle campagne militari-missionarie carolinge e 
ottoniane in Occidente e dei bizantini durante 
la dinastia macedone dei secoli X-XI, sino alle 
campagne dei cavalieri teutonici contro slavi e 
balti, quindi ai conquistadores spagnoli e ai ban-
deirantes portoghesi in America latina e, infine, 
alle stragi dei coloni francesi, inglesi, tedeschi, 
belgi e olandesi in Asia e in Africa fra XVI e XX 
secolo. 
Ma torniamo all’Islam che si espandeva dal 
Maghreb verso sud, oltre l’Atlante, sino a sfio-
rare la grande curva del Niger, mentre una spe-
dizione arabo-berbera passava nel 711 (l’anno 
medesimo in cui, dall’altra parte dell’emisfero, 
si toccava l’Indo) le Colonne d’Ercole e s’impa-
droniva della Spagna visigotica da cui era faci-
le, almeno con rapidi raids, varcare i Pirenei e 
puntare verso il santuario della gente franca, 
Tours. La tradizione franca, che attraverso l’e-
sperienza carolingia si è imposta quale appan-
naggio dell’intera Europa romano-germanica, 
ha sostenuto che i saraceni vennero fermati dal 
nonno del futuro imperatore Carlomagno, cioè 
da Carlo Martello, nella battaglia di Poitiers del 
732 (o, probabilmente, 733). E in effetti è nar-
rando quell’episodio che un anonimo cronista 
chiama per la prima volta i combattenti cristiani 
Europeenses. Nel XVIII secolo, Edward Gibbon 
avrebbe fondato, per il mondo europeo in quel 
momento ancor preoccupato per i residui del 
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10. “europa e islamsono nemici da sempre” 115
potenziale aggressivo ottomano, il mito di Poi-
tiers: senza quella fortunata vittoria, il muezzin 
avrebbe asceso i gradini delle torri di Oxford per 
diffondervi l’appello alla preghiera e proclamar-
vi il nome di Allah clemente e misericordioso. 
Peccato solo che in realtà i musulmani avessero 
già messo stabilmente piede a nord dei Pirenei 
fin dal 714, e almeno dal 720 tenessero la città 
di Narbona che fu tolta loro dai franchi solo nel 
751 (o, secondo altri, nel 759). 
Le incursioni saracene dalla Spagna conti-
nuarono a lungo; ancora nel corso del X secolo 
minacciavano Provenza e Delfinato, mentre già 
dall’890 – forse dalla Spagna, forse dall’Africa, 
forse dalla Sicilia – era approdata sulla costa 
provenzale, a Fraxinetum presso Saint-Tropez, 
quella flottiglia di musulmani che dette origine 
alla base d’incursori che per lunghi anni minac-
ciò l’entroterra provenzale fino ad Aix e a Mar-
siglia e i passi alpini dal Delfinato alla Savoia 
al Piemonte fino ad Aqui e a Genova. Intanto, 
tra 827 e 902, per iniziativa dell’emiro aghlabi-
ta di Qairawan, i musulmani conquistavano la 
Sicilia, dove si sarebbero mantenuti per quasi 
due secoli ma dove avrebbero fondato una civil-
tà destinata a sopravvivere, per molti versi, ben 
oltre quella data. Altri raids corsari musulmani, 
verso la metà del IX secolo, avevano sfiorato la 
stessa Roma e creato ulteriori basi di scorreria, 
come quella del Garigliano; e tra gli anni Qua-
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116 “l’islam è una minaccia”
ranta e gli anni Ottanta del medesimo secolo la 
costa pugliese aveva assistito al sorgere, a Bari e 
a Taranto, di due emirati, il primo dei quali ave-
va chiesto la legittimazione della sua esistenza 
non già agli emiri di Sicilia o a quelli d’Ifriqiya 
loro diretti sovrani, bensì al califfo abbaside di 
Baghdad. Ancora ai primi dell’XI secolo Muja-
hid, signore di Denia e delle Baleari, minacciava 
la Sardegna e il litorale tirrenico. 
Ma quei temibili corsari e predoni non sem-
pre venivano visti solo come nemici. I franchi eb-
bero nel corso dei secoli VIII-IX anche rapporti 
di buon vicinato con gli arabo-berbero-iberici 
insediati al di là dei Pirenei, mentre Carloma-
gno stabilì anche un contatto diplomatico con il 
califfo di Baghdad Harun ar-Rashid che gl’inviò 
in dono l’elefante Abu Abbas: purtroppo il po-
vero bestione, che aveva con successo affrontato 
un lungo viaggio via mare e aveva attraversato 
le Alpi, non sopravvisse a lungo ai rigidi inverni 
di Aquisgrana. In quest’ordine di eventi l’episo-
dio più enigmatico, divertente e affascinante fu 
l’invio di una proposta di matrimonio a un altro 
califfo di Baghdad, verso il 915, formulata per 
lettera da parte di Berta, marchesa di Toscana. 
Certo, quelli sì ch’erano califfi; ormai, non son 
più gli stessi di una volta...
Mentre verso Occidente e nel bacino del Me-
diterraneo accadevano queste cose, l’asse isla-
mico si andava spostando, come abbiamo visto, 
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10. “europa e islam sono nemici da sempre” 117
verso est; e, all’interno della compagine dell’um-
ma, l’elemento arabo andava perdendo progres-
sivamente e irreversibilmente terreno. Erano 
lontani i tempi della conquista di Ctesifonte, la 
splendida capitale sasanide, nel 636-637, allor-
ché i semplici beduini incapaci di valutare gli 
immensi tesori caduti nelle loro mani condivano 
le loro vivande con canfora – che scambiavano 
per sale – e si distribuivano tagliato in pezzetti 
il favoloso tappeto imperiale, la “primavera di 
Cosroe”. L’impero era diventato troppo grande 
per la fiera ma numericamente ristretta aristo-
crazia araba; e d’altronde il carattere universali-
stico ed egualitario dell’umma musulmana, pur 
attribuendo alla tradizione araba un primato in-
discutibile espresso dal ruolo privilegiato della 
famiglia del Profeta e dal mantenimento rigo-
roso di quella araba come lingua sacra (e quin-
di non solo della preghiera e della teologia, ma 
anche del diritto e della speculazione filosofica), 
concedeva che chiunque abbracciasse la vera 
fede divenisse a tutti gli effetti un fratello de-
gli altri credenti al di là di qualunque differenza 
etnica, linguistica o d’altro genere. Ciò consentì 
per tempo ai non arabi, soprattutto ai persiani, 
d’insediarsi profondamente nell’umma; e nel 
rapporto tra mondo arabo e mondo iranico ac-
cadde quel ch’era accaduto, nel II-I secolo a.C., 
in quello tra mondo romano e mondo greco: 
Persia capta ferum victorem cepit. 
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118 “l’islam è una minaccia”
Non v’è dubbio che la conquista dell’impe-
ro sasanide coincise con un’arabizzazione della 
Persia; alla quale corrispose però, complemen-
tarmente, un’iranizzazione dell’Islam orientale 
e del califfato abbaside stesso, dove l’elemento 
persiano fu dominante fra i secoli VIII e X cir-
ca. È vero che in linea di principio chi voleva 
conservare le tradizioni mazdaiche fu libero 
di farlo, e la religione zoroastriana fu equipa-
rata nella pratica (come avvenne nel Sind per 
il buddhismo) a quella dei “popoli del Libro”; 
tuttavia l’Islam era provvisto di un fascino che 
non si spiega tutto e soltanto con il fatto ch’e-
ra la religione dei vincitori e che il convertirvisi 
poteva dar accesso al ceto dirigente. D’altronde 
i neoconvertiti venivano tenuti, come mawali 
(“clienti”, “liberti”), in uno stato di parziale sog-
gezione, e si arrivava – sia pur illegittimamente 
– a richieder loro di continuar a pagare la jiziya 
la “tassa di capitazione” imposta ai dhimmi. Ma 
tale situazione mutò ben presto: e del resto la 
stessa rivoluzione abbaside, che prese l’avvio 
dall’area orientale dell’impero, fu in parte pro-
vocata proprio dai mawali e da essi sostenuta, 
nel nome dell’adesione al puro Islam originario 
che le scelte autocratiche e centralistiche degli 
umayyadi imitatori di Bisanzio sembravano 
aver tradito. 
Fu comunque la sintesi bizantino-arabo-
iranica che creò la grande tradizione culturale 
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10. “europa e islam sono nemici da sempre” 119
musulmana, quella di al-Biruni, di Avicenna, di 
ar-Razi. L’Islam è stato accusato di poca origi-
nalità: esso avrebbe soltanto accolto, elaborato, 
sintetizzato; la sua poesia, la sua architettura, 
la sua filosofia, si sarebbero nutrite di lacerti 
metabolizzati di cultura alessandrina, persiana, 
ebraica, protocristiana. Eppure, dinanzi al mi-
rabile equilibrio che questa sintesi – nelle sue 
infinite variabili locali – ci propone, e della quale 
l’arabo coranico è il sigillo mentre l’universali-
smo della fede ne costituisce il fondamento, non 
si può non concludere che l’effettiva originali-
tà e la vera forza dell’Islam stanno proprio qui: 
in questa flessibile e spregiudicata capacità di 
assimilare e ripensare, ridefinire, riproporre, 
ricreare. Del resto – anche se non mancarono 
momenti di ritorno al rigorismo –, sotto la ten-
da del Profeta c’era posto per tutti: per i devoti 
intransigenti delle scuole coraniche più rigoro-
se, per i filosofi e i teologi platonizzanti che ai 
devoti non piacevano affatto (e i mullah sciiti 
di Persia avrebbero in parte ereditato quest’av-
versione), per i mistici sufi alla ricerca della re-
ligio perennis, per i giuristi attenti ad aggirare e 
a smussare le durezze della sharī‘a, per i mawali 
che talora custodivano ben celata nei penetrali 
del loro cuore qualche reliquia della loro antica 
fede, delle loro avite tradizioni.
Intanto, tra i secoli X e XI, irrompevano 
nell’impero musulmano da est e da nord-est dei 
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120 “l’islam è una minaccia”
nuovi convertiti: i turchi, genti uraloaltaiche 
estranee per cultura sia agli arabi sia agli ira-
nici indoeuropei; genti che in passato avevano 
aspramente combattuto la penetrazione musul-
mana oltre gli antichi Oxus e Iaxartes, vale a dire 
l’Amu Darja e il Syr Darja. Essi, pur convertiti 
all’Islam sunnita, crearono una galassia di emi-
rati autonomi rispettoall’autorità califfale.
Fu la dinastia originariamente turkmena dei 
discendenti di un khan del X-XI secolo, Selgiuq 
– e per questo definita selgiuchide –, a venir in 
soccorso all’indebolita compagine arabo-persia-
na: nel corso dell’XI secolo i selgiuchidi riusci-
rono ad assumere il controllo di Persia e Iraq e 
il loro capo seppe affiancarsi al califfo abbaside 
assumendo, col titolo di sultano, il peso onore-
vole della difesa dell’Islam sunnita orientale che 
– di fronte al califfo sciita del Cairo e a quello 
sunnita ma autonomo di Córdoba – a Baghdad 
appunto guardava non più come a una capitale 
teocratico-politica, ma certo come alla sede del 
vicario e successore del Profeta. I sultani selgiu-
chidi, con il loro sistema di ağa e di atabeğ2, con 
la loro costellazione di sultanati turchi vassalli 
nella penisola anatolica, seppero sostenere con 
il loro valore militare e il loro coraggio il califfato 
2 Termini turchi indicanti rispettivamente il “comandante” e il 
“capo (letteralmente ata, cioè “padre”) dei comandanti”: cioè capi 
guerrieri posti a capo di province e loro diretti superiori che con-
trollavano un gruppo di province unite tra loro. 
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10. “europa e islam sono nemici da sempre” 121
che appariva esausto. Ma da allora si avviò quella 
rivalità sorda tra turchi e arabi che avrebbe su-
perato la cortina dei secoli, si sarebbe adattata a 
molteplici migrazioni e a numerosi cambiamen-
ti e avrebbe infine giocato un ruolo importante 
nei primi due decenni del XX secolo.
Neppure i turchi poterono comunque – non, 
almeno, prima del XV secolo – aver del tutto la 
meglio su quel che restava il grande antemurale 
di Nord-ovest al montare dell’Islam: l’impero 
bizantino. L’esplosione della nuova fede ave-
va senza dubbio prostrato l’impero; gli aveva 
strappato Palestina, Siria, Armenia, parte della 
penisola anatolica, Egitto, Africa settentrionale, 
Creta, Sicilia; gli aveva sottratto la talassocra-
zia, senza tuttavia riuscire a trasformar del tut-
to il Mediterraneo in un “lago musulmano”. Fra 
VII e VIII secolo la stessa capitale aveva dovuto 
subire ripetuti, pesanti assedi da parte musul-
mana; nel 1080, in seguito alla loro vittoria di 
Manzikert del 1071, i turchi fondarono in piena 
Anatolia il sultanato di Rum (così chiamato in 
quanto prossimo ai Romàioi, i bizantini) con ca-
pitale a Iconio; ma, nonostante questi fieri colpi, 
la compagine imperiale resistette.
La storia mediterranea dei secoli VII-X è 
pertanto quella di un costante fronteggiarsi tra 
musulmani e bizantini: e anche se gli europei 
occidentali forgiarono i miti di Poitiers e di Ron-
cisvalle – il secondo poeticamente più struggen-
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122 “l’islam è una minaccia”
te, ma storicamente ancor più falso del primo 
– resta il fatto che fu Bisanzio a sostenere l’urto 
più pesante dell’offensiva musulmana.
Le cose mutarono comunque, e in modo pro-
fondo, nel corso dell’XI secolo. Bisanzio cercava 
faticosamente un ubi consistam nei confronti 
dell’Islam che premeva da un’Anatolia ormai 
turchizzata: e a tal fine, se da un lato perfezio-
nava gli strumenti della sua tradizionalmente 
accorta diplomazia, dall’altro cercava insisten-
temente in Occidente quei guerrieri barbari 
pesantemente armati e adusi al combattimento 
equestre che poi inviava come mercenari lungo 
i mobili confini dell’Asia minore (e tra questi 
mercenari v’erano, sempre più frequenti, dei 
normanni). L’Occidente dal canto suo si risve-
gliava da un lungo torpore e individuava nella 
Spagna, nel Mediterraneo, nel Vicino Oriente 
le sue immediate linee d’espansione accanto 
a quella continentale, volta a nord-est, che fin 
dall’età carolingia e ottomana aveva caratteriz-
zato la giovane Cristianità germanica.
Per i “franchi”, cioè gli europei occidentali, 
il nemico era costituito da quelli che di solito 
si chiamavano saraceni, “figli di Sara”; o, con 
maggior adesione al racconto biblico, agarení, 
“figli di Agar”, da Agar, la schiava egizia dalla 
quale secondo la Bibbia Mosè avrebbe genera-
to Ismae le, patriarca del popolo arabo e gran-
de eroe del Corano; erano gli stessi che oltre i 
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10. “europa e islam sono nemici da sempre” 123
Pirenei si definivano Mauri – in quanto prove-
nienti dall’antica Mauritania – o, come dicevano 
castigliani e catalani con un termine destinato a 
grande fortuna e a complesse vicende semanti-
che, moros. Da notare che nelle nostre fonti del 
tempo i musulmani non vengono mai designati 
con un epiteto che ne connoti la fede religiosa, 
salvo da un abbastanza frequente ma generico 
pagani. Non si ha notizia che la loro violenza e 
la loro ferocia avessero un qualunque rapporto 
con il credo ch’essi professano. 
Dovunque si movessero, ad ogni modo, gli 
europei s’imbattevano nei saraceni: in Spagna, 
dov’essi infestavano e minacciavano le vie che 
conducevano alla grande meta occidentale del 
pellegrinaggio, il santuario galiziano di Santia-
go de Compostella; nel Mediterraneo, dove le 
marinerie pisana e genovese venivano costrette 
a battersi duramente per liberare le coste tirre-
niche dall’incubo delle incursioni corsare e per 
ripulire dai musulmani la Corsica e più tardi le 
Baleari (ma ciò le avrebbe condotte anche ad as-
salire, nel 1063, il porto di Palermo, e nel 1087 la 
città di al-Mahdyyah nella Tunisia attuale); nel-
la penisola anatolica, dove i mercenari norman-
ni si trovavano ad affrontare i turchi dei gruppi 
tribali guidati dalle dinastie selgiuchida e dani-
shmendita, di recente provenienti dall’Asia cen-
trale e, in quanto convertiti da poco all’Islam 
sunnita, molto più intransigenti degli arabi. 
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124 “l’islam è una minaccia”
Da questa continua presenza dell’Islam, al-
la quale l’uso della lingua araba procurava una 
patina unitaria che non corrispondeva affatto 
alla frammentazione politica che invece la ca-
ratterizzava, la Cristianità d’Occidente traeva 
l’impressione di esser quasi accerchiata. In real-
tà, era semmai vero il contrario: l’incontro con 
i musulmani lungo un vasto fronte dai Pirenei 
al Mediterraneo al Caucaso non era determina-
to dall’aggressivo espansionismo di questi, che 
semmai c’era stato tra VII e X secolo ma che si 
era ormai arrestato, bensì appunto dalla forza e 
dall’irruenza con la quale gli europei dilagava-
no ora al di là delle loro frontiere abituali. Una 
forza e un’irruenza che si esprimevano in vario 
modo: dall’incremento dei pellegrinaggi, a quel-
lo dei commerci, alle ripetute spedizioni dei ca-
valieri francesi oltre i Pirenei per partecipare a 
quei combattimenti che già si andavano compo-
nendo nell’organico quadro della Reconquista, 
sino alla diaspora normanna che conduceva gli 
animosi guerrieri dai capelli rossi e dai grandi 
scudi a mandorla allo scontro con i musulmani 
arabo-berberi di Sicilia e con quelli turchi d’A-
natolia.
Ne nacque quel che noi chiamiamo lo “spirito 
di crociata”, gli ideali e le pratiche connessi con 
il quale erano destinati ad allargarsi in impen-
sate direzioni: non solo verso la Spagna e l’Afri-
ca, com’era in fondo ovvio, bensì anche verso il 
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10. “europa e islam sono nemici da sempre” 125
Nord-est europeo, e più tardi addirittura a “im-
plodere” all’interno della Cristianità stessa con 
spedizioni anch’esse crociate – i partecipanti alle 
quali godevano di privilegi spirituali e d’immu-
nità giuridiche – volte a contrastare gli eretici e 
perfino i nemici puramente politici del papato. 
A quest’abuso della crociata, che si estende fi-
no a tutto il Trecento, apportò un correttivo tra 
quel secolo e il successivo l’affacciarsi in Anato-
lia e nei Balcani di una nuova minaccia, quella 
costituita dai turchi ottomani, i quali non solo 
avrebbero conquistato Costantinopoli e cancel-
lato quel che restava dell’impero bizantino nel 
1453 (consentendo, d’altronde, che l’eredità im-
periale ortodossa venisse raccoltadai gran prin-
cipi di Mosca, la “Terza Roma” della quale essi 
si proclamarono imperatori), ma per quasi tre 
secoli dopo quella data avrebbero terrorizzato 
l’Europa con il pericolo di una loro invasione, 
spingendola a una nuova serie di “crociate” di-
fensive posta delle quali peraltro non era più la 
liberazione dei Luoghi Santi bensì la sicurezza 
continentale.
Con il sorgere delle nuove culture musul-
mane connesse con le genti turche e iraniane, 
cominciava, si può dire già dall’XI secolo, an-
che il lungo tramonto del mondo arabo sotto il 
profilo etnico, politico e culturale. Per la verità, 
uno straordinario paradosso anima la storia dei 
rapporti fra Islam e arabi: pur essendo il primo 
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126 “l’islam è una minaccia”
inconcepibile senza quel popolo nel quale esso 
è nato, nella cui lingua esso si esprime e che ha 
rappresentato il suo primo e autentico vettore, 
la stessa natura universalistica del messaggio 
del Profeta e le vicissitudini sia dell’espansione 
di esso nei tre vecchi continenti sia dei popo-
li che, con esso venuti a contatto, ne sono stati 
permeati e se ne sono fatti a loro volta porta-
tori hanno condotto a una rapida anche se mai 
completa eclisse – per dispersione o per fagoci-
tazione – dell’elemento autenticamente arabo. 
Berberi, persiani, turchi, indiani del Nord-ovest, 
popolazioni iraniche o turcomongole dell’Asia 
centrale, tartari propriamente detti si sono in 
una qualche misura arabizzati accettando il Co-
rano, ma al tempo stesso hanno in aree e in modi 
diversi egemonizzato e mutato profondamente 
la cultura musulmana imprimendole d’altronde 
una dinamica e una varietà altrimenti impen-
sabile: dinamica e varietà, si noti, che tuttavia 
sono rimaste fedeli al dettato originario grazie 
anzitutto al radicamento della cultura teologica 
e giuridica islamiche nella lingua araba.
