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i Robinson / Letture
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Di Mario Isnenghi
nelle nostre edizioni:
Dalla Resistenza alla desistenza. 
L’Italia del «Ponte» (1945-1947) 
Storia d’Italia. 
I fatti e le percezioni dal Risorgimento 
alla società dello spettacolo 
Novecento italiano 
(con E. Gentile, G. Sabbatucci, C. Pavone, V. Castronovo, 
M. Revelli, V. Vidotto, S. Lupo, I. Diamanti)
Ha inoltre diretto:
I luoghi della memoria. 
Simboli e miti dell’Italia unita
I luoghi della memoria. 
Strutture ed eventi dell’Italia unita
I luoghi della memoria. 
Personaggi e date dell’Italia unita 
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Editori Laterza
Mario Isnenghi
Breve storia d’Italia 
ad uso dei perplessi 
(e non)
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Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Finito di stampare nel maggio 2012 
SEDIT - Bari (Italy) 
per conto della 
Gius. Laterza & Figli Spa 
ISBN 978-88-420-9956-7
© 2012, Gius. Laterza & Figli 
Prima edizione 2012
www.laterza.it
Questo libro è stampato 
su carta amica delle foreste, certificata 
dal Forest Stewardship Council
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Per i miei nipoti, fra un po’ di tempo:
Guglielmo, Giulia, Elena, Sebastiano
nati da cervelli in fuga
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 vii
Indice del volume
Avvertenza ix
Il Risorgimento 3
Quando incomincia l’Italia?, p. 5 - «I forti animi», p. 7 - La 
Nazione, p. 9 - Il Popolo, p. 11 - Gli Eroi, p. 13 - Il 1848, p. 20 
- Le gloriose disfatte, p. 26 - L’iniziativa piemontese, p. 30 - La 
spedizione dei Mille, p. 32
L’Italia dopo l’Unità 35
Governanti e governati, p. 37 - Verso fine secolo, p. 42 - Società 
arte cultura: Le donne, p. 45; La scuola, p. 48; La stampa, p. 50; 
Arte e letteratura, p. 53 - Le tre Italie in cammino, p. 56 - La 
grande potenza, p. 59 - L’età giolittiana, p. 61 - I vecchi e i 
giovani, p. 66 - La Grande Guerra, p. 70: L’intervento, p. 74; 
La trincea, p. 77; Caporetto, p. 80; Dalla resistenza alla vittoria, 
p. 83 - Il dopoguerra, p. 84 
Camicia Nera 91
Dalla Marcia su Roma al delitto Matteotti, p. 93 - Il re-
gime fascista: La distruzione della democrazia liberale, p. 97; 
L’educazione dell’Italiano, p. 99; Teatro Italia, p. 101; Arte e 
cultura, p. 103 - Guerre interne e guerre esterne, p. 106 - Dal 
25 luglio all’8 settembre, p. 112 - 1943-45: partigiani, fascisti, 
«zona grigia», p. 116
Il lungo dopoguerra 121
Riparare in grembo alla Chiesa, p. 124 - Due diversi esordi: 
il ’45, il ’48, p. 126 - Dal crollo al miracolo, p. 131 - Gli anni 
Cinquanta fra vecchio e nuovo, p. 138 - Anni Sessanta: aprire 
a sinistra o a destra?, p. 143 - Il ’68 degli studenti, il ’69 degli 
operai, p. 150 - Gli anni della P38 e delle bombe, p. 153 - Il 
nuovo Psi di Bettino Craxi, p. 163 - Fine dei partiti storici, p. 
169 - Gli uomini nuovi, p. 173 - Chi non ci sta, p. 184
Indice dei nomi 191
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Avvertenza
L’editore per cui fu pensata in origine questa variante dei miei 
studi sulla storia d’Italia stava preparando una collana di storia 
destinata ai ragazzi, scritta espressamente per cercare di interes-
sarli e farsi capire da loro. Poi le cose girarono diversamente e la 
Breve storia dell’Italia unita uscì da un altro editore, Rizzoli, nel 
1998, con una pronta ristampa nel ’99. A Milano decidono però 
di prolungare il titolo e di rivolgersi, in generale, a un pubblico 
di perplessi. 