Eppure, ciò detto, va anche aggiunto che il 
destino delle nobilissime genti che popolavano 
e popolano l’area tra penisola arabica, Siria, lito-
rale palestinese e Mesopotamia fu particolare, e 
non privo di tristezza. Gli stessi vari califfati, tra 
VII e XI secolo, si bizantinizzarono a Damasco, 
si persizzarono a Baghdad, si africanizzarono al 
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Cairo, dove gli egiziani non furono mai arabizza-
ti del tutto, e a Córdoba, dove l’elemento berbero 
si fece sentire con forza; l’arrivo dei neoconvertiti 
turchi nell’area islamica, nell’XI secolo, conferì 
ai musulmani sunniti insediati nel Vicino Orien-
te una storia specifica segnata dal contrasto tra 
essi e gli arabi; a ciò si aggiunse nel pieno XIII 
secolo la tempesta dell’invasione mongola. 
Nel 1258 le orde di Hulagu Khan occupava-
no Baghdad e l’ultimo califfo abbaside, al-Mu-
sta‘sim veniva ucciso. Il califfato sciita dei fati-
midi del Cairo era già stato abolito dal Saladino 
nel 1171; quello omayyade di Córdoba si era già 
andato dividendo, fin dal primo trentennio del-
l’XI secolo, in una serie di piccoli Stati indipen-
denti che non avrebbero retto alla Reconquista. 
Bisogna dire che, una volta di più, Graecia capta 
ferum victorem cepit: tra la fine del XIII e i pri-
mi del XIV secolo tutti i principati tartari usciti 
dal frazionarsi dell’“impero federale” fondato da 
Genghiz Khan abbracciarono l’Islam, per quan-
to tra loro restassero enclaves buddhiste, cristia-
no-nestoriane e sciamanico-animiste (a parte i 
khazari, uraloaltaici essi stessi, che fin dall’VIII 
secolo si erano convertiti all’ebraismo). Con la 
scelta dei tartari, l’Islam dilagava per quasi tutta 
l’Asia: ma restava privo di un centro, non aveva 
più il vicario del Profeta ed emiro dei credenti 
a cui guardare. Per quanto i califfi non avessero 
mai avuto – dopo i primi secoli – se non un’au-
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128 “l’islam è una minaccia”
torità morale e simbolica, quello del 1258 fu un 
duro colpo. La rivendicazione del titolo califfale 
e la sua successiva detenzione formale da parte 
dei sultani ottomani di Istanbul, prima nel Cin-
quecento e poi con maggior decisione nell’Ot-
tocento, per volontà di Mustafa Kemal Atatürk, 
fu una fictio iuris forzosamente accettata, mai 
però davvero vissuta da parte dell’umma musul-
mana.
Ad ogni modo, l’Islam era ormai “arabo” solo 
per la memoria storica radicata nell’arabicità del 
Profeta e per la lingua sacra nella quale Dio ave-
va scelto di esprimersi. Le genti arabe, divise tra 
la sudditanza al sultano mamelucco del Cairo e 
quella all’Ilkhan tartaro di Baghdad, sarebbero 
passate ai primi del XVI secolo sotto il forma-
le dominio della Sublime Porta di Istanbul per 
restarvi esattamente quattro secoli, sin alla fine 
della prima guerra mondiale.
L’avvento e l’affermazione drammatica dei 
turchi ottomani sulla scena eurasiatica e me-
diterranea, maturati nel 1453 con la conqui-
sta di Costantinopoli, segnò un’ulteriore svolta 
nei rapporti fra Cristianità europea e mondo 
musulmano. Da allora in poi per quattro se-
coli – a parte il caso degli inglesi, che nel corso 
dell’Ottocento entrarono per note vicissitudini 
coloniali in contatto con il mondo di tradizione 
moghul vivo nel subcontinente indiano – l’Islam 
fu, nella sensibilità europea, qualcosa di fonda-
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10. “europa e islam sono nemici da sempre” 129
mentalmente turco, con lievi appendici arabe, 
berbere (i celebri “corsari” barbareschi, terrore 
delle coste mediterranee tra Cinque e Settecen-
to...) e tartaro-persiane.
Anche la questione crociata divenne, tra la 
presa di Costantinopoli del 1453 e l’assedio di 
Vienna di duecentotrent’anni dopo, essenzial-
mente il “problema turco”. È uno strano errore 
di prospettiva storica quello che ci fa ritenere, 
oggi, chiuso lo spirito di crociata con il fallimen-
to delle spedizioni in Terrasanta relativamente 
consuete fra XII e XIII secolo. Mai si parlò tanto 
di guerre sante contro l’infedele come nell’Eu-
ropa tra Rinascimento e Barocco: non a caso 
la Gerusalemme del Tasso fu il più caratteristi-
co frutto poetico della battaglia di Lepanto e 
della reazione europea alla minaccia turca che 
incombeva sui Balcani, toccava due volte – nel 
1529 e nel 1683 – la stessa Vienna, dilagava nel 
Mediterraneo appoggiandosi al dinamismo dei 
corsari barbareschi contro i quali la Cristianità 
schierava le marinerie degli Ordini di Malta e di 
Santo Stefano (che, del resto, svolgevano un’at-
tività dal canto loro non diversa da quella dei 
corsari).
Se nel tardo Medioevo la crociata era stata 
un alibi formidabile nelle mani della Curia pon-
tificia la quale, grazie ad essa, poteva raccogliere 
elemosine e speciali imposte (le “decime”) non-
ché sfruttare la disciplina dei voti solennemente 
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130 “l’islam è una minaccia”
formulati per spedir combattenti cristiani a bat-
tersi per fini diversi da quelli del recupero dei 
Luoghi Santi, all’alba del mondo moderno essa 
– e quindi, indirettamente, l’Islam – divenne il 
motore di una specie di primitiva configurazione 
“federale” d’Europa. La politica delle “sante le-
ghe” che riunivano contro il Turco tutti i principi 
del continente cristiano, sotto la formale presi-
denza dell’imperatore romano-germanico o del 
papa, caratterizzò – quando la situazione inter-
nazionale lo permetteva – la strategia europea 
fino alla “Lega Santa” del 1684 che, sotto la pre-
sidenza di papa Innocenzo XI, riuniva Austria, 
Polonia e Venezia, alle quali nel 1686 si aggiun-
se anche la Russia, e che doveva preludere alla 
definitiva liberazione dalla minaccia ottomana 
sui Balcani e al primo affacciarsi dell’impero 
russo sul Mar Nero. Infatti fu in quell’occasione 
che l’Ungheria venne definitivamente posta nel 
1687 sotto la corona asburgica e Azov conquista-
ta nel 1696 dallo zar Pietro il Grande3. 
La pace di Passarowitz, stipulata nel 1718 do-
po la trionfale campagna balcanica di Eugenio 
di Savoia, segnò l’avvio della lenta ma irrever-
sibiledecadenza dell’impero ottomano, dovuta 
in parte forse a ragioni interne alla sterminata 
compagine che – considerando anche i princi-
3 Per questi argomenti si rinvia a F. Cardini, Il turco a Vienna, 
Roma-Bari, Laterza, 2011.
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10. “europa e islam sono nemici da sempre” 131
pati vassalli – nel momento del suo massimo 
splendore giungeva dall’Algeria all’Azerbaijan 
(quindi al Caucaso e al Caspio) e dalla Transil-
vania, dalla Moldavia, dal khanato tartaro di 
Crimea sino all’Egitto e al Hijaz. Ma essa fu ral-
lentata dalle lotte che avevano lacerato l’Europa 
del Cinque-Seicento, dalla Riforma protestante 
alle guerre di religione in Francia e in Inghil-
terra fino alla guerra dei Trent’Anni, l’Europa 
cristiana. In questo periodo così tormentato il 
Turco aveva coperto un duplice, ambiguo ruolo: 
da un lato, le varie forze che nel continente euro-
peo si contrastavano non avevano mai cessato di 
rinfacciarsi reciprocamente di condurre una po-
litica obiettivamente o addirittura scientemente 
filomusulmana pur di far trionfare i propri inte-
ressi; dall’altro, si può dire che nessuna potenza 
europea trascurasse di far almeno occultamente 
la corte alla Sublime Porta nell’intento di rice-
verne vantaggi commerciali nell’immenso terri-
torio che essa controllava o di ottenerne l’appog-
gio magari indiretto sul piano militare. 
Insomma, se è vero che le relazioni turco-cri-
stiane nella prima età moderna risuonano del 
fragor delle armi, è non meno vero che i rap-
porti diplomatici e commerciali erano intensi e 
frequenti, mentre il Mediterraneo – “continente 
liquido”, come l’ha definito Fernand Braudel – 
pullulava di personaggi ambigui e affascinanti 
che da avventurieri o da schiavi passavano con 
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132 “l’islam è una minaccia”
disinvoltura da una parte all’altra, mutando 
credo (e diventano così “convertiti” per gli uni, 
“rinnegati” per gli altri) e giocando pertanto un 
ruolo mediatore tra le due culture del quale, fino 
a tempi recenti, si è sottovalutata l’importanza. 
Ma dei pescatori calabresi e dei pastori albane-
si divenuti reis, agha, pascià, bey o addirittura 
vizir, come dei piccoli cristiani catturati nelle 
razzie ottomane e allevati nella rigorosa disci-
plina dei giannizzeri, già molto si sapeva: pur 
considerando tutto ciò più una serie di curiosità 
“minori” della storia che non un dato strutturale 
delle vicende mediterranee, come invece sem-
bra ormai corretto fare.
L’impero ottomano si avviò alla rapida deca-
denza nel corso del Settecento e non fu capace 
di riprendersi neppure nel secolo successivo, 
nonostante i vari tentativi di modernizzazione4. 
La Persia degli shah safawidi prima, qajari dopo, 
dovette progressivamente cedere alla pressione 
congiunta delle rivali Inghilterra e Russia, che 
intanto avevano avviato nell’Ottocento il Great 
Game, il “Grande Gioco” della corsa alla conqui-
sta dell’Asia centrale e dell’area himalayana, che 
si concluse con l’ampliamento fino ai margini 
dell’Afghanistan dell’impero zarista e con la fon-
4 Cfr. per questo E. Augusti, Questioni d’Oriente. Europa e impero 
ottomano nel diritto internazionale dell’Ottocento, Napoli, Edizio-
ni Scientifiche Italiane, 2013. 
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10. “europa e islam sono nemici da sempre” 133
dazione dell’impero coloniale britannico in India 
che fagocitò quello moghul edificato fra Quattro 
e Cinquecento dai successori di Tamerlano5. 
La spedizione in Egitto e in Siria del generale 
Bonaparte nel 1798-99 e l’esperienza riformatri-
ce per molti versi aperta all’Occidente dei sultani 
Selim III e Mahmud II – o, in Egitto, di Muham-
mad Alì – tra fine del Sette e inizio dell’Otto-
cento, sembrarono aprire un’epoca nuova. Ma 
mentre in Turchia la modernizzazione e l’oc-
cidentalizzazione apparvero – come divenne 
chiaro allorché, ai primi del Novecento, i vari 
movimenti democratici, progressisti e naziona-
listi si fusero nel partito dei Giovani Turchi – un 
tentativo, per molti versi in extremis, di salvare 
l’impero ottomano apportandovi al tempo stes-
so un correttivo laicizzante, nei paesi arabi e in 
particolare in Egitto (un mondo straordinaria-
mente aperto all’influsso occidentale e soprat-
tutto inglese) si andava affermando una serie di 
istanze a carattere innovatore le quali trovarono 
espressione nel pur composito movimento del 
nahda (letteralmente “risorgimento”), in qual-
che misura ispirato a quanto era avvenuto pochi 
anni prima o stava avvenendo in vari paesi euro-
pei: a cominciare dalla Grecia, assunta a model-
lo non solo perché la sua lotta per la libertà tra 
5 P. Hopkirk, The Great Game, Oxford, Oxford University Press, 
2011.
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134 “l’islam è una minaccia”
1821 e 1829 era divenuta mitica nell’ambito del 
liberalismo inglese che influenzava molto i gio-
vani intellettuali arabi, ma anche perché il suo 
sforzo era diretto contro l’oppressore ottomano, 
che neppure nel mondo arabo era amato.
Qui però insorgeva, per gli arabi musulmani, 
un ostacolo: i turchi erano pur parte dell’umma 
dei credenti e il sultano portava il titolo di califfo 
per quanto lo avesse assunto in modo discutibi-
le. Occorse un lento, lungo lavoro di preparazio-
ne politica e culturale – reso più facile però dalla 
frequenza di molti giovani dell’élite borghese e 
anche nobiliare araba nelle università di Parigi, 
di Oxford e di Cambridge – prima che l’idea di 
“nazione”, di caratteristico stampo occidentale 
moderno, facesse breccia e si radicasse. Alla luce 
di essa e del promesso raggiungimento dell’uni-
tà politica e di una “grande patria araba” estesa 
dal canale di Suez al Tigri e dall’Alto Eufrate 
allo Yemen, gli arabi parteciparono nel 1916, al 
seguito dello sharif 6 hashemita Hussein “custo-
de della Mecca”, al teatro vicino-orientale della 
prima guerra mondiale; o meglio, a quel che per 
inglesi e francesi era lo scenario sud-orientale 
del conflitto contro Germania e Turchia, mentre 
per essi era una guerra d’indipendenza e, in pro-
spettiva, di unità nazionale. È logico che l’Islam, 
che ai primi del Novecento pareva già in crisi, 
6 Cfr. Glossario, s.v.
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10. “europa e islam sono nemici da sempre” 135
che sultani e “califfi” ottomani avevano ridotto a 
un formalismo che poteva sembrar vuoto e che 
gli arabi – scendendo in guerra contro i correli-
gionari turchi e a fianco degli “infedeli” franco-
inglesi – avevano a loro volta posto in qualche 
modo in disparte o comunque subordinato ad 
altri obiettivi in quel momento più cogenti, ne 
uscisse indebolito, sbiadito.
Ma gli eventi successivi agli accordi segreti 
Sykes-Picot7, stipulati proprio mentre scoppiava 
la rivolta araba contro i turchi e che prevedeva-
no la spartizione del Vicino Oriente in due aree 
d’influenza – rispettivamente – francese e ingle-
se, nonché le conseguenze della “dichiarazione 
Balfour” del 1917 relativa alla creazione di un 
“foyer nazionale ebraico in Palestina” secondo 
le aspirazioni del movimento sionista, allonta-
narono il deluso mondo arabo dall’Occidente. 
L’ascesa in termini di potere e di prestigio nella 
penisola arabica del wahhabita Ibn Sa‘ud, che 
impedì allo sharif Hussein di rivendicare per sé 
il rango di califfo e nel 1926 convocò un congres-
so panislamico per farsi assegnare la custodia 
dei Luoghi Santi musulmani, segnò una forte 
ripresa dell’Islam. L’esempio saudita, ispirato 
al rigore proprio della setta wahhabita, e i du-
7 Essi desunsero il nome dai loro due promotori, il tenente colon-
nello sir Mark Sykes, ex addetto militare a Istanbul, e il console ge-
nerale francese a Beirut François Georges-Picot (cfr. G. Colonna, 
Medio Oriente senza pace, Milano, Edilibri, 2009).
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136 “l’islam è una minaccia”
ri programmi di laicizzazione e di modernizza-
zione portati avanti in alcuni paesi musulmani, 
come la Turchia di Mustafa Kemal o la Persia 
di RezaShah, provocarono come contraccolpo 
la nascita di movimenti a carattere pietista e 
tradizionalista, come i “Fratelli Musulmani” di 
Hasan al-Banna nell’Egitto degli anni Venti. Ad 
essi più di recente si sono andate aggiungendo 
le istanze radicali dei gruppi con termine impro-
prio definiti “fondamentalisti”: il caso più cele-
bre dei quali è quello sciita iraniano guidato dal-
lo ayatollah Khomeini. Il 1967, con la sconfitta e 
l’umiliazione del mondo arabo nella guerra dei 
sei giorni consumatasi a giugno contro Israele, è 
stato il tournant della sensibilità arabo-musul-
mana nei confronti della fede in rapporto con 
la politica e la costruzione della nazione araba. 
Poiché la guerra era stata perduta proprio da 
quei governi che nel mondo arabo rappresen-
tavano l’ala “laica” – l’Egitto nasseriano, la Siria, 
la Giordania –, si andò da allora diffondendo un 
sia pur articolato sentimento, una sia pur non 
sempre chiara coscienza che solo l’Islam avreb-
be potuto restituire dignità, identità, coesione, 
prosperità a tutti coloro che si riconoscessero 
nell’umma. 
Ciò ha fino ad oggi non solo determinato la 
crescita sia dei tradizionalisti – che s’impegnano 
per un ritorno a una vita pubblica e privata ispi-
rata ai princìpi del “puro Islam” – sia dei radicali 
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10. “europa e islam sono nemici da sempre” 137
– che si battono per mobilitare attorno all’orto-
dossia islamica le energie delle masse popolari, 
usando quasi la religione come in Occidente si 
è a lungo fatto con l’ideologia –, ma ha consen-
tito in tutto il mondo, dove ormai la diffusione 
dell’Islam (sia in termini di “diaspora” da terre 
musulmane, sia di proselitismo e pertanto di 
conversioni) è forte, un incremento quantitativo 
dei credenti unito a una propaganda e a un’o-
stentazione della fede religiosa concepita anche 
come elemento di identità che si presenta con 
sempre maggior evidenza. 
Certo, molti problemi restano aperti: prima 
di tutto il comprendere fino a che punto in que-
sto “ritorno del Corano” sulla scena del mondo 
(ormai, e con forza, anche nel continente ame-
ricano e in quello oceanico) giochi l’identifica-
zione dell’Islam come una religione redentrice 
degli oppressi e degli sfruttati – funzionale alla 
nuova tensione emisferica tra nord e sud, suc-
cessiva a quella tra ovest ed est – e da che punto 
in poi esso vada inquadrato in un più generale 
“ritorno del Sacro” che coinvolge, alla fine del 
secondo millennio, gli stessi strati più ricchi e 
privilegiati della nostra umanità e che sembra 
un aspetto della crisi dei valori che ha accompa-
gnato l’esaurirsi del socialismo reale, ma anche 
il disincanto nei confronti di molti obiettivi che 
la società consumistica e tecnologica si era pre-
fissa e rispetto ai quali essa si è rivelata deluden-
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138 “l’islam è una minaccia”
te o inadeguata. Se è vero che l’uomo contempo-
raneo tende con forza alla felicità, ma non sa né 
come conseguirla né dove situarla, ne consegue 
che alla sfida dell’insoddisfazione ha risposto 
con un diffuso bisogno di metarazionale che ha 
ricondotto inopinatamente alla ribalta culti e 
fedi che, ancora pochi anni or sono, si ritene-
vano avviati a un magari lento ma irreversibile 
processo di emarginazione nel privato se non 
addirittura di sparizione.
La questione che comunque resta in fondo 
più oscura a livello di mass media, e a proposito 
della quale bisognerà tentare nelle pagine che 
seguono di far un po’ di chiarezza, è capire che 
cosa in effetti, concretamente, sia e faccia questa 
massa di oltre un miliardo e mezzo di persone, 
in buonissima parte giovani, che in vario modo 
e secondo problematiche molto eterogenee fra 
loro si sentono o sono obiettivamente collegati 
alla cultura islamica: quanti, e come, e perché, 
si sentono attratti dal canto di una delle molte 
sirene “radicali” che li stanno tentando? Quan-
ti se ne sentono estranei? Quanti le temono e 
le respingono, mirando invece all’inserimento 
nella Modernità segnata dall’egemonizzazione 
occidentale, tendendo allo sviluppo civile in ar-
monia con le nostre “democrazie” che stanno a 
loro volta rapidamente cambiando volto, o addi-
rittura sognando un Occidente che magari non 
c’è nemmeno più o che è penetrato anche tra lo-
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10. “europa e islam sono nemici da sempre” 139
ro e si sta metabolizzando anche grazie a loro? 
Il mondo musulmano appare oggi sospeso tra 
jihad e Coca-Cola, tra Corano e business, tra ri-
chiami alla potenza califfale e suggestioni infor-
matico-telematiche, tra chador e niqab e Gucci 
o Valentino. Quali forze avranno la meglio? 
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11. “I musulmani ci odiano”
Ma insomma, che cos’andiamo cercando? Da 
tredici-quattrordici secoli Europa (prima Cri-
stianità, poi Occidente laico) e Islam si costeg-
giano, si cercano, si frequentano, perfino s’inna-
morano reciprocamente: e non c’è crociata, non 
c’è jihad che tenga. Prima che Rudyard Kipling 
avesse stabilito che “East is East, West is West”, 
Goethe aveva composto il suo Diwan oriental-
occidentale molto meno lapalissiano ma ben più 
affascinante e significativo. Soldati musulmani 
hanno prestato servizio in eserciti di paesi oc-
cidentali combattendo contro nemici ch’erano 
loro correligionari – del resto, le guerre fra cor-
religionari non sono certo una novità nella sto-
ria – e non ci sono stati né ammutinamenti né 
sabotaggi né diserzioni. Il 15% dei soldati fran-
cesi sono di fede musulmana e hanno i loro cap-
pellani: hanno combattuto in Afghanistan e nel 
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11. “i musulmani ci odiano” 141
Mali col massimo lealismo; il soldato francese 
Imad Ibn Ziaten, assassinato nel 2012 a Tolosa 
dal terrorista Muhammad Merah, era musul-
mano egli stesso, al pari del sottufficiale di poli-
zia Ahmed Merabet ucciso a Parigi il 7 gennaio 
2015 dai massacratori dell’équipe di “Charlie 
Hebdo”1. Per uno stracitato caso di un fedele del 
Corano che si rende responsabile di un crimine, 
ve ne sono migliaia nei nostri eserciti, nelle no-
stre polizie, nei nostri uffici, nei nostri ospedali, 
nelle nostre università, nelle nostre fabbriche e 
officine, nei nostri negozi, nelle nostre botteghe, 
nei nostri alberghi, nei nostri ristoranti, nei no-
stri cantieri, nelle nostre campagne, nelle nostre 
stesse case vicino ai nostri vecchi e ai nostri am-
malati, i quali vivono insieme con noi, si com-
portano bene, fanno in silenzio il loro dovere: 
gente della quale non si parla mai e che non si 
fa notare in quanto è di solito inappuntabile, ma 
che viene segnata a dito quando un suo corre-
ligionario commette un crimine o uno sbaglio. 
Si parla di un dialogo tra cristiani e musulmani 
e se ne sottolineano le difficoltà teoriche e concet-
tuali. È legittima e sacrosanta verità: le difficoltà 
esistono e non si possono aggirare né in nome 
dell’ottimismo del cuore, né in quello della retori-
1 O. Roy, La peur de l’Islam, Paris, Le Monde/l’Aube, 2015, pp. 15-
24, passim; Dopo Parigi che guerra fa, “Limes”, 1, gennaio 2015; 
Masters of Terror. I Signori del Terrore, “Il Nodo di Gordio”, IV, 7, 
gennaio 2015. 
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142 “l’islam è una minaccia”
ca irenistico-ecumenica. Ma, nella pratica, il dia-
logo è possibile perché e nella misura in cui effet-
tivamente esiste. Da una parte c’è la disposizione 
dei cristiani a essere “una cosa sola” con tutto il ge-
nere umano, secondo la speranza pentecostale e 
apocalittica alla quale la Lumen gentium ha dato 
recente voce. Dall’altra ci sono la saggezza e la lun-
gimiranza pratica dei teologi giuristi musulmani, 
molti dei quali si sforzano di modellare e adatta-
re in modo flessibile – senza tradirlo – il rigoroso 
dettato della sharī‘a attraverso le risorse pratiche 
della giurisprudenza in modo da renderlo compa-
tibile rispetto alla vita di oggi.
Sono parecchi, oggi, gli ambienti interessati a 
un dialogo concreto: si pensi adesempio al GRIG 
(Gruppo di ricerca islamo-cristiano), originaria-
mente promosso e sostenuto da intellettuali co-
me Muhammad Arkoun, islamista della Sorbo-
na, e Muhammad Talbi dell’Università di Tunisi. 
Dal Sudan al Gujarat a Timor Est le cose appaio-
no difficili: e spesso la parola passa alle armi, 
anzi alla violenza più truce e più cupa. Tuttavia 
sono molti anche gli esempi di segno contrario, 
dei quali la Chiesa cattolica – resistendo a provo-
cazioni e persecuzioni anche gravi, dal Pakistan 
al continente asiatico – è stata larga di esempi. 
Cristiani e musulmani s’incontrano praticamen-
te nella vita, come accadeva fino a pochi anni fa 
– finché i rapporti non si sono deteriorati a causa 
del mutare delle condizioni mondiali e del radi-
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11. “i musulmani ci odiano” 143
calizzarsi degli scontri politici e religiosi – nelle 
Filippine all’atto del Duyog Ramadan (“accom-
pagnamento del Ramadan”) quando i cristiani 
locali, pur non osservando il Ramadan, si sfor-
zavano in questo periodo, con iniziative cultura-
li o devozionali di vario genere, di approfondire 
la loro conoscenza dell’Islam e in certo modo di 
manifestare la loro vicinanza con i suoi costumi. 
Essi s’incontrano, nonostante il dilagare dei fon-
damentalismi, anche nelle opere: come accade 
in Gambia o nella Repubblica Democratica del 
Congo dove alcune comunità di villaggio lavora-
no insieme per costruire sia chiese, sia moschee, 
e dove adepti di entrambe le religioni collaborano 
in istituzioni come scuole e centri sanitari. Altri 
centri e altre occasioni d’incontro sono, inoltre, 
i numerosi organismi ecclesiali e internazionali 
che hanno come scopo precipuo il lavoro comu-
ne, l’approfondimento dei punti di contatto, la 
discussione e la circoscrizione delle differenze e 
delle divergenze. Lontana dalla logica dello scon-
tro frontale e da quella della concordia basata sul 
reciproco ignorarsi – due logiche le quali hanno 
peraltro sostenitori in ambo i campi –, quella 
dell’incontro e del confronto pare suscettibile 
di dar i risultati migliori; a patto di ricordarsi (e 
questo sfugge alla maggior parte dei musulmani) 
che cristianesimo e Modernità non coincidono, 
e che pertanto il confronto, più che bilaterale, 
dev’esser triangolare. 
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144 “l’islam è una minaccia”
Ai cristiani, ai musulmani e ai laici di buona 
volontà la storia fornisce il modello di tempi nei 
quali la convivenza era non solo possibile, ma 
franca e cordiale: dall’impero mongolo alla Spa-
gna due-quattrocentesca al sultanato di al-Akbar 
nell’India moghul tra XVI e XVII secolo. Ma 
i modelli storici restano lettera morta se non si 
afferma la volontà di seguirne i suggerimenti, di 
far vivere il seme che essi hanno piantato affinché 
fruttifichi nel futuro. Questa è la sostanza della 
sfida odierna, ostacolata da quanti lavorano per 
far divenire realtà quel che fingono di proporre 
come una possibilità futura magari da evitare e 
che al contrario è invece loro disegno strategico 
provocare: il cosiddetto “scontro di civiltà”. Que-
sta è anche la ragione per la quale resta ancora 
difficile valutare un evento ambiguo e dalle ete-
rogenee e incerte origini quale quello – del resto 
effimero – delle forse troppo frettolosamente de-
finite “primavere arabe”: e che non va comunque 
visto né alla luce del pregiudizio del “bisogno di 
democrazia”, né di quello del “pericolo di diffusio-
ne del fondamentalismo”. Due equivoci schema-
tici, aprioristici, che rischiano di viziare il nostro 
giudizio e di condurci fuori strada. 
Il processo di un’intesa internazionale e in-
terreligiosa alla luce non già dell’omologazione, 
bensì del rispetto per le diversità e le specificità 
e nell’individuazione dei valori forti che uni-
scono tutti gli esseri umani – il che comporta 
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11. “i musulmani ci odiano” 145
individuazione chiara e concorde isolamento 
dei fattori di disunione e di conflitto –, nonché 
nella sistematica sostituzione della violenza con 
la trattativa, appare comunque un dato confor-
tante che si va affermando: sia pure lentamente, 
tra momenti d’inversione di tendenza e fasi di 
crisi e di ristagno nelle relazioni tra musulmani 
e non musulmani come in quelle che in tutto il 
mondo caratterizzano quanti aderiscono a un 
qualunque sistema di valori religiosi e quanti, 
invece, confidano esclusivamente nella ragione, 
nell’intelligenza e nella volontà umane ma ri-
tengono comunque che il genere umano soprav-
viverà – ora che i pericoli reali sono tanti e tanto 
grandi – solo se troverà la strada della compren-
sione reciproca e della franca, leale convivenza 
in un equilibrio sociale e civile che garantisca a 
chiunque non magari la ricchezza, non magari 
l’uguaglianza, ma la libertà e la dignità. L’itine-
rario è arduo e, negli ultimi tempi, si è rivelato 
più lungo e difficile di quanto non sembrasse 
alcuni decenni or sono, ad esempio nel quarto 
di secolo circa di forse eccessivo ottimismo se-
guito alla seconda guerra mondiale. La meta è 
lontana, come i recenti fatti relativi al Vicino e al 
Medio Oriente e all’Africa dimostrano: ma non 
manca chi non si lascia vincere dalla stanchezza 
e prosegue in quel che i buoni musulmani (che 
esistono, e che sono anche “musulmani buoni”, e 
non c’è orianismo che tenga) davvero intendono 
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146 “l’islam è una minaccia”
quando parlano di jihad, “lo sforzo sul cammino 
indicato da Dio”. L’impegno sul cammino della 
pace, della concordia, della misericordia.
Quanto al rapporto fra religione e società, nei 
paesi nei quali esiste una forte presenza di “cri-
stiani sociologici” (vale a dire che sono o dovreb-
bero essere presumibilmente tali, stando ai dati 
anagrafici) il cristianesimo, nelle sue varie Chiese 
e confessioni, sta registrando un duplice e con-
traddittorio, contemporaneo fenomeno: per un 
verso appare in crisi e in via di contrazione, specie 
per quanto riguarda l’osservanza liturgica-disci-
plinare e la frequenza ai sacramenti; per un altro 
si assiste a un “ritorno selvaggio” d’interesse reli-
gioso o di manifestazioni di fede. Nell’Islam acca-
de più o meno, mutatis mutandis, analoga cosa. 
Il filosofo Abdennour Bidar, che si sente parte-
cipe in ugual misura della cultura musulmana e 
di quella francese, ha sottolineato che nel mondo 
musulmano stiamo assistendo a un “ritorno” del 
Sacro che però si va scindendo in due linee di-
vergenti: da una parte la fossilizzazione, dall’altra 
la tendenza alla scomparsa. Insomma, una reli-
giosità che da una parte sembra aver nostalgia di 
forme autoritarie, dall’altra aver del tutto perduto 
quello che in termini socioantropologici si defini-
rebbe forse il “senso del Sacro”2. 
2 A. Bidar, Lettre ouverte au monde musulman, Paris, Les Liens 
qui Libèrent, 2015.
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11. “i musulmani ci odiano” 147
Le religioni storiche – alle quali si assegnano 
sovente, a mio avviso a torto, pesanti responsa-
bilità nelle guerre che hanno tormentato nei se-
coli la famiglia umana – stanno facendo molto, 
in termini di meditazione comune e d’impegno 
umanitario (in ciò accompagnate da molti agno-
stici e atei di buona volontà), per favorire quel 
progresso nella comprensione reciproca che 
siamo soliti indicare con il riduttivo termine di 
“dialogo”. La Chiesa cattolica, fino dal Concilio 
Vaticano II – quindi esattamente da mezzo se-
colo –, ha assunto una posizione di franca e leale 
apertura nei confronti di altre Chiese e di altre 
fedi; e tanto l’ebraismo quanto l’Islam hanno in 
più occasioni risposto in termini reciprocamen-
te positivi e impegnativi3. Eppure, sembra che 
anche qui i credenti siano inclini ad accordare 
scarsa fiducia alle loro stesse istituzioni ecclesia-
li e a mostrarsi disinformati o diffidenti. 
Dinanzi agli spettacoli massmediali inscena-
ti da quelli dell’IS con le truculente messinscene 
delle decapitazioni si è per esempio sottovalu-tato il loro pur evidente carattere intimidatorio 
e propagandistico, presentando nel contempo 
scarsissima attenzione alle voci di decisa e una-
nime condanna che tali spettacoli hanno pro-
3 Cfr. T. Bertola, La dichiarazione conciliare «Nostra Aetate»: 
una porta aperta sulle religioni non cristiane, “Colloquia Medi-
terranea”, 5.1, 2015, pp. 23-80.
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148 “l’islam è una minaccia”
vocato negli ambienti più qualificati del mon-
do musulmano, a cominciare dalla prestigiosa 
università coranica di al-Azhar. Quando in al-
cune città musulmane vi furono manifestazioni 
di piazza promosse da gruppi che ad esempio 
inneggiavano a questo o a quell’altro attentato 
terroristico o protestavano contro cose o perso-
ne occidentali, i nostri media – come accadde 
ad esempio nel settembre del 2006 allorché, 
nel corso di una lectio magistralis tenuta a Re-
gensburg, papa Benedetto XVI formulò giudizi 
che furono interpretati come una denigrazione 
teologico-filosofica della fede coranica – non 
mancarono di reagire, qua e là in modo anche 
eccessivo, a quello che venne interpretato come 
l’ennesimo attacco nei confronti dell’Occidente. 
In occasioni del genere, fu ipertrofizzata l’appa-
renza di un Islam che, visto a distanza e senza 
le dovute distinzioni, sembrava graniticamente 
concorde nel suo risentimento e nella sua volon-
tà reattiva se non addirittura aggressiva e mi-
nacciosa. Il senso comunitario dei musulmani, 
che molti ambienti del loro mondo ostentavano, 
venne e continua a venir preso sul serio. Al pun-
to che si continua ad accusare gli occidentali di 
aver trascurato la loro consapevolezza identita-
ria e di essere per questo debole e remissivo nei 
confronti del mondo islamico (la “cultura della 
resa”). Il paradosso è che, dopo aver a lungo e 
a torto rimproverato il senso comunitario dei 
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11. “i musulmani ci odiano” 149
fedeli del Corano come se fosse un’arma pun-
tata contro di noi, si fa poi regolarmente carico 
loro se non reagiscono con energia comunita-
ria al terrorismo condannandolo. Insomma: li 
si accusa di esser troppo uniti o di non esserlo 
abbastanza? 
D’altronde, se da noi si ritiene normale, o co-
munque plausibile, che l’Islam possa essere av-
vertito come una minaccia, non sembriamo poi 
renderci conto che nel mondo musulmano si re-
gistra a sua volta una preoccupazione discreta-
mente diffusa nei confronti dell’Occidente, rite-
nuto responsabile di voler a tutti i costi imporre 
i propri valori e il proprio modo di considerare 
la realtà al resto del mondo, come se i nostri va-
lori fossero gli unici non solo “giusti” e “naturali”, 
ma soprattutto “universali”, quindi i soli verso i 
quali il genere umano debba tendere. L’insorge-
re dei movimenti fondamentalisti e della stessa 
violenza terroristica è stato, a torto o a ragione (e 
senza dubbio non a ragione, tuttavia con alcune 
ragioni), interpretato come reazione a una sorta 
di nuovo tentativo egemonico, una sorta di ri-
proposizione dell’imperialismo neocolonialista. 
Ma è razionale, è ragionevole aver paura 
dell’Islam? Le varie forme di antipatia, di so-
spetto e di apprensione sembrano in effetti coa-
gularsi attorno a quattro punti fondamentali: il 
presupposto della lontananza e dell’ostilità sto-
rica nonché dell’estraneità teologico-filosofica 
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150 “l’islam è una minaccia”
tra cristianesimo e Islam; la virulenza degli at-
tacchi condotti da musulmani contro le Chiese 
locali cristiane e le istituzioni missionarie e as-
sistenziali cattoliche in Asia e in Africa; la paura 
del terrorismo e del fondamentalismo, concepiti 
come una realtà unica e concorde; la preoccupa-
zione per il flusso dei migranti e la prospettiva 
dell’eventualità che esso possa trasformarsi in 
una vera e propria ondata conquistatrice, se-
condo qualcuno dotata perfino di volontà pro-
selitistica.
Tali argomenti paiono in effetti tutti infonda-
ti, frutto di disinformazione e di carenza di rea-
lismo. La storia mostra con assoluta chiarezza 
la stretta prossimità e la profonda coesione, in 
termini storici e antropologici, di cristianesimo 
e Islam, nonché il carattere frequente mai pe-
rò né profondo né duraturo delle loro relazioni 
guerriere, a fronte di quelli al contrario stretti e 
consistenti sotto il profilo economico, finanzia-
rio, diplomatico e anche culturale. Quanto agli 
attacchi contro i cristiani, le loro sedi e i loro be-
ni – divenuti sistematici nelle terre siroirakene 
unificate, non sappiamo quanto stabilmente, 
dall’IS –, va tenuto presente intanto che, spe-
cie ai livelli meno colti del mondo musulmano 
(che corrispondono ovviamente alla stragrande 
maggioranza di quelle popolazioni), è diffuso il 
pregiudizio (sostenuto dai predicatori jihadisti) 
secondo il quale tutti gli occidentali, colpevoli 
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11. “i musulmani ci odiano” 151
in blocco sia del duro passato coloniale sia delle 
attuali condizioni d’indigenza e di sfruttamento 
nelle quali vivono molti musulmani, siano cri-
stiani e che la fede cristiana abbia da noi lo stes-
so peso e la stessa qualità invasiva che l’Islam 
ha da loro. Un aspetto della “crisi” cristiana dei 
giorni d’oggi – caratterizzata da una forte onda-
ta di agnosticismo in Occidente, da varie forme 
di pressione e di persecuzione alle quali sono 
soggette le comunità cristiane in Asia e in Afri-
ca – riguarda proprio i rapporti con l’Islam: per 
quanto una certa tensione, in passato sfociata 
anche in numerose guerre, sia sempre stata ca-
ratteristica della loro storia, essa è stata accom-
pagnata nei secoli da molti esempi di libera e se-
rena convivenza che appare oggi compromessa 
e minacciata dall’attività di vari gruppi radicali 
musulmani che hanno determinato l’esodo dei 
cristiani locali da paesi nei quali le loro comu-
nità erano antiche, prestigiose e rispettate: ciò 
è recentemente accaduto dall’Egitto al Sudan, 
all’Africa centrale, alla Turchia, alla Siria, all’I-
raq, al Pakistan. 
Inoltre, gli occidentali non sanno nulla della 
fitna intramusulmana, in particolare della viru-
lenza dello scontro fra sunniti e sciiti, e sembra-
no non essere in grado di accorgersi che essa è di 
gran lunga più grave e feroce che non gli episodi 
di ostilità interreligiosa. Molto grave è infine la 
tendenza ad attribuire automaticamente inten-
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152 “l’islam è una minaccia”
zioni se non addirittura sostanza strutturalmen-
te terroristica a tutti i gruppi politici usciti dal 
ceppo dell’Islam radicale, equiparando ad esem-
pio la fluida galassia di quelli che in qualche mo-
do si sono coordinati o hanno mostrato di volersi 
coor dinare alla fantomatica al-Qaeda a movi-
menti i cui scopi sono viceversa dichiaratamen-
te etno-nazionalistici o indipendentistici, spesso 
addirittura a carattere tribale: ciò conduce a ri-
tenere, a torto, che le soluzioni militari siano le 
uniche da adottare a preferenza delle politiche 
(le quali sono giudicate “lente” e “deboli” dall’o-
pinione pubblica meno impegnata che, essendo 
incapace di distinguere con chiarezza problemi 
e situazioni, tende ad auspicare soluzioni spicce 
per fortuna spesso irrealizzabili).
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12. “I musulmani stanno 
invadendo l’Occidente”
La paura è un’antica compagna del genere uma-
no, ma può anche trasformarsi in un’untuosa, 
appiccicosa complice. L’intellettuale e scrittore 
marocchino Tahar ben Jelloun, pluripremiato e 
pluritradotto, ha provato anche di recente a de-
scrivere questo “Islam che fa paura”, a elencare 
le ragioni per cui esso può in effetti scatenare a 
ragione un sentimento del genere ma a ribadi-
re al tempo stesso che (diciamolo parafrasando 
il Pier Paolo Pasolini di Le ceneri di Gramsci) 
“è questo l’Islam – e non è questo l’Islam”: che 
esistono parecchi Islam, o meglio parecchi modi 
di sentire, d’intendere, di manifestare, di con-
fessare, di seguire la fede nell’unicoDio ch’è 
misericordioso e compassionevole, nel Suo ra-
sul (“messaggero”), nel Libro che racchiude la 
Sua parola1. Tra essi, è cominciato ad affiorare 
1 T. ben Jelloun, È questo l’Islam che fa paura, tr. it., Milano, Bom-
piani, 2015.