Questi non mancavano allora, non mancano adesso, mentre 
mancava invece il libro, ormai esaurito da anni. Così Laterza se 
lo è ripreso e lo ripropone. Rimangono in copertina i brontolii e 
le riserve dei perplessi, senza farne dei protagonisti: non ci sono 
solo loro ovviamente e il recente 150° dell’Unità lo ha ridimostra-
to. Rimane, soprattutto, la mia intenzione di scrivere chiaro, di 
essere sintetico e discorsivo, non pensando ai miei colleghi, ma 
a un pubblico più largo di non specialisti, e puntando a coinvol-
gerli nella storia del nostro paese: tutt’altro che meschina, diverse 
volte grande e in certi momenti, anche, terribile.
Il lavoro è cambiato poco nelle prime tre parti, Italia risor-
gimentale, liberale e fascista. È cambiato del tutto, perché l’ho 
riscritto per intero, nell’ultima parte, dal 1945 ai nostri giorni. 
Si arriva a Berlusconi, a Bossi. E al governo Monti. 
Mario Isnenghi
Maggio 2012 
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Breve storia d’Italia 
ad uso dei perplessi (e non)
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Il Risorgimento
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 5
QUANDo INCoMINCIA L’ItALIA?
Sembra una domanda strana. C’è sempre stata! – viene naturale 
di pensare. E invece no. Ci saranno «sempre» state la catena 
degli Appennini e quella delle Alpi (anche se sono invecchiate 
strada facendo); il Po, all’incirca, ha sempre seguito il suo corso 
dal Monviso al mare Adriatico (ma ci ha messo secoli per fabbri-
carsi il suo delta); la penisola ha sempre avuto quella sua forma 
di grande stivale, anche quando chi ci abitava non lo sapeva; e i 
mari che la bagnano da tre parti, la bagnavano anche ai tempi di 
Ulisse nell’Odissea, e di Enea nell’Eneide. Non staremo neanche 
a sottilizzare e a dire che tutte quelle rocce e valli e fiumi e sco-
gliere sono e non sono gli stessi di duemila o di mille anni dopo, 
perché intanto intere foreste sono scomparse, le vette dei monti 
sono un po’ meno appuntite perché pure le rocce hanno un loro 
ciclo di vita, il regime delle acque è profondamente cambiato e 
via dicendo. Anche la natura vive e, vivendo, si trasforma. Se 
uno di quelli che abitavano tremila anni fa negli stessi luoghi 
dove ora noi siamo di casa potesse risvegliarsi dal suo sonno 
millenario e andarsene in giro a vedere come si presenta adesso 
quello che era il suo mondo, non riconoscerebbe le cose fatte 
dall’uomo, ma avrebbe i suoi problemi anche con il paesaggio. 
Sarebbe, cioè, «spaesato».
Proprio questo è il punto a cui volevamo arrivare. Che cos’è 
che rende riconoscibile e distinguibile l’Italia? E che cosa fa di 
un paese un paese? Non bastano gli elementi materiali – le rocce 
e i fiumi di cui si parlava sopra –, ci vuole qualcuno che li rico-
nosca: qualcuno per il quale quella piramide di pietra significhi 
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qualche cosa di molto particolare, un monte con un certo nome, 
dove si è arrampicato fin da piccolo e dove va sempre a far legna 
o a funghi. E così via, per tutti gli elementi di carattere naturale 
che costituiscono l’ambiente in cui l’uomo vive. Vivendoci, gli 
uomini hanno aggiunto qualche cosa ai luoghi: sentimenti, ri-
cordi, case, campi, tombe. Storia, insomma, e storie. In capo a 
qualche generazione, quello è diventato il loro paese, una specie 
di prolungamento della loro stessa persona.
Già, ma l’Italia? È troppo grande perché uno ci si immedesi-
mi e per molti secoli, i più – analfabeti e senza carte geografiche 
– neppure sapevano come fosse fatta veramente: era qualche 
cosa di vago che si poteva percorrere se si era soldati, mercanti 
o pellegrini; ma i contadini stavano nel loro villaggio e il mondo 
di fuori era un mistero. C’erano le città, tante, perché l’Italia dei 
Comuni ha conosciuto dopo il 1000 una straordinaria fioritura 
di città e cittadine: ciascuna di poche migliaia o tutt’al più de-
cine di migliaia di abitanti, praticamente ci si poteva incontrare 
tutti all’interno delle mura. Erano città-Stato. Le risse e le sfide 
anche all’interno di un modesto centro urbano erano tutt’al-
tro che rare, ma poi c’era un orgoglio civico che faceva venir 
voglia di costruire le mura più forti, le torri più alte, il duomo 
più sontuoso, la piazza del mercato più ricca di merci. Proprio 
come nei derby calcistici dei nostri tempi,erano i comuni vicini 
l’immediato termine di confronto. Finché questo confronto re-
stava simbolico, passi; molte volte però si trasformava in guerra. 
Firenze contro Pisa, contro Siena, contro Pistoia; Lucca contro 
Pisa; Venezia contro Padova e via seguitando, le repubbliche 
marinare, un comune o una lega di comuni contro gli altri. 1100, 
1200, 1300: se c’è un patriottismo, cioè un «noi», una comunità 
di destini, sono ancora micropatriottismi municipali all’ombra 
delle mura cittadine. Per di più, di un municipio contro l’altro. 
Faranno a chi si mangia il vicino e quindi a chi diventa terri-
torialmente più ampio ai danni degli altri. E anche così – fra il 
1300 e il 1500 – si passa dai comuni alle signorie, dalle città-Stato 
agli Stati regionali: si formano allora diverse città-capitali (Mila-
no, Venezia, Firenze e poi Roma con il papa, il Regno di Napoli, 
il Ducato di Savoia). Ma allora, l’Italia?
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Come realtà politica unitaria, non esiste. Sul piano commer-
ciale, culturale e artistico, le cose vanno molto meglio. Gli Stati 
della penisola sono meno estesi di quelli che nel frattempo, e 
poi nel Seicento e Settecento, vengono formandosi in Francia, 
Spagna, Inghilterra e nell’Impero. E comunque, i Veneziani si 
sentono cittadini della Repubblica di San Marco e così via in 
ogni Stato della penisola – con maggiore o minore senso civico 
a seconda dei periodi e anche delle classi sociali, più o meno 
vicine al potere. Le patrie, insomma, rimangono tante e – sino 
alla fine del 1700 – l’idea di una patria comune a tutti gli abitanti 
dell’Italia la coltivano in pochi. Certo, Dante Alighieri nella sua 
Divina Commedia depreca con grande calore le divisioni politi-
che dell’Italia del 1200 e 1300; qualche decennio dopo un altro 
grande poeta, Francesco Petrarca, scrive una dolorosa canzone 
All’Italia; e nel Principe un osservatore politico della grandezza 
di Niccolò Machiavelli ripropone, al principio del Cinquecento, 
il sogno di un’Italia unita. Il nome, insomma, circola e tiene viva 
l’idea. E non solo fra i poeti o fra i giuristi e gli storici, che posso-
no riandare ancora più indietro nel tempo e scrivere di quando 
Roma era grande e dettava legge al mondo, ma strada facendo, 
anche, unificava l’Italia.
«I FoRtI ANIMI»
Lingua, cultura, arte; e il senso di avere un grande passato, più 
grande di quello degli altri popoli, che è un capitale di cui nutrir-
si ed essere orgogliosi, ma anche umiliati e feriti se non si riesce 
a esserne degni. Sono gli elementi su cui, tra fine Settecento e 
primo ottocento, parte la rivendicazione che l’Italia, potenzial-
mente, esiste, perché c’è da secoli una cultura italiana; e anche 
uno spazio geografico, un territorio fisicamente ben definito che 
è l’habitat di tutti quegli illustri pensatori, architetti, pittori, ma 
anche condottieri e artigiani (le «arti», infatti, nel senso di una 
tradizione di eccellenza tecnica individuale, sono numerose e gli 
«artisti» italiani sono rinomati e richiesti da secoli in tutta Euro-
pa: ingegneri, orafi, musicisti, teatranti, tessitori e via dicendo). 