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154 “l’islam è una minaccia”
nell’ultimo quarto del secolo scorso, dopo una 
lunga magari occulta gestazione e non senza 
alcuni sia pur sporadici e malintesi precedenti, 
un Islam che si protesta antico, anzi primordia-
le e originale, mentre invece si palesa con sem-
pre più evidente chiarezza come figlio sia pure 
spurio della Modernità occidentale e dei suoi 
vaneggiamenti a base ideologica. Un Islam che 
ripropone una umma, una comunità originaria 
e unitaria che ormai non c’è più dal momento 
che i fedeli sono disseminati in tutto il mon-
do al punto che soltanto relativamente pochi, 
ben determinati paesi, posseggono ancora una 
maggioranza musulmana tale da consentir loro 
di potersi definire dar al-Islam, mentre altrove 
esso è irrimediabilmente mischiato al dar al-
Harb, quello che un tempo si definiva come il 
paese nel quale, poiché esso era abitato da in-
fedeli, era legittimo appunto portare lo Harb, 
“la guerra”, il contrario dell’Islam all’interno del 
quale deve vigere il Salam, “la pace”. 
Tahar ben Jelloun si sente consapevolmente, 
gravosamente, dolorosamente portatore di una 
condizione di transizione, nuova per la stra-
grande maggioranza dei suoi compagni di fede 
eppure obiettivamente diffusa ancorché non o 
non chiaramente avvertita: musulmano che ri-
vendica il suo diritto intimo alla discrezione a 
proposito della qualità della sua fede e per que-
sto restìo a proclamare con leggerezza la sha-
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12. “i musulmani stanno invadendo l’occidente” 155
hada, la professione di essa. Si sente perciò in 
mezzo al guado: da una parte la sua solitudine 
d’intellettuale francese d’origine marocchina e 
di cultura musulmana geloso della sua libertà di 
coscienza, dall’altra l’appartenenza a un mondo 
religioso e culturale – quello appunto musulma-
no – nel quale quella libertà è guardata con so-
spetto e giudicata con severità. Si tratta per lui, 
da uomo solo in mezzo al guado, di trasformarsi 
letteralmente in ponte. 
Dinanzi alle caricature offensive del Profeta, 
ad esempio, ben Jelloun ha un moto di repulsio-
ne, di rivolta: “Ripeto che il Profeta Muhammad 
non sta in questi disegni: è uno spirito, quello di 
un uomo semplice diventato un uomo eccezio-
nale. Il Profeta sfugge a questi disegni”, e delle 
caricature offensive è giusto indignarsi soprat-
tutto in quanto offendono i musulmani più sem-
plici, impediscono loro di accedere serenamente 
a una mentalità e a una cultura a contatto della 
quale vivono quando stanno in Europa, ma che 
tuttavia non è la loro. Eppure, aggiunge, dinan-
zi alle tragedie parigine del 7 e del 9 gennaio, i 
musulmani non possono tacere o accontentarsi 
di dire “Non è questo l’Islam”: no, perché se-
condo molti musulmani e non, l’Islam è anche 
quello che minaccia, che sgozza, che fa scoppia-
re bombe e che spara nel mucchio uccidendo 
innocenti. Ovviamente, dal canto mio rivendico 
il fatto che ciò non sia affatto il mio personale 
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156 “l’islam è una minaccia”
parere: ma conosco molti non musulmani con-
vinti che solo questo sia l’Islam e altri i quali la-
mentano che purtroppo l’Islam è anche questo; 
non ho personale esperienza di musulmani fieri 
e felici che esso sia tale, ma ne conosco molti, del 
tutto attendibili, i quali ammettono con mesti-
zia che ce ne sono eccome o che sono indignati 
che ve ne siano. 
D’altronde, esiste un Islam pericoloso anche 
e in certi contesti anzitutto e soprattutto per i 
musulmani stessi: è quello della fitna, della di-
scordia tra sunniti e sciiti e dei sunniti tra loro; è 
l’Islam del terrorista che uscendo dal locale del-
la mattanza della redazione del “Charlie Hebdo” 
uccide freddamente un poliziotto francese mu-
sulmano. Ma è giusto ed è possibile coniugare il 
“Non è questo l’Islam” al Je ne suis pas Charlie: 
proclamare che la libertà e l’eguaglianza, una 
volta tanto unite, stanno nel diritto alla differen-
za, e che si può perfettamente comprendere co-
me ci si possa indignare dinanzi a qualcosa che 
per noi è sacrosanto e degno di assoluto rispetto 
(anche l’Occidente ha i suoi valori “innegozia-
bili”) e al tempo stesso ricordare a noi stessi e 
ai musulmani che forse non conoscono la storia 
della loro cultura che l’Islam, il grande Islam che 
attraverso Avicenna, Averroè e tanti altri ha aiu-
tato anche l’Occidente a crescere e a diventare 
quel che è, ha conosciuto e conosce una qualità 
di vita e di pensiero ben più alta di quella alla 
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12. “i musulmani stanno invadendo l’occidente” 157
quale vorrebbero oggi ridurlo certi fanatici as-
sassini che lo concepiscono e lo trattano non già 
come una fede religiosa bensì come un’ideologia 
politica totalitaria. 
Tahar ben Jelloun e tanti altri come lui sa-
rebbero quei “buoni musulmani” inesistenti dei 
quali ha scritto l’Oriana: quelli che secondo lei 
non esisterebbero in quanto sono soltanto de-
gli ipocriti che stanno recitando un copione 
teatrale; oppure apparterrebbero a quei pochi 
musulmani illuminati i quali hanno finito con 
l’arrendersi dinanzi all’evidenza che “il miglior 
Islam è un Islam morto”, cioè che l’unica ma-
niera per guarire l’Islam dai suoi pericoli con-
siste nel guarire dall’Islam, nell’abbandonarlo, 
nell’augurarsi che muoia, nel tifare per il pro-
prio etnocidio definendolo liberazione.
D’altronde quelle manifestazioni di religio-
sità e d’identità culturale che noi cogliamo con 
crescente frequenza tra i musulmani che vivono 
in Europa, specie in periferie come le banlieues 
parigine, e che possono consistere in un certo 
afflusso nei luoghi di culto o nelle loro vicinan-
ze, nelle insegne dei ristoranti o delle macellerie 
che servono o che vendono carne halal, nell’uso 
di una velatura femminile che di solito peraltro 
si limita al hijab, possono indicare in alcune 
circostanze simpatia per le battaglie jihadiste e 
costituire invece in altre l’esito di una propagan-
da rigorista alla quale si ritiene comunque im-
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158 “l’islam è una minaccia”
prudente non aderire in quel modo se non altro 
per timore di ritorsioni ma avendo in realtà un 
valore e un significato ideologico-religiosi mol-
to deboli e generici. Stanno più dalla parte del 
peraltro modesto segnale identitario che non da 
quella dell’orgogliosa rivendicazione militan-
te. Ciò non toglie che in determinati momenti, 
contesti e ambienti l’abbondanza di quei segnali 
generi in molti non musulmani la sensazione di 
trovarsi “stranieri in casa propria”: Tahar ben 
Jelloun allude al senso di estraniamento e di 
disagio che si può provare viaggiando su certe 
linee del Métro o della RER di Parigi, circondati 
da africani con le loro donne dal volto coperto 
che ci guardano magari con sfida e ironia. Non è 
certo paura, a parte qualche situazione di limite 
e di limine. Ma sono i rivoli che lentamente van-
no a formare i torrenti impetuosi del pregiudizio 
oppure i lenti, limacciosi gorghi della paura. 
Comunque le peggiori di tutte sono quelle 
apprensioni, suscettibili di trasformarsi in ve-
re e proprie psicosi, relative alle “invasioni” di 
migranti i quali toglierebbero lavoro agli abi-
tanti delle aree territoriali nei quali vengono 
acquartierati, sarebbero fonte di disordine e di 
delinquenza, sarebbero parte di una larga e ad-
dirittura preordinata operazione tattico-strate-
gica coordinata dai gruppi terroristici ai quali 
sarebbero addirittura affiliati o dei quali sareb-
bero inconsapevoli pedine, sarebbero portatori 
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12. “i musulmani stanno invadendo l’occidente” 159
di un Islam non solo fanatico ma anche poten-
zialmente disposto al terrorismo. Insomma, sa-
rebbero prontie intenzionati a “conquistarci” e 
a “convertirci”, addirittura con la forza. Da qui 
la popolarità delle istanze tese a invocare l’uso 
di misure drastiche per isolare i migranti e arre-
starne il flusso. 
Contro queste follie collettive, prodotto d’ir-
responsabile propaganda e di patetica e credula 
ingenuità, si possono opporre solo le armi del 
paziente convincimento. Un’occhiata a qualche 
strumento di facile consultazione può ad esem-
pio convincere chiunque – e gli insegnanti do-
vrebbero essere in prima fila in questo sforzo – 
che i pericoli di venire “invasi”, anche al ritmo 
di alcune centinaia di migranti al giorno in un 
continente come l’Europa, i cui abitanti supera-
no il mezzo miliardo (ipotizzando mille ingressi 
al giorno di musulmani decisi a conquistarci, 
in capo all’anno ne avremmo meno di 400.000 
sparsi in tutta Europa, vale a dire meno di uno 
ogni mille abitanti), sono inesistenti. I dati al 
riguardo sono oscillanti e poco affidabili, com-
presi quelli ministeriali che non sono sempre 
nemmeno coerenti fra loro: ma obiettivamente, 
premesso che la vigilanza è indispensabile, i li-
velli degli ingressi – autorizzati e no – sono sen-
za dubbio tali da porre a chi ospita molti e seri 
problemi, tuttavia non tali da dover allarmare. 
Inoltre, per “conquistare” un paese e i suoi abi-
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160 “l’islam è una minaccia”
tanti bisogna avere mezzi e organizzazione mol-
to diversi e più impegnativi di quanti non siano 
sufficienti a mettere a punto un colpo terroristi-
co anche tragicamente ben riuscito come quello 
del 13 novembre a Parigi. Dove sarebbero quei 
mezzi, dove quell’organizzazione detenuti dalle 
comunità musulmane, che spesso non riescono 
nemmeno ad ottenere il diritto – che pur dovreb-
be essere automaticamente acquisito – ad avere 
un luogo nel quale riunirsi per pregare? Quelle 
comunità, molto povere, non hanno né scuole, 
né infrastrutture abitative oppure ospedaliere 
proprie; non hanno né giornali, né reti televisi-
ve, salvo qualche fragile e provvisoria iniziativa; 
quanto agli strumenti linguistici e culturali di 
pressione, che sarebbero indispensabili a chi vo-
lesse al giorno d’oggi conquistare terre e popoli, 
essi sono in genere inesistenti. Siamo lontani 
dalle prospettive di un esercito d’invasori. 
D’altronde la paura, attenzione!, è simmetri-
camente condivisa mutatis mutandis dall’altra 
parte, dai musulmani, i quali a loro volta temo-
no di dover essere obbligati ad abbandonare i lo-
ro usi e a dover dimenticare le loro consuetudini 
e molti dei quali si dichiarano tout court con-
vinti che la ferma intenzione dell’“Occidente” è 
di distruggere la loro cultura. Questa sarebbe la 
sostanza – e dall’una come dall’altra parte della 
“barricata” si trovano fondamentalisti convinti 
nell’affermarlo – dello “scontro di civiltà” ora in 
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12. “i musulmani stanno invadendo l’occidente” 161
atto. Si forma così un malefico circolo vizioso, 
una spirale di reciproca incomprensione nel-
la quale tutti rischiamo di venir imprigionati e 
travolti.
Più giustificata semmai sarebbe l’apprensio-
ne per un altro tipo d’invasori: gli imprenditori-
sceicchi ben provvisti di capitali che vengono 
tra noi o mandano i loro procuratori di affari, di 
solito dalla penisola arabica, per acquistarci im-
prese, opifici, impianti alberghieri, compagnie 
aeree (anche “di bandiera”), addirittura squadre 
di calcio. Ma questi avvoltoi che “portano capi-
tali”, siano in doppiopetto o in galabiyyah, so-
no invece in genere benissimo accolti, o fanno 
notizia mondana, o passano inosservati. Questa 
è una minaccia reale, effettiva, sia pure di altro 
tipo: non cruenta ma, a differenti livelli, non 
meno preoccupante.
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13. “Il jihadismo è una macchina 
compatta e organizzata”
Oggi, l’interpretazione più autorevole diffusa 
tra gli specialisti del settore e gli osservatori più 
competenti è che in realtà al-Qaeda fosse – e, 
nella misura in cui il suo nome continua a cir-
colare, sia tuttora – un’organizzazione acefala, 
tentacolare, polimorfa, priva però di un vero 
e proprio “centro” direttivo e politico nonché 
tattico-strategico: per cui troppo presto, all’in-
domani della morte di bin Laden, ucciso a quel 
che pare nel maggio del 2011 in Pakistan nel 
corso dell’azione di un commando statunitense 
(un’altra pagina sulla quale, come su quella del-
la morte del libico Muammar Gheddafi cinque 
mesi dopo, si addensano fitti gli interrogativi), si 
parlò di “fine di al-Qaeda” se non addirittura di 
“soluzione del problema terroristico”.
La notizia della “restaurazione del califfato” 
(o meglio, dell’instaurazione di un nuovo califfo) 
da parte dei cosiddetti mujahiddin – vale a dire 
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13. “il jihadismo è una macchina compatta...” 163
“impegnati in uno sforzo gradito a Dio” – dell’a-
rea di confine fra Turchia, Siria e Iraq, venne dif-
fusa alla fine del giugno 2014. I “jihadisti” che 
avevano la loro roccaforte nelle province sunnite 
dell’Iraq settentrionale (a diretto contatto con i 
curdi, sunniti anch’essi, ma non arabi) vi fon-
darono la loro pretesa Dawla Islamiyya allora 
conosciuta dai media occidentali con le incerte 
sigle di ISIL o ISIS (a seconda che vi si privilegi 
la parola inglese Levant o quella araba Sham), 
che nelle intenzioni dovrebbe raccogliere tutti i 
fedeli musulmani del mondo e ricostituire l’um-
ma, la comunità musulmana nel suo complesso: 
in altri termini, fondarono unilateralmente un 
califfato. Quanto ai territori sui quali, a mac-
chia di leopardo, si esercita la loro autorità de 
facto, il “Levante” irakeno corrisponde piuttosto 
all’area nordorientale dello Stato, con i centri 
di Mosul (occupata nei primi del giugno dai 
jihadisti), Erbil (in mano alle forze governative 
del governo di Baghdad) e Kirkuk (difesa dalle 
milizie curde peshmerga). Mosul e Kirkuk sono 
importanti centri di estrazione petrolifera. I mi-
liziani jihadisti, che nella prima metà di giugno 
avevano occupato anche Tikrit, presa Mosul, la 
quale non è lontana né dal confine siriano né 
da quello turco, minacciavano anche la Siria e la 
Turchia. La situazione, come sappiamo, è ancor 
oggi incerta e soggetta ai mutamenti politici e 
militari in corso.
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164 “l’islam è una minaccia”
Il nuovo califfo porta il nome del primo ca-
liffo dell’Islam, Abu Bakr, suocero del Profeta in 
quanto padre della di lui prediletta moglie ‘A’i-
sha: si tratta difatti di Abu Bakr al-Baghdadi, 
appunto leader dell’IS. Lo speaker dell’organiz-
zazione, Abu Muhammad al-Adnani, ha sotto-
lineato l’importanza di questo evento, che con-
ferirebbe un volto nuovo all’Islam, e ha esortato 
i buoni fedeli ad accoglierlo respingendo la “de-
mocrazia” e gli altri pseudovalori che l’Occidente 
proclama. Alcuni “esperti” hanno commentato 
che siamo dinanzi al più importante sviluppo del 
jihad musulmano dopo l’11 settembre del 2001 
e che il nuovo califfato potrebbe addirittura tra-
volgere gli equilibri vicino- e mediorientali e rap-
presentare un’effettiva minaccia per la leadership 
di al-Qaeda. Il che appare alquanto improbabile 
se non surreale, dal momento che quella galassia 
di organizzazioni radicali che convivono sotto la 
denominazione, appunto, di al-Qaeda, e che se 
ne disputano accanitamente la gestione, trova 
appunto nell’IS a tutt’oggi una delle sue espres-
sioni più coerenti e meno aleatorie. 
Dal canto suo il governo ufficiale irakeno gui-
dato da Nuri al-Maliki si trovava in una posizio-
ne alquanto ambigua – restava nell’orbita degli 
Stati Uniti che ne avevano determinato la nascita 
con la loro aggressione del 2003 all’Iraq di Sad-
dam Hussein, ma era espressione delle comuni-
tà irakene sciite che in quanto tali guardano con 
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13. “il jihadismo è una macchina compatta...” 165
simpatia alla Siria di Assad e all’Iran –: esso era 
impegnato in una controffensivatesa a recupe-
rare i territori che gli uomini dell’IS gli avevano 
strappato con l’offensiva del 9 giugno 2014 e si 
stava per questo coordinando con trecento “con-
siglieri militari” statunitensi; intanto però accet-
tava dalla Russia una fornitura di dodici caccia-
bombardieri Sukhoi che, riteneva, gli avrebbero 
consentito di contrastare concretamente i guerri-
glieri dell’IS, mentre l’aviazione siriana aveva già 
avviato alcuni raids contro gli uomini del nuovo 
califfo e l’Iran aveva provveduto o stava per prov-
vedere il governo di al-Maliki di alcuni droni. È 
ovvio che lo sciita al-Maliki non fosse scontento 
di questo appoggio russo-siro-iraniano; e il qua-
dro è chiaro e perfetto se si aggiunge che l’esercito 
dell’IS era ed è ancora appoggiato da equipaggia-
menti e da finanziamenti degli emirati del Golfo. 
La situazione, che allarma per motivi differenti 
i governi di Ankara, di Damasco e di Baghdad i 
quali d’altronde non sono affatto in buoni rap-
porti reciproci, è complicata dalla posizione di al-
Nusra, il più forte movimento jihadista siriano, 
che sta lottando nel suo paese contro il governo di 
Assad, ma che ha creato faticosamente un siste-
ma di alleanze locali che rischia di saltare a causa 
della strategia “globalista” del califfato irakeno il 
quale, dal canto suo, aspira a un peraltro impro-
babile riconoscimento più ampio.
La conquista di Mosul da parte delle milizie 
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166 “l’islam è una minaccia”
jihadiste dell’Iraq nordorientale nell’estate del 
2014 ha rappresentato un evento molto grave: 
non solo in quanto quella città ha un ruolo de-
terminante sul piano dell’estrazione petrolifera, 
ma anche in quanto si tratta di un’antica, colta 
città di tradizione sunnita, abitata sia da ara-
bi sia da curdi e sede di una fiorente comunità 
cristiana “caldea” (vale a dire cattolica di rito 
aramaico), che nel 2003 – all’atto cioè dell’ag-
gressione statunitense contro l’Iraq di Saddam 
Hussein – contava ben 35.000 fedeli, mentre 
nel decennio successivo è scesa a 3.000 (dimi-
nuendo cioè di oltre il 90%). I cristiani locali 
hanno tutti abbandonato le loro case di Mosul 
dopo aver subìto, da parte degli jihadisti, furti e 
angherie in alcun modo giustificabili col Corano 
o con la sharī‘a. Il 21 luglio 2014, a Baghdad, 
è stata celebrata una messa per chiedere a Dio 
di proteggere le comunità cristiane profughe e 
minacciate: vi hanno preso parte anche molti 
musulmani che inalberavano cartelli e indossa-
vano t-shirts recanti la scritta di solidarietà “So-
no un irakeno, sono un cristiano”. D’altronde, il 
fenomeno dell’esodo cristiano si sta producendo 
dappertutto nel Vicino e Medio Oriente. A Gaza, 
dove esiste un’ottima scuola cristiana guidata da 
un sacerdote argentino, padre Jorge Hernández, 
i cristiani locali (tra cattolici e greco-ortodossi) 
erano 3.000 nel 2009, ridotti nel 2014 a 1.300.
Diverso da quello irakeno, ma non meno dram-
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13. “il jihadismo è una macchina compatta...” 167
matico, il caso della Nigeria: un paese diviso tra 
le province nordoccidentali confinanti col Benin, 
col Niger e col Chad, più povere e a maggioranza 
islamo-sunnita, e quelle sudorientali, meno po-
vere e a maggioranza cristiana, confinanti con il 
Camerun a sud-est e largamente affacciantisi sul 
Golfo di Guinea a sud. Nel nord si distinguono 
fondamentalmente quattro tendenze, che si con-
tendono l’egemonia sui credenti: le confraternite 
sufi, che praticano la meditazione e cercano la 
salvezza nell’estasi; i movimenti salafiti influen-
zati dal wahhabismo saudita; quelli messianici, 
che attendono la rivelazione del mahdi; gli “isla-
misti” moderati, fra i quali si distinguono quelli 
influenzati dai “Fratelli Musulmani” e un gruppo 
sciita che guarda all’Iran. 