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Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo sono fra i più eloquenti uomini 
di lettere che evocano l’Italia e gli Italiani, che puntano cioè a 
costruire e diffondere un senso di identità collettiva, capace di 
unificare chi è «dentro» i confini e di differenziarlo da chi ne 
è «fuori»; ma lo fanno anche altri, Leopardi, Manzoni, Nievo e 
una folla di minori e minimi.
All’interno di un poemetto intitolato Dei Sepolcri – che non 
per niente è diventato una lettura obbligata per generazioni di 
studenti italiani – Ugo Foscolo scrive un verso che è quasi una 
parola d’ordine. Qualcuno dei lettori se lo ricorderà: A egregie 
cose il forte animo accendono / L’urne de’ forti... Soggetto, le 
tombe. Forse è un po’ lugubre, ma i versi sui cimiteri erano 
anche, all’epoca, un genere letterario. Però in quel verso c’è 
tutto: il rapporto fra i morti – i grandi morti, coloro che in vita 
hanno fatto qualche cosa di speciale – e i vivi, o per lo meno i 
migliori fra i vivi; cioè il rapporto di ispirazione ed emulazione 
fra il presente e il passato. Bisogna tener conto di due cose: pro-
prio perché la penisola – da Roma antica in poi – aveva questo 
grande passato, poteva uscire schiacciata dal confronto; e infatti 
da secoli l’Italia era vista dagli altri come il «paese delle rovi-
ne» e il «popolo dei morti». tutti quelli che potevano venivano 
a visitarla, dalla Francia, dall’Inghilterra, dai paesi del Nord, 
sempre innamorati dei suoi cieli azzurri e dei suoi monumenti; 
era il famoso viaggio in Italia, roba da figli di ricchi, nobili o 
borghesi, ma anche da artisti o aspiranti artisti. Al rispetto e 
all’ammirazione per il passato, potevano benissimo mescolarsi 
la negligenza e il disprezzo per quello che intanto, agli occhi di 
molti, era diventato un popolo di camerieri, osti, guide, briganti, 
tutt’al più mercanti e letterati, ma disunito e povero di prestigio 
politico e militare: vaso di coccio fra vasi di ferro, all’epoca delle 
grandi monarchie, con tutti quei suoi staterelli. Luoghi comuni, 
in parte, ma tali da incidere fortemente, non solo sulle relazioni 
internazionali, ma anche su come gli stessi abitanti del paese dei 
morti vedevano se stessi.
Adesso dovrebbe risultare più chiara l’importanza dell’ope-
razione tentata da Foscolo. Era il 1807, quando si innalza quella 
specie di grido di riscossa che sono i Sepolcri; due anni dopo, 
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lo stesso poeta, diventato professore all’Università di Pavia, si 
inventa un’altra bella espressione: O Italiani, io vi esorto alle 
storie. E voleva dire, intanto, di sentirsi «Italiani», cittadini di 
una stessa Nazione, anche se ancora divisi e sottomessi; e poi 
che bisognava guardarsi indietro per farsi forza e prendere lo 
slancio: quello che si era stati e che si era stati capaci di fare in 
altre epoche, si poteva e si doveva rifarlo.
Sembra un discorso libresco, roba da letterati; e lo è. Però è 
successo anche ad altri popoli – e continua a succedere, anche ai 
nostri giorni: si pensi all’ex Unione Sovietica e all’ex Iugoslavia 
– di sentirsi rivivere prendendo forza dal passato: magari anche 
con forzature, un poco inventandoselo.
LA NAzIoNE
L’Italia di cui si comincia a parlare, scrivere e sognare nei primi 
decenni dell’ottocento è molto più che una somma di paesi e 
città, è – o per lo meno si pretende che sia e che si senta – una 
Nazione. Il passo successivo da compiere sarà lo Stato nazionale. 
Vanno costruiti tutt’e due, rappresentano cioè una scelta e un 
progetto, sia la Nazione che lo Stato. Per quest’ultimo sembra 
più ovvio: potrà essere concepito in un modo o nell’altro, ma è 
fatto di istituzioni, apparati, uffici, dal governo ai tribunali, alla 
polizia ecc. E perciò nasce e si trasforma nella storia. Ma oggi si 
pensa che neanche il sentimento nazionale sia qualche cosa di 
«naturale» – cioè che c’è «sempre» stato –, ma che esso nasca e 
si trasformi nella storia: può esserci o no, può essere vissuto con 
forza o poco o per niente. Ebbene, negli anni di cui stiamo par-
lando – centocinquanta, duecento anni fa, che nella storia degli 
uomini sono pochissimo – si sviluppa una lotta fra i conservatori 
e gli innovatori. I primi vorrebbero conservare i vari Stati eu-
ropei così come si sono riassestati dopo la rivoluzione francese 
del 1789 e dopo la modernizzazione violenta imposta un po’ 
in tutti i campi da Napoleone Bonaparte: sconfitti la Francia e 
l’imperatore, è stato ripristinato l’Ancien Régime, comandano di 
nuovo i sovrani, che sono stati restaurati in tutto il loro potere, 
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che è quindi ritornato assoluto, cioè non limitato da Costituzio-
ni o parlamenti; e accanto a loro gli aristocratici e i proprietari 
terrieri; ai popoli tutti spiegano – lo fanno soprattutto i religiosi 
delle varie chiese– che va bene così, perché il potere viene da 
Dio e quell’idea della sovranità popolare era stata proprio una 
follia e un sacrilegio. Non parliamo poi della repubblica, altra 
idea storta da dimenticare. ordine, gerarchia, autorità: questi 
sono i valori, nel tempo della Restaurazione e della Santa Allean-
za – come ripetevano – fra Trono e Altare.
Come si vede, fra quegli ipotetici «valori», la Nazione non 
c’è. Anzi, chi ne parla viene trattato da ribelle. Certo, ribellarsi 
nel nome della libertà e dell’indipendenza nazionale è una ma-
niera diversa di ribellarsi rispetto a quella di chi – nel passato o 
nel futuro – si ribella nel nome della giustizia sociale o addirittu-
ra dell’Internazionale dei popoli. Ai movimenti di affermazione 
nazionale possono infatti partecipare sia i ricchi che i poveri 
– se si sentono Italiani –, ma il discorso vale anche per gli altri 
«risorgimenti nazionali» dell’ottocento: Ungheresi, Polacchi, 
tedeschi ecc. Ricordiamoci del triplice motto di ribellione che 
la rivoluzione francese aveva fatto risuonare e diffuso in tutta 
Europa, e anche in Italia: Libertà, Uguaglianza, Fraternità. Di 
queste tre parole – che erano state la bandiera del rinnovamento 
radicale – quelli che vogliono fare l’Italia, che sono più mode-
rati, si ricordano soprattutto della prima, la libertà, e infatti li 
denominiamo liberali; ragionano anche molto di una fratellan-
za patriottica che sarebbe giusto e necessario avere fra Italiani; 
mentre lasciano cadere l’eguaglianza, per la quale non hanno 
interesse, anzi, ne hanno semmai paura, perché ricorda il Terrore 
e Robespierre e sa di socialismo. Se andiamo infatti a vedere chi 
siano i patrioti – nei moti del 1820-21 a Napoli e a torino, in 
quelli del 1830-31 a Modena e anche, in parte, più avanti, cioè 
al tempo delle tre guerre di indipendenza, del 1848-49, 1859 e 
1866 – troviamo conti, marchesi, possidenti terrieri ecc. Gente 
che, parlando in generale, è disposta a battersi per qualche cosa 
che potremmo spingerci a chiamare una rivoluzione politica, 
e anche per forme di modernizzazione tecnica e ampliamento 
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dei mercati, ma non certo per cambiamenti radicali in campo 
economico e sociale.