Il movimento Boko Haram, a metà strada tra 
i salafiti e gli “islamisti” moderati, è stato fondato 
ai primi di questo secolo dal giovane Muhammad 
Yusuf, il quale tuttavia non condivideva gli atteg-
giamenti misoneistici e antiprogressisti di alcuni 
gruppi nigeriani, ma reclutava i propri adepti tra 
gli strati subalterni d’una popolazione già di per 
sé povera e sviluppava una specie di “teologia del-
la liberazione” che respingeva i valori del progres-
so occidentale non perché negativi in sé e per sé, 
ma in quanto suscettibili di generare un orgoglio 
antropocentrico dimentico dell’onnipotenza di-
vina. Il nome del movimento gioca sull’assonanza 
tra la parola inglese book e due parole della lingua 
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168 “l’islam è una minaccia”
haoussa, cioè boka (“stregone”) e boko (“menzo-
gna”), e significa in sintesi “Proibizione del libro 
cattivo” (cioè “della menzogna”), ma i suoi adepti 
preferiscono definirsi “Seguaci del Profeta per la 
Propagazione dello Sforzo gradito a Dio”. Il grup-
po si distingue per un acceso rifiuto del sapere 
scolastico non in sé, ma in quanto espressione di 
una scienza priva di fondamento divino. 
Dopo l’uccisione del fondatore, nel 2009, il 
movimento si disperse: ma sopravvive per grup-
pi isolati e ha mantenuto il carattere antintellet-
tuale. È stata opera sua il rapimento, nel 2014, 
di 276 studentesse cristiane che la setta inten-
deva sottrarre agli studi “occidentali” e avviare 
alla conversione musulmana. Ma, più che una 
qualche forma di rigorismo teologico, quel che 
sembra affiorare nelle azioni del Boko Haram, 
come negli anni recenti in Sudan, è la reazione a 
una sperequazione socioeconomica che coincide 
con aree latitudinarie e con osservanze religiose 
differenti: sembra cioè che quella sia giudicata 
la conseguenza diretta del rapporto esistente tra 
queste e che insomma l’ingiustizia sociale derivi 
dalla diversità di fede. Con tutto ciò, va sottoli-
neato che i casi più duri di militanza, fino all’at-
tentato suicida, non si registrano all’interno dei 
ceti subalterni bensì tra le classi mediamente 
più agiate e colte: secondo quella che, peraltro, 
è una tipologia ben nota nei movimenti e nei 
momenti rivoluzionari.
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14. “Viva le primavere arabe”
Il movimento forse troppo precipitosamente de-
nominato delle “primavere arabe”, avviato nella 
Tunisia del 2010 dove ha determinato la rapida 
caduta del violento e corrotto regime di Zain al-
Abidin Ben Ali e dove un ruolo centrale è stato 
assunto dal partito en-Nahda (“Rinascita”, paro-
la-chiave fino dall’Ottocento della riscosse civile 
nei paesi arabi), ha suscitato interesse, speranze 
e simpatia in quanto interpretato come l’esito 
di una spinta delle giovani generazioni (e va te-
nuto conto del fatto che i paesi a maggioranza 
musulmana sono anche caratterizzati da popo-
lazioni anagraficamente “giovani”, dato l’incre-
mento demografico e la moderata lunghezza 
di “speranza di vita” al loro interno) aspiranti a 
modelli politici più decisamente “democratici” 
e a modelli esistenziali maggiormente orientati 
in senso “occidentale” (specie su temi cruciali e 
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170 “l’islam è una minaccia”
delicati come i diritti delle donne e perfino la 
problematica sull’omosessualità). 
In realtà le “primavere arabe” hanno forni-
to esiti pratici diversi: in Tunisia hanno causato 
l’esperienza di governo dell’equilibrato Hamadi 
Jebali, che è stato premier fino al febbraio 2013 
quando si è dimesso in quanto non in grado di 
arginare il disordine e la violenza che stavano 
montando nel paese a causa della tensione tra 
“integralisti” e “laici”; in Egitto hanno contribui-
to a rovesciare l’anziano e ammalato presidente-
dittatore Hosni Mubarak ma anche ad aprire 
una fase convulsa della vita politica, con un’espe-
rienza di governo fondamentalista e tendenzial-
mente autoritario degli al-Ikhwan al-Muslimin 
(“Fratelli Musulmani”) guidata da Muhammad 
Morsi, presto sostituita – nonostante fosse riu-
scita vittoriosa in una competizione elettorale 
corretta e legittima – da un governo militare 
di tendenza nasseriana presieduto dal generale‘Abd al Fattah al-Sisi; in Marocco e in Giordania 
sono state parzialmente accolte contribuendo 
all’avvio di caute riforme e portando nel primo 
di questi due paesi, a partire dal novembre 2011, 
al governo del premier Abdallah Benkiran, “isla-
mista” a capo di una coalizione politica che fino 
al luglio del 2013 comprendeva anche il partito 
conservatore Istiqlal ma che si presenta fragi-
le, nel secondo a un avvicinamento tra le forze 
più vicine alla corona hashemita e gli islamisti 
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14. “viva le primavere arabe” 171
sia legati al Jabhat al-‘Amal al-Islami (“Fronte 
d’Azione Musulmana”), sia simpatizzanti con i 
“Fratelli Musulmani”; in Algeria e nella peniso-
la arabica sono state rapidamente e duramente 
represse; in Libia e in Siria si sono andate evol-
vendo verso esiti violenti che hanno causato au-
tentiche guerre civili. 
In tali occasioni abbiamo assistito a un nuo-
vo, interessante fenomeno: il graduale atte-
nuarsi, se non lo scomparire, non tanto della 
pericolosità del terrorismo e dei sodalizi che in 
vario modo lo sostengono, quanto della loro in-
sistente presenza nei nostri media. Ne è stata 
un esempio al-Qaeda: mai davvero seriamente 
analizzata da politici e da pubblicisti, nebulo-
samente fatta segno di sospetti dai servizi d’in-
telligence, ma dal 2001 a circa il 2010 per un 
lungo decennio sistematicamente accusata dei 
più vari misfatti prima che – con l’uccisione di 
bin Laden e quindi con il massiccio contributo 
dei gruppi islamisti alla lotta contro Gheddafi 
in Libia e contro Assad in Siria, entrambe so-
stenute da alcuni governi occidentali (segnata-
mente la Francia di Hollande e l’Inghilterra di 
Cameron) – si assistesse a una sorta di “rove-
sciamento delle alleanze” e, com’era accaduto 
nell’Afghanistan degli anni Ottanta e dell’inizio 
degli anni Novanta, i “fondamentalisti” sunniti 
tornassero a presentarsi in più occasioni come 
alleati dell’Occidente. Non c’è peraltro da stu-
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172 “l’islam è una minaccia”
pirsene troppo, se si considera che quei gruppi 
hanno in genere potuto avvalersi del sostegno 
finanziario, propagandistico e anche militare di 
alcune “monarchie del Golfo”, segnatamente l’A-
rabia Saudita e l’emirato del Qatar, integraliste e 
conservatrici sul piano religioso ma sicure allea-
te e partners commerciali e finanziari degli USA 
e del mondo occidentale per quanto entrate di 
recente in rotta di collisione tra loro. 
In Libia il regime di Gheddafi – che dopo aver 
mutato più volte i suoi connotati politici aveva 
assunto posizioni che avevano preoccupato go-
verni e lobbies occidentali (avvicinamento di-
plomatico e tecnologico-commerciale ai russi 
e addirittura ai cinesi, intenzione di dar vita a 
una banca e a una telefonia interafricane e così 
via) – è stato così abbattuto con il consenso e 
il contributo della NATO, mentre in Siria si è 
rischiata l’instaurazione di un governo islamista 
paventato dalle stesse Chiese cristiane di quel 
paese, che il regime autoritario ma “laico” del 
partito Baath e della “dittatura familiare” degli 
Assad (alawiti e quindi appoggiati dall’Iran scii-
ta) aveva sempre rispettato e tutelato. 
Bashar al-Assad – a differenza del padre Ha-
fez, noto per la sua inflessibile durezza – aveva 
fama di governante moderato e vantava senza 
dubbio un discreto consenso, che diveniva aper-
to sostegno da parte delle comunità cristiane le 
quali godevano della protezione obiettiva del 
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14. “viva le primavere arabe” 173
regime baathista che, in quanto socialista e na-
zionalista, metteva in second’ordine l’apparte-
nenza religiosa rispetto a quella nazionale; ma 
la sua risposta alla “primavera araba” profilatasi 
nel paese, dopo un iniziale periodo di apertu-
ra e di moderazione, si è tramutata in una dura 
campagna repressiva che ha portato a migliaia 
di vittime tra i civili e ha trasformato la tensione 
in guerra civile. D’altronde la situazione così de-
terminata ha avuto come effetto il concentrarsi 
sulla Siria dell’attività di molteplici gruppi ar-
mati jihadisti, ostili evidentemente al “laicismo” 
baathista, e al tempo stesso lo scatenarsi di una 
campagna volta a rovesciare il governo di Assad 
e condotta soprattutto da alcuni influenti am-
bienti siriani in esilio politico, specie in Francia, 
dove è attivo il sodalizio Amis de la Syrie che ha 
ricevuto l’appoggio anche di politici e intellet-
tuali molto vicini al presidente Hollande, come 
l’onnipresente Bernard-Henri Lévi. Tale campa-
gna è stata molto intensa e non è indietreggiata 
nemmeno dinanzi alla diffusione di notizie false 
o sospette insieme a quelle che si fondavano sul-
la denunzia di repressioni e di massacri effettivi1. 
L’opinione pubblica europea e occidenta-
le, influenzata anche dagli avvenimenti libici e 
1 Cfr. quanto segnalato in F. Cardini, M. Montesano, Terrore e 
idiozia. Tutti i nostri errori nella lotta contro l’islamismo, Milano, 
Mondadori, 2015, specialmente pp. 109-112.
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174 “l’islam è una minaccia”
incredula dinanzi alla pur segnalata possibilità 
che della lotta antiassadista divenissero prota-
gonisti gruppi legati all’IS e al terrorismo isla-
mista, i quali anzi per breve tempo sono stati 
quasi riabilitati e legittimati, ha appoggiato 
obiettivamente la loro stessa attività: nei loro 
ranghi si è poi registrata una consistente pre-
senza di europei convertiti, soprattutto giovani. 
I servizi di sicurezza occidentali hanno rilevato 
come dall’inizio del 2014 circa 2.000 jihadisti 
occidentali abbiano combattuto come volontari 
nelle fila dell’“armata di liberazione” contro As-
sad, dove in tutto gli stranieri (cioè i non siriani) 
sarebbero tra i 6.000 e i 12.000 (i conti in questi 
casi sono sempre molto ardui e mai precisi). 
Il fenomeno di una “legione straniera” jihadi-
sta con volontari provenienti da ogni parte del 
mondo è stato più volte segnalato, dalla pianura 
balcanica all’Afghanistan al Pakistan all’Africa. 
Quanto ai “volontari” non già musulmani euro-
pei neofiti, bensì originari di paesi islamici ma 
approdati a un qualche teatro di jihad attraverso 
l’Europa, si sono rilevati casi di “reclutamento” 
avvenuti nelle carceri tra giovani detenuti che, 
una volta scontata la loro pena, sono partiti vo-
lontari per difendere una causa islamista.
Per contro l’Israele del premier Netanyahu, 
pur esplicitamente delusa e irritata dinanzi al 
riavvicinamento diplomatico tra USA e Iran 
avviato dal presidente Obama, si è tenuta in 
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14. “viva le primavere arabe” 175
disparte nel corso della crisi siriana non cer-
to per simpatia nei confronti di Assad – dagli 
israeliani costantemente ritenuto un nemico –, 
bensì in quanto certa che la rivendicazione alla 
Siria delle alture del Golan (ormai stancamen-
te e in pratica solo formalmente perseguita dal 
governo assadista) potrebbe venire ripresa con 
energia da un eventuale futuro governo siriano 
in cui fossero presenti le forze jihadiste. In altri 
termini Israele, pur continuando a identificare 
nell’Iran il suo principale nemico e la più forte 
minaccia alla sua sicurezza e avversando per-
tanto sia il movimento palestinese Hamas sia 
quello libanese Hezbollah in quanto entrambi 
sostenuti dagli iraniani, preferisce che Dama-
sco resti in mano a un governo pur avverso, ma 
che persegue una linea politica “laica”, piuttosto 
che non a uno troppo condizionato dai jihadi-
sti sunniti. Ciò pone il governo di Gerusalem-
me in contrasto obiettivo rispetto al governo di 
Ankara retto dai “fondamentalisti moderati” del 
partito AKP di Tayyip Erdoğan, che ha assunto 
una posizione decisamente ostile nei confronti 
di Assad2. D’altronde, Turchia e Siria, paesi con-
2 Tuttavia tra Israele e Turchia esistono forti legami economici e 
commerciali, e negli ultimi tempi si è registrato un decisivo avvi-
cinamento anche sul piano diplomatico. D’altronde la simpatia fraturchi ed ebrei è molto antica e lo stesso movimento dei Giovani 
Turchi traeva le sue lontane origini dall’incontro fra pensiero mu-
sulmano e pensiero ebraico.
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176 “l’islam è una minaccia”
finanti, sono geopoliticamente avversari a causa 
sia dei numerosi motivi di attrito geoantropico 
sulle linee comuni di confine, specie nell’area 
curda, sia delle questioni legate alla gestione e 
allo sfruttamento del fiume Eufrate; ma si tro-
vano adesso entrambi coinvolti nei problemi 
suscitati dall’evoluzione politica, religiosa e mi-
litare del vicino Iraq.
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15. Eurabia felix
Le vicende riguardanti il mondo musulmano 
durante i primi tre lustri del XXI secolo ap-
paiono in sintesi dominate da quattro com-
ponenti: la tensione tra un Islam “liberale” e 
occidentalizzante, incline all’accettazione del 
confronto con la Modernità (che passa però 
spesso attraverso una mediazione autoritaria, 
espressione della quale è di solito l’esercito: 
come ben si vede nei casi turco ed egiziano), 
e le istanze radicali rappresentate prima dal-
la “costellazione” di organizzazioni politico-
militari “fondamentaliste” di al-Qaeda – che è 
stata definita, attraverso un neologismo, “iper-
setta” – e dalla loro attività terroristica, quindi 
dal radicalismo del “jihadismo” salafita; il con-
tinuo esodo di migranti verso l’Europa (non 
tutti musulmani, ma in buona parte tali)1 e le 
1 A partire dal 2011, e con maggior intensità dal 2014, si è regi-
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178 “l’islam è una minaccia”
difficoltà connesse sia con il mantenimento e 
la libertà d’espressione da parte di essi della 
propria identità religiosa e culturale, sia con il 
proselitismo e le reazioni da esso provocate; il 
permanere della questione israeliano-palesti-
nese e la progressiva islamizzazione della cau-
sa palestinese con la correlativa emarginazio-
ne dei cristiani di quell’area (arabi cattolici di 
rito greco, detti “melkiti”, e ortodossi); infine, 
la fitna sunnito-sciita, strettamente legata al-
lo sviluppo della politica iraniana come nuova 
potenza regionale e alle politiche degli emira-
ti del Golfo egemonizzati dall’Arabia Saudita 
ma attualmente segnati dalla crisi diplomatica 
saudito-qatariota. 
Un sia pur arduo e faticoso orientamento 
nel complesso panorama dell’Islam odierno ri-
chiede anzitutto che si tenga sempre a mente 
che l’organizzazione istituzionale e strutturale 
dell’Islam non ha nulla che si possa paragona-
re alle Chiese cristiane. Essa è costituita di co-
munità autocefale agenti sulla base dell’autore-
ferenzialità garantita da un esperto, direttore 
“spirituale” e teologo-giurista (o da un gruppo 
di tali specialisti); ma nei paesi che in diversa 
misura hanno comunque adottato forme di go-
strata tuttavia una preoccupante crescita di migranti in fuga dalla 
Siria, dall’Iraq e anche da più lontani paesi mediorientali; questi 
nuovi arrivati premono sull’area sudoccidentale della Turchia e si 
riversano clandestinamente sulle isole greche. 
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15. eurabia felix 179
verno e di aggregazione civile ispirate all’Occi-
dente l’attività delle comunità religiose e delle 
pie associazioni è regolata di solito da un “mini-
stero dei culti” (in genere il consigliere religioso 
della famiglia o dell’élite di governo) incaricato 
di vegliare su di esse. Ciò si risolve in un control-
lo più o meno stretto sui gruppi religiosi presen-
ti nei singoli paesi da parte dell’autorità civile e 
politica: a differenza di quel che si ama ripetere, 
l’Islam non dà ordinariamente luogo ad espe-
rienze teocratiche ma, al contrario, a varie tipo-
logie di subordinazione delle comunità religiose 
rispetto al potere politico.
Comunque, pur senza lasciarsi troppo affasci-
nare da coincidenze e “simmetrie” cronologiche, 
bisogna pur osservare che fu proprio il tournant 
del secolo (e del millennio) a dar l’impressione 
che nel mondo musulmano stessero avvenendo 
qualificanti e sconvolgenti novità. Esse erano 
maturate, talora in modo evidente e rumoroso, 
più spesso in silenzio, già nel secolo precedente, 
quando si pensava che tutte le religioni storiche 
fossero in via di progressiva sia pur più o meno 
lenta sparizione. Non era affatto un’idea pere-
grina, alcuni decenni or sono: essa era sostenuta 
dall’avanzare dello scetticismo e dell’agnostici-
smo religioso in tutto il mondo, sostenuto dal 
progresso tecnologico-scientifico e dalle grandi 
ideologie politiche laiche e materialiste; e, per 
il mondo musulmano, dalla modernizzazione e 
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180 “l’islam è una minaccia”
occidentalizzazione che si erano andate affer-
mando nell’umma con la rivoluzione kemali-
sta in Turchia, quella pahlevica in Iran e quelle 
dei “socialismi arabi” dall’Egitto nasseriano alla 
Libia del primissimo Gheddafi al Maghreb ai 
regimi del partito Baath in Siria e in Iraq. In 
Occidente, era allora opinione diffusa – in gran 
parte ereditata dal romanticismo, dal coloniali-
smo e dalla cultura orientalista che era (e resta) 
parte costituente fondamentale delle strutture 
mentali tipiche appunto della Modernità occi-
dentale e ne rappresenterebbe anzi (secondo l’o-
pinione di Edward W. Said) la “sovrastruttura” – 
che l’Islam corrispondesse ormai a un comples-
so di consuetudini cultuali di natura residuale 
e folklorica. L’immaginario europeo di allora, 
quando si parlava d’Islam, finiva negli stereotipi 
hollywoodiani dei tappeti volanti, delle palme, 
delle carovane, dei misteriosi e sensuali harem. 
Questa generale impreparazione anche a livello 
dei media correnti è emersa drammaticamente 
negli ultimi anni. 
La rivoluzione islamica iraniana di Khomei-
ni, nel 1979, fu un autentico giro di boa. Di-
nanzi alla Modernità occidentale, lo ayatollah 
proponeva una “via musulmana al futuro” che 
non coincideva affatto con un salto all’indietro 
ma che, al contrario, si proponeva di edificare 
sulla base dell’Islam un domani politicamente, 
economicamente, finanziariamente, tecnologi-
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15. eurabia felix 181
camente e scientificamente alternativo. Se gli 
Stati Uniti di Ronald Reagan scorgevano nel 
nuovo Iran uno “Stato-canaglia” che si andava 
affiancando e quasi gradualmente sostituendo 
all’URSS come “impero del Male”, l’Iran di Kho-
meini individuava in cambio il “grande Satana” 
nel materialismo edonistico e consumistico 
dell’Occidente, del quale il governo e la società 
statunitensi erano l’incarnazione. 
D’altra parte quello che i musulmani consi-
deravano un “altro Occidente”, un altro materia-
lismo, la superpotenza sovietica, stava nei me-
desimi anni minacciando l’Afghanistan: e, per 
i musulmani sunniti afghani che avevano preso 
le armi contro l’Armata Rossa occupante e il re-
gime collaborazionista di Kabul, il vicino Iran si 
profilava – per quanto sciita – come un prezioso 
alleato. Gli Stati Uniti non potevano dal canto 
loro consentire che fossero gli iraniani a soste-
nere la guerra di liberazione afghana: rispose-
ro pertanto appoggiando i guerrieri-missionari 
sunniti provenienti soprattutto dall’Arabia Sau-
dita e dallo Yemen, che guidarono il jihad con-
tro i sovietici e riuscirono a imporre il regime 
sunnita puritano dei talibani. 