IL PoPoLo
L’ottocento è il secolo romantico e in quei primi decenni del 
secolo tutti parlano di Popolo, hanno in mente solo il Popolo, 
sembra che non vogliano altro che il bene del Popolo. Ma lo 
fanno sia gli innovatori che i conservatori ed evidentemente ne 
hanno idee diverse. Che i restauratori e gli amici della Santa 
Alleanza vogliano pensare e fare loro, dall’alto, il «bene del 
popolo» – perché il popolo non è capace di dirigersi da solo 
– ci sorprende poco: l’Ordine, la Tradizione, l’Ancien Régime 
sono proprio questo. Se tutto va bene, i sovrani saranno come 
«padri» per i sudditi (sia chiaro: sudditi e non cittadini, cioè 
passivi e non attivi); e lo stesso schema paternalista si ripete 
nelle intenzioni a ogni gradino della scala sociale. Cambia l’idea 
di che cosa sia e possa volere e fare il Popolo se ci trasferiamo 
dal campo dei conservatori al campo degli innovatori. Abbia-
mo detto prima che i liberali vogliono cambiare le istituzioni 
politiche – passare dalla monarchia assoluta alla monarchia co-
stituzionale e parlamentare –, modificare certe leggi, affermare 
certi diritti di libertà (di stampa, di associazione, di riunione e, 
in qualche misura, di voto). In genere, si fermano qui. Ma a un 
contadino del 1820-30-40 o giù di lì – e sono quasi tutti conta-
dini gli abitanti della penisola nella prima metà del secolo – può 
bastare che gli si parli dell’Italia e delle libertà politiche? Non 
gli basta. E infatti, quasi sempre i contadini stanno a guardare, 
non si mescolano alle Speranze d’Italia (1844: è il titolo di uno 
dei libri dell’epoca, del nobile piemontese Cesare Balbo). E 
che stiano a guardare – o addirittura siano contro coloro che si 
battono per la libertà e sono persuasi di farlo in nome del po-
polo – è una delle tragedie dell’epoca; e marca indelebilmente 
il Risorgimento, cioè la formazione dello Stato unitario di Italia. 
Se ne discute da allora. Si poteva fare diversamente? Mal si par-
la di libertà a chi ha fame! – pensa saggiamente Ippolito Nievo. 
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Nievo è un luminoso esponente di una generazione di giovani 
idealisti, aristocratici e borghesi, che si impegna generosamente 
per fare l’Italia; lui, poi, più lucidamente di altri, si rende conto 
e si rode di questa condanna a costruirla, senza che allo sforzo 
delle minoranze corrisponda la partecipazione effettiva della 
maggioranza.
Leggendo il suo grande romanzo – le Confessioni di un Italia-
no, pubblicate nel 1867, ma scritte un decennio prima, a meno 
di trent’anni, fingendo di averne ottanta e di aver vissuto di per-
sona e di poter perciò raccontare tutte le avventure e gli ostacoli 
superati dalla fine del Settecento alla metà dell’ottocento – si 
capisce bene quant’era complesso, e nello stesso tempo esaltante, 
trasformare in Italiani tutti quei Veneziani e Piemontesi, sudditi 
del papa-re e del re di Napoli, cittadini e campagnoli. Per ragioni 
di famiglia, il garibaldino Nievo (era uno dei Mille e muore in 
un naufragio al ritorno dalla Sicilia) ha frequentato e conosce da 
vicino il mondo contadino: è anche lui un figlio di possidenti, 
ma – sarà perché era più sensibile o perché era così giovane e 
capace, insieme, di entusiasmo e di saggezza – non pensa che si 
possa fare l’Italia ignorando i contadini. Altrimenti – osserva – 
faremmo una rivoluzione di superficie. Venti o trent’anni dopo, 
un altro grande scrittore, Giovanni Verga – siciliano questo e non 
veneto come Nievo –, riprenderà la questione in una sua terribile 
novella, Libertà, che racconta fatti realmente avvenuti: siamo nel 
1860, durante la spedizione dei Mille, e in un paese alle falde 
dell’Etna, di nome Bronte, i contadini mettono in pratica quello 
che per loro significa la «libertà» di cui tanto si parla, massacran-
do a colpi di falce e di vanga un gruppo di compaesani ricchi, di 
quelli che vestono diverso e possiedono le terre: la terra, il sogno 
millenario del contadino povero. Cambiare, per loro, vuol dire 
non dipendere più, come sempre, da qualcun altro. Il resto è solo 
fumo di parole. Interviene una squadra di garibaldini di Nino 
Bixio, ne fucila sul posto in quattro e quattr’otto qualcuno, per 
dare un terribile esempio, e altri ne spedisce in carcere e sotto 
processo al tribunale militare. Quando il narratore verista scrive, 
siamo ormai dopo e non più durante il Risorgimento. Verga – che 
è un conservatore scettico, lui stesso possidente, e non condivide 
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certo gli ardori giovanili di Nievo – lo smonta e ce lo fa vedere (è 
solo il suo punto di vista, s’intende, ce ne sono altri diversi) assai 
meno luminoso e più squallido.