D’altronde la scoperta dei nuovi grandi giaci-
menti di gas e di petrolio in Asia centrale, verso 
la metà degli anni Novanta, mutò di nuovo i rap-
porti di forza: i pipelines che avrebbero dovuto 
portare quelle ricchezze fino all’Oceano India-
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182 “l’islam è una minaccia”
no, quindi fino ai porti pakistani (dal momento 
che l’ostilità nei confronti dell’Iran preludeva 
vie più brevi e rapide) sarebbero dovuti passa-
re per forza dall’Afghanistan. Ma i talibani, che 
diffidavano ormai degli Stati Uniti e delle mul-
tinazionali Unocal e Halliburton che avrebbero 
dovuto gestire l’impresa, stavano guardando al-
trove in cerca di nuovi partners. E gli americani,che pur avevano gradito che i fondamentalisti 
avessero eliminato il comandante Ahmed Shah 
al-Massud – il “leone” del Nord-ovest, eroe del 
jihad contro i sovietici, sunnita ma sospettato 
di essere troppo incline a guardar con qualche 
simpatia all’Iran sciita –, si resero conto che era 
necessario eliminare anche il potere talibano: 
non restava che occupare direttamente l’Af-
ghanistan. Da qui l’aggressione a quel paese, 
giustificata dal rifiuto del governo talibano di 
consegnare lo sceicco Usama bin Laden, colui 
che aveva fatto eliminare Massud: egli, ospite in 
Afghanistan, era accusato di essere il mandante 
degli attentati dell’11 settembre 2001 senza però 
che sussistessero prove sufficienti per sorregge-
re tale accusa. 
Da allora prese avvio, da parte degli Stati 
Uniti e dei loro alleati, la War against Terror, 
diretta soprattutto contro la fantomatica orga-
nizzazione al-Qaeda della quale bin Laden era 
considerato il capo. Dal 2001 in poi si sono ad-
debitati con eccessiva e non innocente disinvol-
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15. eurabia felix 183
tura ad al-Qaeda praticamente tutti gli attentati 
di segno “fondamentalista” o sospetti di esser 
tali; e d’altra parte molti gruppi e gruppusco-
li, sovente altrimenti ignoti, si sono appropriati 
del nome di al-Qaeda per conferire alle loro ge-
sta una sinistra credibilità. Nel luglio del 2014 
l’organizzazione Human Rights Watch ha dif-
fuso un rapporto fondato sulle ricerche del Di-
partimento di Risorse Umane della Columbia 
University di New York, nel quale si legge che 
in molti dei 500 casi di complotto o di azione a 
carattere terroristico dei quali si sono occupati i 
tribunali statunitensi dopo l’11 settembre 2001, 
“il Dipartimento di Giustizia e l’FBI hanno coin-
volto musulmani americani in operazioni anti-
terroristiche clandestine, in un modo che rap-
presenta un abuso, fondato sull’appartenenza 
religiosa ed etnica”: in altri termini, si è trattato 
dell’organizzazione di una rete di infiltrati, di 
provocatori, e della costruzione di false prove 
tendenti a sostenere assunti complottistici poi 
rivelatisi falsi o inconsistenti. 
Dopo gli attentati del 2001 negli Stati Uniti, 
ne seguirono altri drammatici e spettacolari (se-
gnatamente a Madrid e a Londra) dando l’im-
pressione che si fosse davvero giunti a un siste-
matico jihad contro l’Occidente cui non poteva 
non rispondere una “crociata contro il terrori-
smo”. Nel corso del primo assalto terroristico di 
al-Qaeda o supposta tale sul territorio europeo, 
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184 “l’islam è una minaccia”
quello della stazione madrilena di Atocha l’11 
marzo 2004, morirono 191 persone: e le rea-
zioni scomposte, se non irresponsabili, furono 
numerose. Da ricordare quella dell’ex premier 
José María Aznar che, in un discorso ufficiale 
tenuto il 21 settembre successivo alla George-
town University, dichiarava che la Spagna era 
stata “recentemente invasa dai Mori” e che era 
stata colpita in quanto “aveva rifiutato di diven-
tare un altro pezzo del mondo islamico” e “aveva 
ricominciato una lunga battaglia per recuperare 
la sua identità”. Vero è tuttavia che queste posi-
zioni allucinate e allucinanti provocarono le rea-
zioni che meritavano, e che fu denunziata con 
preoccupazione la crescita di un’indiscriminata 
islamofobia; si ricordò come definire tout court 
l’Islam una religione “incline alla violenza” equi-
valesse di fatto a un’obiettiva legittimazione del 
terrorismo presentato come fenomeno fisiologi-
camente intrinseco ad essa anziché – come in 
effetti è – aberrazione avversata e condannata 
dalla grande maggioranza delle scuole corani-
che e della popolazione musulmana del mondo. 
Si andò comunque da allora diffondendo in 
tutto l’Occidente una forte psicosi, abilmen-
te alimentata dai media, che dette addirittura 
luogo a fenomeni paraideologici reattivi, come 
quelli dei gruppi statunitensi (presto imitati in 
Europa) neoconservative e theoconservative, 
i quali ostentavano la loro islamofobia fino a 
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15. eurabia felix 185
spingersi ad auspicare nuove “crociate”. In Italia 
si diffuse il termine “cristianista” per indicare, 
in analogia e in contrapposizione a quello “isla-
mista”, il cristiano fiero della sua identità e delle 
sue radici e ben deciso a contrapporsi a un Islam 
avvertito come eterno e irriducibile nemico. Si 
parlò perfino di un disegno di occupazione e di 
islamizzazione dell’Europa e dell’Occidente, del 
quale i migranti clandestini sarebbero stati le 
avanguardie e i primi organizzatori, e le richie-
ste dei quali – fossero pure la semplice apertura 
di una moschea o di una “sala di preghiera” – do-
vevano essere contrastate in quanto parte del-
la loro tattica di destabilizzazione culturale nei 
confronti della tradizione cristiana. Si giunse a 
parlare di una “terza ondata” dell’aggressione 
musulmana all’Europa, dopo quella che tra VII 
e VIII secolo aveva portato i guerrieri dell’Islam 
sotto Costantinopoli e oltre i Pirenei e quella che 
tra XIV e XVIII aveva fatto più volte temere che 
i sultani ottomani volessero invadere il conti-
nente cristiano. 
D’altro canto, bisogna dire che anche in certi 
ambienti estremistici dell’“islamismo” (termine 
usato per indicare la degenerazione politico-
ideologica della religione musulmana) si è par-
lato un linguaggio uguale e contrario: per esem-
pio nell’ottobre del 2001 Ayman al-Zawahiri, 
considerato – e autoproclamatosi – portavoce di 
al-Qaeda, ricordava con accenti revanscistici la 
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186 “l’islam è una minaccia”
tragedia di al-Andalus, la Spagna musulmana 
cancellata alla fine del Quattrocento dalle forze 
castigliano-aragonesi e dalla quale, nei decenni 
successivi, erano tristemente stati espulsi quei 
musulmani che pure avevano cercato di adat-
tarsi alla nuova situazione e addirittura si erano 
convertiti o avevano finto di convertirsi al cri-
stianesimo, i moriscos. Il sogno di una riconqui-
sta di Granada è stato e resta, per gli islamisti 
radicali, quel che una nuova battaglia di Lepan-
to è per i cristianisti radicali: il centro cioè di 
un mito riguardante un futuro tanto insperabi-
le quanto auspicabile alla luce appunto dei loro 
opposti ma paralleli sistemi mitologici sostenuti 
da un atteggiamento pseudostorico e rivendica-
zionistico, nutrito di superficiale erudizione e di 
autentica intolleranza.
Sono quindi stati in molti, in un recentissimo 
passato che qua e là ancor oggi riaffiora, a esor-
cizzare l’immagine da incubo di un’Europa futu-
ra i “bei panorami” della quale, ora punteggiati 
dei nostri “cari vecchi campanili”, potrebbero 
venir deturpati e profanati dai “minareti delle 
moschee”: una Europa islamizzata secondo i 
disegni di alcuni imam fondamentalisti che il 
“buonismo” di certi islamofili occidentali per-
missivi e financo sincretisti, per non dir collabo-
razionisti e criptotraditori, starebbe favorendo. 
Una “Eurabia”.
D’altronde, è ormai un fatto che la religione 
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15. eurabia felix 187
musulmana si stia imponendo in Europa come 
la seconda dopo quella cristiana; che i centri 
culturali e i luoghi di culto islamici si stiano 
moltiplicando; che in taluni di questi centri si 
stia svolgendo un’attività missionaria e proseli-
tistica anche intensa, di tipo nuovo (dal momen-
to che tradizionalmente l’Islam non è mai stato 
troppo incline a favorire campagne proselitisti-
che: siamo, in ciò, dinanzi a un Islam nuovo, 
“mutante”); che ai fedeli del Corano provenienti 
dall’Asia e dall’Africa si stiano aggiungendo eu-
ropei convertiti in un numero difficile da com-
putare e da percentualizzare data la recenziorità 
del fenomeno, comunque non trascurabile. Un 
intellettuale discusso ma senza dubbio intelli-
gente e raffinato, lo svizzero d’origine egiziana 
Tariq Ramadan, la famiglia del quale è legata al 
fondatore della setta islamista sunnita dei “Fra-
telli Musulmani”, ha contribuitocon serietà alla 
legittimazione di un “Islam europeo” dotato di 
tutte le caratteristiche di serena convivenza con 
la società civile del nostro continente e in gra-
do tanto di “modernizzare se stesso” quanto di 
“islamizzare la Modernità”.
Molte sono le organizzazioni musulmane eu-
ropee che raccolgono fedeli provenienti dai paesi 
del dar al-Islam insieme con europei convertiti: 
per esempio l’Association des Étudiants Islami-
ques de France (AEIF), la Ligue Interculturel-
le Islamique de Belgique (LIIB), la Islamische 
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188 “l’islam è una minaccia”
Gemeinschaft in Deutschland (IGD), la Muslim 
Association of Britain (MAB) e, in Italia, la Co-
munità Religiosa Islamica (COREIS) e l’Unione 
delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII), tra 
loro concorrenti. Alcune di queste organizzazio-
ni sono state a lungo più o meno insistentemen-
te accusate di simpatie radicali e addirittura di 
connivenza con gruppi terroristici: ma in ciò va 
detto che, nel biennio 2010-11, si è assistito a un 
profondo mutamento sia dell’Islam nella sua in-
terna compagine, sia nei rapporti tra Occidente 
e mondo musulmano.
All’inizio del secolo scorso, l’Islam era dap-
pertutto in crisi: oggi, per quanto difficile sia 
fornire cifre del tutto attendibili, pare che la 
popolazione musulmana del mondo ascenda a 
oltre circa un miliardo e 600 milioni che, som-
mati ai cristiani (quasi 2 miliardi circa), sono 
poco meno della metà degli abitanti della Terra. 
Ma una parte di questi musulmani vive in paesi 
nei quali – nonostante la formale libertà di culto 
di cui tutte le religioni godono – la loro identità 
viene a torto o a ragione conculcata e repressa. 
Specie nel nostro Occidente il conflitto acqui-
sta dimensioni drammatiche: nella patria della 
tolleranza è mai possibile assistere a forme di 
repressione delle tradizioni religioso-cultuali? 
Ma, d’altro canto, che cosa può accadere quan-
do tali forme sembrano a loro volta minacciare 
o limitare – se liberamente esplicate – la libertà 
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15. eurabia felix 189
di altri gruppi, o semplicemente contravvenire a 
norme e a consuetudini di vita già consolidate? 
In genere, le comunità musulmane avanza-
no richieste ragionevoli: come l’attribuzione di 
terreni per la costruzione di moschee o di spazi 
loro specificamente dedicati nei cimiteri (ma co-
me si concilia la tradizione musulmana dell’inu-
mazione del cadavere direttamente nella terra 
con le norme igienico-sanitarie ordinariamen-
te seguite nei paesi occidentali?); la possibilità 
di alimentazione halal (cioè permessa secondo 
le norme coraniche) nei luoghi pubblici (ma il 
problema è delicato per le scuole, le carceri, gli 
ospedali, le caserme); la libertà di abbigliamen-
to nei luoghi pubblici (ma portar il hijab, cioè 
il velo che copre gola e capelli delle donne, è 
stato di recente oggetto in Francia di un’inqua-
lificabile repressione appoggiata a misure giu-
ridiche liberticide); la possibilità di rispettare il 
calendario liturgico musulmano nelle scuole e 
nei pubblici locali (ma come la mettiamo con le 
esigenze degli orari legati al lavoro e alla produ-
zione in paesi dove vige una disciplina calenda-
riale cristiana o laica?); la separazione dei sessi 
a scuola almeno per le attività sportive (ma qui 
i progressisti occidentali insorgono, come per il 
hijab); la possibilità di goder di assistenza reli-
giosa in scuole, carceri, ospedali e caserme come 
già accade per i cattolici, i cristiani riformati, gli 
ebrei, nonché di impartire l’educazione religiosa 
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190 “l’islam è una minaccia”
nelle scuole e di aprire scuole musulmane parifi-
cate; la definizione di intese giuridiche che ren-
dano validi matrimonio e diritto matrimoniale 
musulmani in paesi di altre istituzioni giuridi-
che (il che ripropone l’antico problema del regi-
me “territoriale” e del regime “personale” sotto il 
profilo giuridico); la deduzione della zakat dalle 
tasse.
L’Islam vive fra noi. Per molti, la sua presenza 
è ingombrante, fastidiosa, pericolosa. Eppure, 
ne abbiamo bisogno. Come abbiamo bisogno di 
trovare un accordo di convivenza. D’altro canto, 
il contrappunto musulmano alle nostre orgo-
gliose pretese d’incarnare con i nostri princìpi 
– se non con le realizzazioni che tentano di met-
terli in pratica – il migliore dei mondi possibili, 
è in ultima analisi moralmente, civicamente e 
antropologicamente prezioso.
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In conclusione/inconclusione 
Il quadro che abbiamo cercato di delineare non 
è né “buonista”, né “ottimista”, qualifiche a noi 
estranee. L’Islam di oggi si presenta, a chi cerca 
d’intenderne seriamente e serenamente i conno-
tati, come una realtà polimorfa e contraddittoria, 
attraversata da paradossi continui e per un verso 
in grave e profonda crisi di contraddizione, per 
un altro in ora straordinaria, ora ambigua cre-
scita. Per comprendere qualcosa del “garbuglio 
islamico” è necessario che l’opinione pubblica dei 
nostri paesi abbandoni decisamente i pregiudizi 
collegati con la sua superbia occidentocentrica 
che la conduce a ritenere dogmaticamente che il 
nostro – appunto “occidentale” e “moderno” – sia 
il migliore dei mondi possibili e che tutte le altre 
culture desiderino ad esso adeguarsi: che è errore 
non meno grave dell’altro, in certo senso opposto 
tanto tra chi è musulmano quanto tra chi non lo 
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192 “l’islam è una minaccia”
è, consistente nel ritenere che sia oggi in atto uno 
“scontro di civiltà” i protagonisti del quale sono 
condannati a combattersi senza comprendersi e 
senza potersi reciprocamente integrare; o dell’al-
tro ancora, secondo il quale il mondo musulmano 
sarebbe sempre e comunque, e per intero, estra-
neo e ostile ai nostri stili di vita e di pensiero, 
mentre è largamente vero il contrario. 
La miopia dei politici e dei media ci ha per 
esempio condotto, sull’inizio delle cosiddette 
“primavere arabe”, a ritenere che chi scendeva in 
piazza contro il governo del loro paese lo facesse 
in quanto desiderava riforme democratico-par-
lamentari, in quanto esigeva l’instaurazione del-
lo stato di diritto e magari del perfezionamento 
– ad esempio attraverso il processo dell’adegua-
mento dei diritti della donna a quelli dell’uomo 
– della natura egualitaria dello stesso Islam; e 
che non avrebbe invece nemmeno un istante 
pensato magari a riforme profonde nell’assetto 
socioistituzionale del mondo in cui viviamo, a 
intaccare ad esempio egemonie e privilegi delle 
lobbies occidentali che inquadrano e sfruttano 
le risorse di buona parte dei territori nei quali i 
fedeli del Corano sono insediati. Ma ci si è invece 
accorti come proprio in Tunisia e in Egitto – che 
sono tra i paesi a maggioranza musulmana più 
vicini al modo di vivere e d’intendere il mondo 
di noi occidentali, specie di noi euro-mediterra-
nei – il rovesciamento di un sistema autoritario 
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in conclusione/inconclusione 193
e corrotto, ma per molti versi “occidentalizzan-
te”, ha coinciso con la legittimazione e l’afferma-
zione dei gruppi ispirati al radicalismo religioso, 
cioè a quel che per noi è, all’interno dell’Islam, 
l’elemento più lontano possibile dalla Moder-
nità: e tanto nell’uno quanto nell’altro paese si 
sono avute più o meno lunghe esperienze di go-
verni guidati da gruppi “islamisti” per battere i 
quali ora è stato possibile il ricorso alle urne, ora 
è stata necessaria la violenza del golpe militare 
in genere sostenuto e benedetto dai governi e 
da buona parte dell’opinione pubblica occiden-
tale, prontissimi gli uni e l’altra ad applaudire 
e ad osannare quando si presentava la “volontà 
popolare” e la “voglia di democrazia”, durissimi 
però, più tardi, nell’auspicare la repressione di 
una “democrazia” nata sì magari dalle urne, con-
traria però alle loro prospettive, ai loro interessi, 
ai loro progetti. Come diceva Orwell dell’ugua-
glianzache genera in certi sistemi persone “più 
uguali degli altri”, molti di noi sono arrivati alla 
conclusione che c’è democrazia e democrazia (e 
fin lì...), che ce ne sono di “buone” e di “cattive”, e 
che esistono al mondo musulmani che debbono 
essere “aiutati” a divenire “democratici nel mo-
do giusto”. Ma quando si pensa e si agisce così, 
non c’è poi da meravigliarsi se e quando la rea-
zione della gente è “sbagliata” e si volge magari 
a al-Qaeda o all’IS. Chi semina vento, raccoglie 
tempesta. 
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194 “l’islam è una minaccia”
Ma anche sulla natura del radicalismo nato 
un paio di secoli fa o giù di lì, sviluppatosi rapi-
damente da circa mezzo secolo a questa parte e 
ora divenuto almeno in apparenza trascinante e 
irreversibile, ci sbagliamo: siamo abituati a ri-
tenerlo in sé e per sé, nelle sue idee portanti (ri-
torno al “vero Islam”, ricostituzione dell’umma 
unitaria delle origini, nuova imposizione inte-
grale della sharī‘a) la restaurazione di qualcosa 
di lontano, di passato remoto, d’irrimediabil-
mente superato in quanto opposto all’Occidente 
moderno e al suo irreversibile “progresso”. Vi-
ceversa, con nostra grande sorpresa, scopriamo 
spesso che alla base di esso non ci sono lontane 
leggende e remote profezie, bensì cose e perso-
ne a noi molto vicine. Il pensatore al quale lo 
ayatollah Khomeini s’ispirava, considerandolo 
un maestro, non era un antico mistico persiano 
bensì ‘Ali Shari‘ati, esponente di una corrente 
di pensiero molto vicina al marxismo. Tra Ot-
to e Novecento il misticismo sufi ha raccolto 
la lezione illuministico-esoterica della cultura 
diffusa nelle logge massoniche (in Egitto fon-
date e diffuse fino dai tempi della spedizione di 
Bonaparte, nel 1798), come si vede bene nell’e-
sperienza dell’eroe ottocentesco dell’indipen-
denza algerina, Abd el-Khader. La conversione 
all’Islam della poetessa italiana d’Egitto Leda 
Rafanelli (1880-1971) matura nel clima degli 
anarco-socialisti che in Alessandria si riunivano 
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in conclusione/inconclusione 195
nella “baracca rossa” di Enrico Pea e di Giuseppe 
Ungaretti. A differenza del dogmatismo atavi-
co e misoneista dei wahhabiti – una setta i capi 
della quale però, i sauditi, hanno mostrato di 
sapersi benissimo adattare agli orizzonti tecno-
logici e finanziari della Modernità servendosene 
all’interno degli happy fews, del circolo privile-
giato delle famiglie a loro collegate con relative 
clientele, musulmano o anche no –, l’islamismo 
radicale è semmai un movimento di natura mo-
dernista, che non intende tanto “politicizzare 
la religione” quanto semmai “religionizzare la 
politica”. Una perversione ideologica dell’Islam: 
attribuire la colpa del suo sorgere e del suo di-
lagare tutta e solo ai princìpi religiosi della fede 
coranica equivarrebbe a ritenere che, se nella 
Germania degli anni Trenta si affermò con tanto 
travolgente e capillare successo il nazionalsocia-
lismo, la colpa fu tutta e solo del romanticismo 
germanico dell’Ottocento al quale la Weltan-
schauung nazista non si stancava di far tanto 
malinteso magari, tuttavia intenso riferimento.
Un altro punto sul quale è necessario far 
chiarezza riguarda la penisola arabica, i suoi 
emirati, il suo Stato-guida ch’è il regno saudi-
ta nonché il principato del Qatar che da alcu-
ni mesi sta cercando una sua strada politica e 
diplomatica nuova e libera dall’ipoteca del più 
potente vicino. Un’unione di tutti gli Stati sor-
ti a partire dagli anni Venti del XX secolo – e 
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196 “l’islam è una minaccia”
modellati, allora, soprattutto in funzione delle 
esigenze colonialiste e imperialiste di Sua Mae-
stà Britannica, vittoriosa della prima guerra 
mondiale e desiderosa di mantenere un ordine 
da essa gestito attorno al canale di Suez e sulle 
vie che la collegavano al suo impero indiano – 
rafforzerebbe le prospettive di fitna antisciita 
portate avanti anzitutto dall’Arabia Saudita in 
due direzioni: interna l’una, relativa al fragile 
equilibrio tra i governi emirali sunniti e le po-
polazioni della penisola, nella quale sono forti i 
gruppi sciiti; esterna l’altra, relativa all’inimici-
zia nei confronti del vicino, confinante e concor-
rente Iran, che in quanto “repubblica islamica” 
sciita raccoglie le simpatie di tutti gli sciiti duo-
decimani del mondo. 
La posta in gioco è altissima: riguarda la li-
bertà di navigazione sul Golfo Persico, accesso 
navale privilegiato dell’Iran all’Oceano Indiano 
e specchio marino letteralmente pieno di poz-
zi di petrolio, di raffinerie e di petroliere. Nelle 
sue prospettive antiraniane, il progetto saudita 
trova alleati obiettivi tanto gli Stati Uniti d’Ame-
rica quanto Israele e la Turchia: ma si tratta di 
una sorta di “alleanza” molto problematica, dal 
momento che in primo luogo le relazioni irano-
statunitensi dopo la caduta del premier irania-
no Ahmadinejad sono sensibilmente migliora-
te, mentre in secondo luogo quelle tra Israele ed 
emirati arabi restano caratterizzate da ostilità 
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in conclusione/inconclusione 197
reciproca. Da ciò il ruolo dinamico del Qatar, che 
come piccolo emirato letteralmente immerso 
nel centro delle acque del Golfo ambirebbe a svi-
luppare una sua politica autonoma, che l’Arabia 
Saudita e gli altri emirati vedono con sospetto e 
antipatia. Ma all’interno della penisola arabica 
si muovono anche altri progetti, altre divergen-
ze: se il Qatar tende a sostenere l’organizzazione 
dei “Fratelli Musulmani” in Siria più di quanto 
gli altri emirati non ritengano opportuno, tanto 
Abu Dhabi e Dubai quanto l’Oman esprimono 
dubbi a proposito di una linea politica troppo 
decisamente antiraniana. 
Se la fitna sunnito-sciita è pertanto uno degli 
elementi che minano alla base la solidarietà in-
terna all’umma musulmana, un altro è costitui-
to dall’opposizione, ora dura ed esplicita ora più 
flessibile e implicita, tra le forze che all’interno 
di essa mirano a uno sviluppo in vario modo 
“occidentalizzante” (in una prospettiva che per 
alcuni sarebbe propriamente “liberale”, mentre 
altri preferiscono e ritengono più realistiche vie 
fondate sull’autoritarismo, specie se gestito dal-
le forze armate) e quelle che viceversa aspirano a 
cercare formule sociali e civili fondate su un re-
cupero rigoroso dell’Islam. Il punto fondamen-
tale, a questo importante livello, non sta tanto 
nella ricerca, all’interno di ciascuno Stato la cui 
popolazione sia totalmente o prevalentemente 
musulmana, di un’accettabile relazione tra or-
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198 “l’islam è una minaccia”
gani statali e istituzioni religiose, quanto su quel 
che deve costituire la base del diritto positivo: 
l’osservanza della legge religiosa, la sharī‘a, op-
pure l’appartenenza etica e giuridica a una so-
cietà civile, la al-Muwatana1.
Naturalmente, segnali d’impegno adottato 
da tutte le parti in causa per superare differenze 
e divergenze sia interne all’Islam, sia fra esso e 
il resto del mondo, non mancano. Ne è prova il 
generale interesse dimostrato negli ultimi anni 
nei confronti del sistema creditizio musulmano, 
provocato anche dalla constatazione effettiva 
che molti paesi islamici registrano un forte pro-
gresso nell’economia e nella finanza senza ab-
bandonare i princìpi sharaitici, ma cercando al 
tempo stesso di mediare se e quando possibile 
il loro rigore confrontandolo con i sistemi cre-
ditizi non musulmani con i quali è necessario 
in qualche modo collaborare. Il sistema credi-
tizio musulmano, che favorisce gli investimen-
ti e i crediti fiduciari ma vieta rigorosamente il 
riba (l’“usura”) è stato oggetto negli ultimi anni 
di attenta considerazione anche in Occidente: 
si sono aperte “banche islamiche” in paesi non 
1 Termine lessicalmente semplice (il prefisso mu- indica apparte-
nenza, mentre il sostantivo watan è un neologismo ottocentesco 
per definire i concetti di “patria” e di “nazione” chein arabo erano 
sconosciuti) indicante la “cittadinanza”; esso è però usato spesso 
per qualificare qualcosa di più sottile e complesso, la coscienza di 
appartenenza a una medesima patria o nazione.
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in conclusione/inconclusione 199
musulmani e si è cercato di appianare le diver-
genze tra sharī‘a (diritto religioso musulmano) e 
qanun (prassi giuridica d’origine statale), inco-
raggiando nel mondo non musulmano l’attività 
delle “banche etiche”. 
Allo scopo di superare le difficoltà d’intesa e 
di collaborazione interne ed esterne all’Islam, 
venne fondata fino dal 1969 la OCI (Organizza-
zione della Conferenza Islamica), che dal 1971 
ebbe la sua sede a Jeddah nell’Arabia Saudita e 
che dal giugno 2013 si denomina “Organizzazio-
ne per la Cooperazione Islamica”. Aspirando a 
presentarsi al mondo come una specie di “ONU 
dei musulmani”, che d’altronde intende agire 
all’interno dell’ONU stessa, l’OCI è più volte in-
tervenuta per ribadire la necessità che i paesi non 
musulmani adottino comportamenti ispirati a 
maggior rispetto e comprensione per la cultura 
dell’Islam, abbandonando quei pregiudizi occi-
dentocentrici alla luce dei quali troppo spesso 
usi e tradizioni musulmani vengono considerati 
semplicemente espressione di modi di pensare 
e di agire “arcaici” o suscettibili comunque di 
condanna nel nome di una concezione indiscri-
minata di progresso. All’interno di tale sodalizio 
si sono così discussi i princìpi dei “diritti dell’uo-
mo” e della reciprocità nel rispetto della libertà 
religiosa, giungendo a conclusioni non sempre 
chiare e convincenti ma sintomo comunque di 
una volontà di dialogo e di confronto. 
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200 “l’islam è una minaccia”
Restano ampie zone di discussione ancora 
aperte e argomenti a proposito dei quali nello 
stesso mondo musulmano manca un concorde 
consenso: come a proposito di usi come quelli 
collegati alla “circoncisione femminile”, insom-
ma la clitoridectomia e l’infibulazione, praticate 
– sia chiaro – non in tutto l’Islam, bensì soltanto 
in alcuni paesi africani, e ivi collegata a tradizio-
ni ancestrali condivise anche ben oltre l’Islam. 
Oggi queste consuetudini sono ancora difese da 
alcuni teologi-giuristi. Le scuole shafiita e han-
balita la considerano obbligatoria, quelle mali-
kita e hanafita sono di parere opposto. Nel 2003 
il rettore di al-Azhar, sheyk Muhammad Sayyd 
Tantawi, dichiarò esplicitamente: “Il Sacro Co-
rano non parla di circoncisione femminile e il 
Profeta Muhammad non si è mai espresso su 
questo tema”. Anche a proposito del hijab, vale 
a dire del velo adottato da alcune donne musul-
mane per coprire i capelli e il collo (cioè la più 
leggera e, per i non musulmani, la più “tollera-
bile” se non accettabile forma di velatura fem-
minile rispetto ai niqab, ai chador, ai chadri, 
ai burqa eccetera), Tantawi ribadì sempre nel 
2003 che esso era da considerarsi obbligatorio 
in uno Stato musulmano, ma che i paesi non 
musulmani che adottino eventuali norme giuri-
diche atte a vietarne l’uso agiscono secondo un 
loro legittimo diritto al quale i musulmani che 
vi risiedono sono tenuti a uniformarsi (tale opi-
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in conclusione/inconclusione 201
nione fu comunque contestata dal segretario del 
Consiglio Superiore degli Affari Islamici d’Egit-
to, che la definì un parere personale che non 
poteva esser considerato come proprio dell’uni-
versità cairota nel suo complesso). Incertezze e 
polemiche si registrano negli ultimi anni in vari 
paesi musulmani anche a proposito dell’uso del 
niqab (il “velo integrale”) e dell’apostasia, vale 
a dire l’abbandono dell’Islam in un paese mu-
sulmano, che nell’Arabia Saudita, in Iran e in 
Marocco è punita con la pena capitale e in altri 
paesi con una detenzione di varia durata. Sul-
la stessa validità della sharī‘a governi e scuole 
giuridico-teologiche musulmane stanno discu-
tendo, con vari esiti: il nuovo codice di famiglia 
marocchino, promulgato nel 2004, riconosce la 
parità giuridica tra uomo e donna e il diritto del-
la donna di sposarsi senza essere rappresentata 
da un “tutore” e di chiedere il divorzio, nonché 
rende molto più difficile di prima la poligamia. 
Ma sarà difficile che tutti questi segnali inte-
ressanti e confortanti entrino nel “circolo” dell’at-
tenzione mediatica e modifichino quindi la per-
cezione semplicistica, generica e manichea che 
gran parte dell’opinione pubblica ha dell’Islam in 
sé, dei suoi molti problemi e della complessità del 
suo rapporto con la nostra società: tema quest’ul-
timo già di per sé ambiguo in quanto ormai l’Islam 
è già parte, appunto, di essa. Sono evidentemente 
in pochi ad essere al corrente di una legge fonda-
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202 “l’islam è una minaccia”
mentale dell’informazione corretta: che cioè per 
qualunque cosa c’è sempre una spiegazione sem-
plice ed è, regolarmente, quella sbagliata. Ma che 
l’Islam sia “quello”, e che i musulmani siano “tutti 
uguali”, che siano “loro” mentre noi siamo “noi”, è 
una formula troppo comoda, facile da ricordare 
e recitare, e più ancora da gridare. Sarà un para-
dosso: ma sentirsi minacciati procura quasi una 
sorta di rassicurazione. Si sa da dove viene il pe-
ricolo anche senza bisogno di prove. 
Lo si è visto anche di recente in Italia, a pro-
posito delle immancabili polemiche sull’oppor-
tunità di realizzare i presepi natalizi nelle scuole. 
Tradizionalmente, da molti anni, insegnanti e fa-
miglie degli alunni si dividevano in cattolici che 
lo pretendevano e in laici che gridavano all’intol-
lerabile opposizione clericale. Alla fine del 2015 
si è sostanzialmente creato un fronte unico più 
o meno bipartisan, che pretendeva di elevare il 
presepio a “segno identitario” da opporre all’I-
slam. La cosa singolare consisteva nel fatto che, 
da parte delle comunità musulmane, non si era 
levata alcuna voce di protesta: nessun islamico 
genitore di un alunno aveva mai denunziato il 
fatto che suo figlio si sentisse offeso, escluso o 
umiliato dalla presenza di una tradizione che, 
oltretutto, intende onorare colui che secondo 
la fede coranica è un grandissimo profeta. Ma 
secondo il parere di molti che avevano seguito 
questa polemica attraverso i giornali o la TV, 
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in conclusione/inconclusione 203
“ora i musulmani vogliono impedirci anche di 
fare il presepio”: da qui l’edificante ma anche di-
vertente spettacolo di leaders politici che si sono 
presentati in pubblico brandendo “capannucce” 
e “bambinelli”, e di signore che in passato sedeva-
no sugli scranni governativi come chiacchierate 
collaboratrici del presidente Berlusconi e delle 
quali non era nota l’accesa devozione, mentre 
durante l’Avvento del 2015 sono state sentite 
e riprese dalle videocamere mentre intonava-
no commosse il Tu scendi dalle stelle dinanzi ai 
cancelli di qualche scuola. E torna alla mente 
l’episodio testimoniato su “la Repubblica” del 24 
novembre 2015 da Adriano Prosperi, il quale ri-
ferisce di un taxista romano che, pur professan-
dosi anticlericale, gli dichiarava che ora vorrebbe 
crocifissi dappertutto, in tutte le sedi pubbliche, 
“per far vedere chi siamo a quelli là”... 
Non abbiamo imparato granché dalla storia. 
Forse perché non è vero ch’essa sia Maestra di 
Vita. La nostra paura è solo una funzione, la più 
miserabile, di questa nostra pervicace ignoran-
za. Tutto fa credere che si vadano preparando 
tempi non facili: ma proprio per questo tan-
to più intenso sarà il bisogno di convivenza e 
d’integrazione. La “minaccia dell’Islam” per gli 
“occidentali” è esattamente l’immagine riflessa 
della “minaccia occidentale” per i musulmani: 
un vuoto popolato di menzogne; lo specchio 
deformante di un passato e della sua scia densi 
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204 “l’islam è una minaccia”
di equivoci, di un presente irto di ostacoli e di 
pericoli. Che tuttavia supereremo tanto meglio 
quanto più e quantoprima avremo appreso ad 
affrontarli consapevoli della nostra sola e vera 
identità: che ormai, come la globalizzazione con 
i suoi molti pregi e difetti ci ha obbligato a tener 
sempre presente, è – al di là delle differenze di 
lingua, di etnia, di memoria, d’identità che pur 
sono preziose e irrinunziabili: vive la difference! 
– l’appartenenza al genere umano. È questa l’al-
tissima lezione dei versi della splendida ode cu-
bana in onore di Ho Chi Minh: “La dignidad del 
hombre es / más alta que el pan / más alta que la 
gloria / más alta que la propia / supervivencia”. 
Una lezione che ormai sembra dimenticata 
dall’insorgere in Europa di nuovi nazionalismi, 
tanto più anacronistici in una società globaliz-
zata nella quale, piaccia o no, tutti dipendono da 
tutti e nessuno può chiamarsi fuori. Una lezione 
ormai calpestata a Oriente e a Occidente, da tut-
ti i falsi califfi e da tutte le fin troppo autentiche 
lobbies, da tutti i mercanti d’armi, di droga e di 
morte, da tutti gli spacciatori di bugie politiche 
e mediatiche, da chiunque si arricchisce sulla 
fame dei poveri e sulle lacrime degli Ultimi. Ma 
è una lezione, quella che sta ispirando la lotta 
contro la “cultura dell’indifferenza”, che noi tutti 
uomini e donne liberi con forza rivendichiamo. 
Rien que l’Humanité.
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Glossario
agha Termine turco indicante un comandante militare.
ansar I primi fedeli compagni del Profeta Muhammad.
ayatollah In arabo letteralmente “segno di Dio”: il grado 
più alto nella gerarchia teologico-giuridica dei collegi 
religiosi musulmani sciiti.
bey Termine turco con valore di “principe”, “governatore”. 
da’wa In arabo “appello”, con significato di “proselitismo” 
e, per estensione, anche “missione” o “propaganda”.
dhimmi Letteralmente “tributario”, cioè non musulmano 
soggetto al patto di dhimma, quindi protetto in quanto 
membro della ahl al-Kitāb, la “gente del Libro” (ebrei, 
cristiani, zoroastriani). Al dhimmi è consentito l’eserci-
zio privato del proprio culto a fronte del pagamento di un 
tributo, detto jiziya, della tassa di capitazione fondiaria 
kharaj e di alcune restrizioni, come il divieto di portare 
armi, di usare il cavallo come cavalcatura, nonché l’ob-
bligo di indossare un segno distintivo di riconoscimento 
(in italiano, si usa anche la grafìa jimmi, jimma, foneti-
camente più simile alla pronunzia araba).
figh Letteralmente “conoscenza della Legge”: è il diritto 
musulmano, che si fonda sulla sharī‘a e si applica attra-
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206 glossario
verso la meditazione su quanto risulta dal Corano e dagli 
hadith (i “detti” e “fatti” del Profeta secondo la tradizione 
sunnita) nelle scuole giuridiche (maddhab), dove i giuri-
speriti (faqih) la confrontano con il qiyas (“ragionamen-
to analogico”) e il ijma (“consenso”). I trattati di diritto 
sono ripartiti in due sezioni, riguardanti gli atti di culto 
e le regole sociali. 
halal Termine indicante tutto quel ch’è puro, consentito, 
lecito: specie nell’alimentazione.
haram Propriamente “recinto”, “interdizione”: si dice di 
tutto quel che per qualche motivo è proibito. A Geru-
salemme il Haram esh-Sharif è la Spianata del Tempio, 
interdetta ai non musulmani. Nell’alimentazione si usa 
per indicare i cibi impuri e quindi proibiti. È noto che 
con la parola Haram, o Harem, si indicano in una corte 
principesca o in un complesso abitativo le aree addette 
alle donne e gli appartamenti femminili.
IS, ISIS, ISIL Acronimi rispettivamente di Islamic State, di 
Islamic State of Iraq and Shamm, e di Islamic State of Le-
vant, le tre denominazioni più comunemente usate per 
indicare in lingua inglese quella che più propriamente, 
in lingua araba, dovrebbe suonare come DaIISh (Dawla 
Islamyya al-Iraq wa al-Shamm), cioè “Potere” (la parola 
dawla è solo impropriamente intraducibile con “Stato”) 
musulmano sull’Iraq e sul Shamm, termine indicante la 
“Grande Siria” che propriamente si estendeva fino dall’e-
tà umayyade (secc. VII-VIII) dal litorale libanese fino al 
Tigri e le città più importanti della quale erano Damasco, 
Aleppo e Mosul. L’espressione Dawla Islamyya dovreb-
be in realtà indicare propriamente la umma (cfr. infra, 
s.v.) tra il 622 (anno dell’Egira) e il 632, anno della mor-
te del Profeta. La bandiera dell’IS è nera (l’antico colore 
califfale specificamente proprio della dinastia abbaside) 
caricata in alto di una scritta che ripete la prima parte 
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glossario 207
della Professione di Fede, la shahada (La Ilsha ilà Allah, 
“Non c’è altra divinità se non Dio”) e al centro della quale 
è un disco bianco all’interno del quale sono leggibili, su 
tre file, le parole Allah – Rasul – Muhammad (“Dio” – 
“Profeta” – “Muhammad”). L’adozione di quest’insegna 
da parte di tutti i gruppi che in qualche modo si richia-
mano all’esperienza dell’IS, in Asia, in Africa e perfino 
in Europa, non implica tuttavia affatto che esista un ef-
fettivo coordinamento gerarchico tra il califfo Abu Bakr 
al-Baghdadi e ciascuno di essi, bensì solo la generale 
volontà programmatica di ricostituire, al suo seguito, 
l’umma originaria. Essa, che si è spezzata sin dall’insor-
gere della fitna tra i seguaci del Profeta immediatamente 
dopo la sua scomparsa, se oggi fosse istituzionalmente 
ricostituita comprenderebbe oltre un miliardo e mezzo 
di fedeli. Bisogna ammettere che siamo obiettivamente 
abbastanza lontani da un’eventualità di questo genere. 
misbaha “Rosario” musulmano: una corona di 99 grani, 
ciascuno dei quali rappresenta uno dei 99 “Bei Nomi” 
di Allah, che il buon musulmano conosce a memoria e 
recita sgranando appunto la misbaha (cfr. G. Mandel, 
I novantanove Nomi di Dio nel Corano, Milano, San 
Paolo, 1995; H.R. Piccardo, Anèla il petto..., Milano, Al 
Hikma, 2002). 
nahda Termine arabo traducibile come “rinascita”, “risor-
gimento”.
paşa Termine significante “principe”, “capo”, “signore”, 
variamente trascritto nelle lingue europee come bassà, 
pasha, pacha, pascia. 
rais, reis In arabo “capo”, “guida”, “comandante” (nell’im-
pero ottomano, ammiraglio; in siciliano si usa ancora 
per indicare i capi nelle tonnare). 