Ebbene, su questa faccenda dei contadini che non c’erano 
– o erano dall’altra parte, prigionieri del tradizionalismo dei 
conservatori – si è continuato a discutere da allora. Ne hanno 
scritto economisti, politici e storici, a lungo, fino quasi ai nostri 
tempi. Il succo a cui si è giunti è questo: che i possidenti e i loro 
figli studenti – che sono quelli che troviamo attivi al tempo dei 
moti liberali e delle guerre di indipendenza, diciamo dal 1820 
alla nascita del Regno d’Italia, nel 1861 – hanno fatto quello che 
era logico che facessero e che non è stato poco; ma non pote-
vano fare la rivoluzione sociale contro se stessi, oltre che quella 
politica contro gli Austriaci, il papa, i Borboni e contro tutte le 
istituzioni di vecchio stampo! Non era logico, cioè, che essendo 
dei proprietari mettessero radicalmente in discussione il princi-
pio della proprietà della terra. Così, i contadini non vedevano 
un tornaconto nel muoversi e non erano d’altra parte in condi-
zione – a differenza degli intellettuali e dei giovani borghesi – di 
muoversi per ragioniideali. E gli operai... non c’erano ancora, 
perché nell’Italia di quei tempi l’industria è solo agli inizi. Più 
che fabbriche come le intendiamo noi, ci sono ancora labora-
tori artigiani; e infatti gli artigiani, come molti commercianti, 
sono in diversi casi dalla parte del movimento nazionale; spesso, 
anzi, ne rappresentano la sinistra (cioè l’ala più avanzata), stan-
no con Mazzini, Pisacane, Cattaneo, Garibaldi, preferiscono la 
Repubblica alla Monarchia e la politica dell’azione rispetto alla 
diplomazia dei moderati capeggiati dal conte di Cavour (perciò 
si parla, nel loro caso, di partito d’azione).
GLI ERoI
Se mai – o solo in determinate circostanze, come il 1848 e il 
1860 – vi partecipano direttamente le masse popolari, quella na-
scita della Nazione e dello Stato nazionale unitario che prende 
il nome di Ri-sorgimento (alla maniera di Lazzaro, il popolo dei 
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morti rivive) poggia però sulla presenza e l’opera di un certo nu-
mero di individualità d’eccezione e grandi personaggi; il secolo 
romantico – che non teme di adoperare la parola Genio – ama 
gli Eroi, nel teatro d’opera, nei romanzi, nella vita; e favorisce 
l’espressione delle qualità individuali anche in un buon numero 
di personalità non altrettanto di spicco, però capaci – magari in 
quell’unica occasione per tutta la loro vita – di gesti di coraggio 
e di testimonianze di abnegazione. Il movimento della storia va 
avanti anche così: è la somma dei gesti isolati di una moltitudine 
di anonimi che, in un dato giorno della loro vita, si sono lasciati 
coinvolgere da un’emozione collettiva e hanno dato un proprio 
contributo, grande o piccolo in sé, ma per il quale in quel mo-
mento si rischiava la libertà e persino la pelle, come partecipare 
a una raccolta di fondi, diffondere una pubblicazione proibita, 
nascondere un patriota, curare un ferito, portare materiali per 
erigere barricate, sottrarre l’arma a un Austriaco, gettare proiet-
tili di fortuna da una finestra nei giorni di lotta e, in quelli di at-
tesa, scrivere nottetempo sui muri «w v.e.r.d.i.» (doppio senso 
per il grande musicista del Nabucco e per W Vittorio Emanuele 
re d’Italia). Nei momenti di massimo coinvolgimento, quando le 
minoranze non sono più così sole, soprattutto nel ’48, che è l’an-
no rivoluzionario in tutta Europa, c’è finalmente posto, almeno 
nelle città, per gli uomini del popolo; e anche per qualche forma 
di partecipazione femminile alla causa comune (cucire bandiere 
tricolori, preparare bende e medicine, assistere feriti; in qualche 
raro caso, anche qualche cosa di più combattivo); non mancano 
poi i giovani e i giovanissimi. Dodicenni che scappano di casa 
per andare con Garibaldi, Balilla e tamburini – tra favolosi e 
reali –, i celebri martinitt, cioè i piccoli ospiti dell’Istituto degli 
orfani, che, sgattaiolando fra bombe e fucilate, portano informa-
zioni agli insorti sulle barricate delle Cinque giornate di Milano.