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208 glossario
sharif (plurale ashraf o shurafa’) Si dice di tutto quel che è 
nobile; sono ashraf i discendenti della tribù dei quraish 
(“kuraishiti”), alla quale apparteneva il Profeta; da tale 
tribù discende la famiglia degli hashemiti, alla quale ap-
partiene Abdallah II, attuale re di Giordania. 
sharī‘a “Legge stabilita da Dio”: l’insieme delle regole ri-
velate da Dio nel Corano e che, elaborate e precisate dai 
giurisperiti, fanno parte del figh. Il rispetto letterale di 
essa, abbandonato nel corso dei secoli, viene mantenu-
to in Arabia Saudita, dove si praticano ancora le hudud 
(singolare hadd: punizioni legali di tipo corporale), e 
viene preteso attualmente da molti gruppi fondamenta-
listi che, dove hanno potuto, lo hanno applicato spesso 
inasprendolo. 
shi’a Parola araba indicante “scisma”, “fazione”, con rife-
rimento alla divisione avvenuta alla morte del Profeta 
(632), quando suo genero e cugino ‘Ali e i suoi fautori 
si staccarono dal resto dei musulmani proclamando l’e-
sclusiva autorità del Corano in quanto Scrittura dettata 
da Dio (con esclusione degli hadith); i musulmani che 
aderiscono a questa visione sono detti “sciiti”.
sunna Termine arabo traducibile come “tradizione”, per 
indicare l’insieme delle Sacre Scritture (Corano e hadith 
del Profeta); i musulmani che riconocono la “sunna” so-
no detti per questo “sunniti”.
umma Splendido termine derivante da Umm, “madre”: è 
la comunità universale dei fedeli musulmani conside-
rata nella sua realtà unitaria, quindi non già come una 
“patria” nel senso civile/nazionale del termine (concetto 
assente nell’arabo classico e che fin dall’Ottocento si è 
espresso con il neologismo watan ispirato all’influenza 
e alla propaganda occidentali), bensì come una “matria”.
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Orientamento bibliografico
Mai dimenticare quel che ci raccomandavano i vecchi pro-
fessori del tempo in cui non esistevano né Google, né Wi-
kipedia: qualunque buona ricerca comincia da una buona 
enciclopedia. Ecco quindi l’Encyclopédie de l’Islam, che 
esiste anche in edizione inglese, Encyclopaedia of Islam, 
Leiden, Brill, varie edizioni (l’ultima in 12 volumi, con 
Indice e Supplemento). Si ricorra inoltre a D. Sourdel, 
J. Sour del-Thomine, Vocabulaire de l’Islam, Paris, PUF, 
2002 e a Petit lexique pour comprendre l’Islam et l’islami-
sme, dir. H. Abidi, Paris, Bonnier, 2015.
Per i dati di base: B. Botiveau, J. Cesari, Géopolitique 
des Islams, Paris, Economica, 1997 e A.-L. Dupont, L’Islam 
in 100 mappe, tr. it., Gorizia, LEG, 2015. Da non perdere lo 
scherzoso ma non troppo M. Chebel, Dictionnaire amou-
reux de l’Islam, Paris, Plon, 2004.
Opere generali: S.D. Goitein, Studies in Islamic History 
and Institutions, Leiden, Brill, 1966; Cambridge History 
of Islam, Cambridge, Cambridge University Press, 1970; I. 
Lapidus, Storia delle società islamiche, 3 voll., tr. it., Torino, 
Einaudi, 1993; Islam, a cura di G. Filoramo, Roma-Bari, 
Laterza, 1995. Tra gli aspetti particolari della storia mu-
sulmana, sono da tener presenti: per la penisola iberica, E. 
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Lévi Provençal, L. Torres Balbás, España musulmana (711-
1031). La Conquista, el Emirato, el Califato, in Historia 
de España, dir. R. Menéndez Pidal, Madrid, Espasa Calpe, 
1976; R. Fletcher, Moorish Spain, Berkeley, CA, Univer-
sity of California Press, 1993; sulle crociate, Storici arabi 
delle crociate, a cura di F. Gabrieli, Torino, Einaudi, 1963; 
S. Humphreys, From Saladin to the Mongols: The Ayyu-
bids of Damascus, 1193-1260, Albany, NY, State University 
of New York Press, 1977; E. Sivan, L’islam et la croisade, 
Paris, L’Harmattan, 1968; P. Alphandéry, A. Dupront, La 
Cristianità e l’idea di crociata, tr. it., n. ed., Bologna, Il Mu-
lino, 1974; A. Maalouf, Le crociate viste dagli arabi, tr. it., 
Torino, SEI, 1989; D. Nicolle, Warriors and Their Weapons 
around the Time of the Crusades: Relationships between 
Byzantium, the West, and the Islamic World, Aldershot, 
Ashgate/Variorum, 2003; J. Riley-Smith, Storia delle cro-
ciate, tr. it., Milano, Mondadori, 2009.
Del Corano esistono varie edizioni: consigliamo quella 
classica Il Corano, traduzione e commento di A. Bausani, 
Firenze, Sansoni, 1978. Per gli hadith, ci si limiti per co-
minciare a Vite antiche di Maometto, a cura di M. Lecker, 
scelta e traduzione di R. Tottoli, Milano, Mondadori, 2007. 
Tra le utili guide per leggere e comprendere il Libro Santo, 
B. Scarcia Amoretti, Il Corano. Una lettura, Roma, Caroc-
ci, 2009.
Su cristianesimo e Islam: G. Basetti Sani, Gesù Cristo 
nascosto nel Corano, San Pietro in Cariano (Verona), Il Se-
gno, 1994; U. Bonanate, Bibbia e Corano, Torino, Bollati 
Boringhieri, 1995; al-Hallaj, Il Cristo dell’Islam. Scritti 
mistici, a cura di A. Ventura, Milano, Mondadori, 2007.
Per il rapporto tra Islam, Europa, Occidente, Moder-
nità: W.M. Watt, The Influence of Islam on Medieval Eu-
rope, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1972; N. 
Daniel, Islam and the West, Edinburgh, Edinburgh Uni-
versity Press, 1980; O. Carré, L’Islam laico, Bologna, Il 
210 orientamento bibliografico
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orientamento bibliografico 211
Mulino, 1997; F. Cardini, Europa e Islam. Storia di un 
malinteso, Roma-Bari, Laterza, 1999; H. Bresc, Europa 
y el Islam en la Edad Media, Barcelona, Critica, 2001; D. 
Bellucci, L’Islam e l’occidentalizzazione del mondo, Geno-
va, Effepi, 2002; F. Encel, Géopolitique de l’Apocalypse. 
La démocratie à l’épreuve de l’islamisme, Paris, Flamma-
rion, 2002; A. Laroui, Islam e Modernità, Genova, Ma-
rietti, 2002; F. Mernissi, Islam e democrazia. La paura 
della Modernità, Firenze, Giunti, 2002; J. Goody, L’Islam 
en Europe. Histoire, échanges, conflits, Paris, La Décou-
verte, 2004; M. Jevolella, Le radici islamiche dell’Euro-
pa, Milano, Boroli, 2005; Europa domani. Conversazio-
ne con Tariq Ramadan, a cura di O. Casagrande, Roma, 
Jouvence, 2008; Les Grecs, les Arabes et nous. Enquête sur 
l’islamophobie savante, éd. par Ph. Büttgen, A. de Libera, 
M. Rashed, I. Rosier-Catach, Paris, Fayard, 2009; P. But-
tafuoco, Il feroce saracino, Milano, Bompiani, 2015. Vi 
sono inoltre alcuni aspetti della storia europea e occiden-
tale in rapporto all’Islam che vanno tenuti in particolare 
conto, come l’orientalismo, al cui riguardo sono fonda-
mentali J.W. Goethe, Divan occidentale-orientale, tr. it. a 
cura di G. Cusatelli, Torino, Einaudi, 1990, e l’influenza 
su alcuni autori moderni, per esempio Nietzsche (cfr. C. 
Mutti, Nietzsche et l’Islam, n. ed., Parma, Il Veltro, 2012; 
cfr. anche le illuminanti pagine spengleriane sull’analogia 
tra il fatum latino e il kismet arabo-turco in O. Spengler, 
Il tramonto dell’Occidente, n. ed., tr. it., Parma, Guanda, 
1991, pp. 277-330).
Quanto al diritto musulmano e alla sua complessità, 
una buona introduzione è in M. Papa, L. Ascanio, Shari‘a. 
La legge sacra dell’Islam, Bologna, Il Mulino, 2014.
Sul mondo sciita e l’Iran, importantissimo con il ripro-
porsi della fitna, vanno tenuti presenti almeno: B. Scar-
cia Amoretti, Sciiti nel mondo, Roma, Jouvence, 1994; R. 
Guolo, La Via dell’Imam, Roma-Bari, Laterza, 2007; A. 
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212 orientamento bibliografico
Cancian, L’Iran e il tempo. Una società complessa, Roma, 
Jouvence, 2008. 
Sulla fitna e la sua storia: A. Sfeir, L’Islam contre l’I-
slam, Paris, Grasset, 2013.
Sul fondamentalismo: B. Étienne, L’islamismo radica-
le, tr. it., n. ed., Milano, Rizzoli, 2001; R. Guolo, Il fonda-
mentalismo islamico, Roma-Bari, Laterza, 2002; S. Allie-
vi, Ragioni senza forza, forze senza ragione. Una risposta 
a Oriana Fallaci, Bologna, EMI, 2004; A. Bidar, Lettre 
ouverte au monde musulman, Paris, Les liens qui libèrent, 
2015.
Da segnalare infine tre libri editi tutti nel 2015 e illu-
minanti tanto sulle tecniche mediatiche usate dal nuovo 
terrorismo quanto sull’effettivo sviluppo “occidentalista” 
dell’Islam contemporaneo e, soprattutto, sulle respon-
sabilità del cosiddetto Occidente: M. Maggioni, Terrore 
mediatico, Roma-Bari, Laterza; L. Declich, L’Islam nudo. 
Le spoglie di una civiltà nel mercato globale, Roma, Jou-
vence; N. Chomski, A. Vltchek, Terrorismo occidentale. Da 
Hiroshima ai droni, tr. it., Firenze, Ponte alle Grazie.
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Indice dei nomi
Abadou, Sayyd Foudil, 89.
Abdallah II, re di Giordania, 
208.
Abd el-Khader, 194.
Abdelouahed, Houria, xxn.
‘Abduh, Muhammad, 12, 81.
Abidi, Hasni, 209.
Abramo, 106. 
Abu Bakr, suocero del profeta 
Muhammad, 164.
Acquaviva, Sabino, 22.
al-Adnani, Abu Muhammad, 
164.
Adonis, pseudonimo di Ali 
Ahmad Sa‘id Esber, xxn.
al-Afghani, Jamal al-Din, 12.
Agar, 122. 
Ahmadinejad, Mahmud, 196.
‘A’isha, moglie del profeta Mu-
ham mad, 164.
‘Ali, genero del profeta Mu-
hammad, 80, 82, 208.
Allievi, Stefano, 54n, 212.
Alphandéry, Paul, 210.
Apuleio, xivn.
Arkoun, Muhammad, 142.
ar-Razi, Abu Bakr Muham-
mad ibn Zakariyya, 119.
Ascanio, Lorenzo, 211.
al-Assad, Bashar, xviii, 83, 
165, 171-175.
al-Assad, Hafez, 172.
Augusti, Eliana, 132n.
Averroè (Ibn Rushd), 156.
Avicenna (Ibn Sina), 16, 119, 
156.
Aznar, José María, 184.
al-Baghdadi, Abu Bakr, xiv, 
xvi, xviii, 28, 48, 70, 99, 
110, 164, 207.
al-Banna, Hasan, 12, 136.
Barber, Benjamin R., 72.
Basetti Sani, Giulio, 210.
Bauman, Zygmunt, xix.
Bausani, Alessandro, 104, 210.
Beauvoir, Simone de, 67.
Bellucci, Dagoberto, 72n, 211.
Ben Ali, Zain al-Abidin, 169.
Benedetto XVI (Joseph Ratz-
inger), papa, 148.
ben Jelloun, Tahar, 153 e n, 
154-155, 157-158.
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214 indice dei nomi
Benkiran, Abdallah, 170.
Berlusconi, Silvio, 203.
Berta di Lotaringia, marchesa 
di Toscana, 116.
Bertola, Tiziana, 147n.
Bidar, Abdennour, 146 e n, 212.
bin Laden, Usama, 39, 70, 72, 
99,162, 171, 182.
al-Biruni, 119.
Boccaccio, Giovanni, 17.
Bogart, Humphrey, 22.
Bonacina, Giovanni, 68n, 81n.
Bonanate, Ugo, 210.
Botiveau, Bernard, 209.
Bowen, John Richard, 18n.
Bowering, Gerhard, 70n.
Branca, Paolo, 104n, 107.
Braudel, Fernand, 131.
Bresc, Henri, 211.
Bruno, Marco, xxn.
Bush, George H.W., 39.
Bush, George W., 39-40.
Buttafuoco, Pietrangelo, 62 e 
n, 74n, 211.
Büttgen, Philippe, 211.
Caferri, Francesca, 77n.
Camdessus, Michel, 70n, 73n.
Cameron, James, 171.
Campanini, Massimo, 70 e n.
Cancian, Alessandro, 212.
Canfora, Luciano, 5.
Cardini, Franco, xixn, xxn, 
54n, 111n, 130n, 173n, 211.
Carlomagno, imperatore, 114, 
116.
Carlo Martello, 114.
Carosone, Renato, 22.
Carré, Olivier, 68 e n, 210.
Casagrande, Orsola, 64n, 211.
Cesari, Jocelyne, 209.
Châtillon, Renaud de, 16.
Chebel, Malek, 209.
Chomski, Noam, 52n, 212.
Colonna, Gaetano, 135n.
Cusatelli, Giorgio, 211.
Daniel, Jean, 70n, 73n.
Daniel, Norman, 210.
Dante Alighieri, 9, 106.
Declich, Lorenzo, 77n, 212.
Delacroix, Eugène, 22.
de Libera, Alain, 211.
Di Giacomo, Gegè, 22.
Dupont, Anne-Laure, 209.
Dupront, Alphonse, 210.
Eco, Umberto, 15, 70n, 73n.
Encel, Frédéric, 211.
Endrigo, Sergio, vii.
Erdoğan, Recep Tayyip, 175.
Étienne, Bruno, 212.
Eugenio di Savoia, 130.
Fallaci, Oriana, xii, 54 e n, 55, 
56 e n, 57 e n, 61, 73 e n, 157.
Filoramo, Giovanni, 209.
Flaubert, Gustave, 35.
Fletcher, Richard, 210.
Francesco (Jorge Mario Bergo-
glio), papa, xx.
Gabrieli, Francesco, 14, 210.
Gautier, Théophile, 35.
Genghiz Khan, 127.
Georges-Picot, François, 135 
e n.
Gesù Cristo, 17, 102.
Gheddafi, Muammar, 162, 171-
172, 180.
Gibbon, Edward, 114.
Giovanni, evangelista, 102.
Giovanni Paolo II (Karol Woj-
tyła), papa, 98.
Goethe, Johann Wolfgang von, 
140, 211.
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indice dei nomi 215
Goitein, Shlomo Dov, 209.
Goody, Jack, 211.
Guevara, Ernesto “Che”, 50.
Guolo, Renzo, 16n, 56n, 211-
212.
Guzzetti, Cherubino Mario, 104.
al-Hakim, 83.
al-Hallaj, al-Husain ibn Man-
sur, 210.
Harun ar-Rashid, 116.
Hernández, Jorge, 166.
Ho Chi Minh, 204.
Hollande, François, xvii-xviii, 
171, 173.
Hopkirk, Peter, 133n.
Houellebecq, Michel, 63 e n.
Hulagu Khan, 127.
Humphreys, Stephen, 210.
Huntington, Samuel P., xviii, 
65.
Hussein, sharif hashemita, 134.
Hussein, Saddam, 41, 50, 164, 
166.
Ibn Sa‘ud, Muhammad, 81, 135.
Ibn Ziaten, Imad, 141.
Innocenzo XI (Benedetto Ode-
scalchi), papa, 130.
Jemali, Hamadi, 170.
Jevolella, Massimo, 211.
Jihadi John (Mohammed Em-
wazi), 29.
Jinnah, Muhammad Ali, 12.
Kemal, Mustafa, detto Atatürk, 
84, 128, 136.
Kepel, Gilles, xvin, 14.
Khayyam, Omar, 16, 22.
al-Khomeini, Ruhullah al-
Musavi, 12-13, 48, 56, 73, 
84, 136, 180-181, 194.
Kipling, Rudyard, 140.
Lanzmann, Claude, 67.
Lapidus, Ira, 209.
Laroui, Abdallah, 69 e n, 211.
Lawrence d’Arabia (Thomas 
Edward Lawrence), 17, 35.
Lazzeri, Daniele, 71n.
Lecker, Michael, 210.
Lessing, Gotthold Ephraim, 17.
Lévi, Bernard-Henri, 173.
Lévi Provençal, Evariste, 210.
Lockley, Timothy James, 36n.
Loti, Pierre (Louis Marie Ju-
lien Viaud), 35.
Luttwak, Edward, 71 e n.
Maalouf, Amin, 210.
Machiavelli, Niccolò, vii.
Maggioni, Monica, 212.
al-Mahdi, Muhammad, 82.
Mahmud II, sultano, 133.
al-Maliki, Nuri, 164-165.
Mandel, Gabriele, 207.
al-Massud, Ahmed Shah, 182.
McCarthy, Joseph, 32.
Menéndez Pidal, Ramón, 210.
Merabet, Ahmed, 141.
Merah, Muhammad, 141.
Mernissi, Fatima, 67 e n, 211.
Montesano, Marina, xxn, 173n.
Morsi, Muhammad, 170.
Mosè, 106, 122. 
Mubarak, Hoisni, 170.
Muhammad, profeta, 11, 80, 
106-107, 155, 200, 205.
Muhammad Alì, sultano, 133.
Mujahid, sovrano andaluso, 116.
al-Musta‘sim, 127.
Mutti, Claudio, 211.
Nallino, Carlo Alfonso, 14.
Napoleone Bonaparte, 47, 194.
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216 indice dei nomi
Nasrallah, Hassan, 75.
Netanyahu, Benjamin, 174.
Nicolle, David, 210.
Nietzsche, Friedrich, 11, 211.
Obama, Barack, 174.
Orwell, George, 193.
Pahlavi, dinastia, 12, 96.
Papa, Massimo, 211.
Pasolini, Pier Paolo, 153.
Pea, Enrico, 195.
Piccardo, Hamza Roberto, 207.
Pietro il Grande, zar di Russia, 
130.
Powell, Colin, xii.
Prosperi, Adriano, 203.
al-Qaradawi, Yusuf, 78.
Rachik, Hassan, 68n.
Rafanelli, Leda, 194.
Rahman, Fazlur, 70.
Ramadan, Tariq, 64, 187.
Rashed, Marwan, 211.
ar-Rashid, Harun, vedi Harun 
ar-Rashid.
Reagan, Ronald, 181.
Reza Pahlevi, Mohamed, shah, 
136.
Riccardi, Andrea, 70n, 73n.
Riccardo Cuor di Leone, re 
d’Inghilterra, 17.
Riley-Smith, Jonathan, 210.
Rimsky-Korsakov, Nikolaj An-
dreevič, 22.
Rizzitano, Umberto, 14.
Rosier-Catach, Irène, 211.
Roy, Olivier, 141n.
Said, Edward W., 180.
Saladino, sultano d’Egitto, 16-
17, 127.
Salomon, Ernst von, 50.
Sartre, Jean-Paul, 67.
Scarcia Amoretti, Biancama-
ria, 210-211.
Schmitt, Carl, 11, 50.
Scott, Walter, 17.
Selgiuq, dinastia, 120.
Selim III, sultano, 133.
Sfeir, Antoine, xvin, 212.
Shari‘ati, ‘Ali, 194.
al-Sisi, ‘Abd al Fattah, 170.
Sivan, Emmanuel, 210.
Sourdel, Dominique, 209.
Sourdel-Thomine, Janine, 209.
Spengler, Oswald, 11, 211.
Sykes, Mark, 135 e n.
Taddei, Stefano, xxn.
Talbi, Muhammad, 142.
Tantawi, Muhammad Sayyd, 
200.
Tasso, Torquato, 129.
Tessore, Dag, 107n.
Theron, Charlize, 15, 76.
Tommaso d’Aquino, santo, 9.
Torres Balbás, Leopoldo, 210.
Tottoli, Roberto, 210.
Ungaretti, Giuseppe, 195.
‘Uthman, 103.
Ventura, Alberto, 210.
Vltchek, André, 52n, 212. 
Volkoff, Vladimir, 24.
al-Wahhab, Muhammad ibn 
‘Abd, 81.
Waliullah, Shah, 12.
Watt, William Montgomery, 
210.
Yusuf, Muhammad, 167.
al-Zawahiri, Ayman, 185.
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