A parte i ragazzi – che vivono una favola vera e giocano a 
un gioco più grande di loro – su questa folta presenza in prima 
fila dei giovani bisogna dire ancora qualcosa. Sono proprio i 
giovani – si può dire per definizione e come in tanti altri casi 
storici di ribellione ideale – i protagonisti della «liberazione» 
dell’Italia. E ci sono buone ragioni – materiali e psicologiche 
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– perché sia così. È verifica comune: non si sarà mai più tanto 
critici dell’esistente, capaci di entusiasmo e di andare oltre le 
consuetudini ed esplorare mondi nuovi, come in quell’età di 
passaggio, sui 15-20 anni: specie se si è studenti – non più ragaz-
zi chiusi in casa e non ancora adulti con responsabilità di lavoro 
e di famiglia – come molti lo erano fra i volontari delle guerre 
di indipendenza (le Università di Pisa e Padova danno origine 
a veri e propri battaglioni di studenti volontari e anche Pavia e 
altre università si fanno onore). Passati quegli anni, molti di loro 
arriveranno a considerare scalmane passeggere quei giovanili 
fervori, quarantottate, con cui non è possibile mandare avanti 
un paese serio. E diventeranno, di norma, quello che le famiglie 
e la loro condizione sociale li avevano predisposti a diventare: 
avvocati, notai, amministratori dei propri beni; e, in campo poli-
tico, da scavezzacolli repubblicani o da camicie rosse che erano, 
savi monarchici e moderati (magari coi figli che gli danno a loro 
volta dei pensieri, perché si lasciano tentare dall’anarchia e dal 
socialismo, come avevano fatto loro innamorandosi di Mazzini 
e di Garibaldi venti o trent’anni prima). È la storia e – dentro 
la storia più grande – la storia degli individui e delle generazio-
ni che si succedono. Importante è intanto, per un popolo, che 
questi «quarti d’ora di poesia» vi siano. Poi si passerà – come 
si disse anche dopo il raggiungimento dell’Unità – alla «prosa», 
cioè all’amministrazione, ai problemi concreti e di governo e a 
far quadrare i conti in tempi più normali. Certamente. Ma biso-
gna anche dire che a quella «prosa» e a quella «normalità» non 
ci si sarebbe mai arrivati, senza – prima – quella «poesia» e quei 
«poeti». Quei morti, quei processati, quegli esuli, di cui sono 
ricche le generazioni che hanno avuto vent’anni «al momento 
giusto», fra il 1820 e il 1860, e si sono entusiasmate e sacrificate 
per le altre. E anche tutti quei sopravvissuti – ovviamente più 
numerosi dei morti – che da giovani hanno fatto qualcosa, si so-
no esposti, e poi, da persone mature, un po’ se ne commuovono, 
un po’ se ne approfittano e un po’ anche se ne dimenticano; o, 
in alcuni casi – tanto sono cambiati strada facendo – arrivano 
magari a vergognarsene. Uno per tutti: Francesco Crispi, fino al 
1860 capintesta repubblicano e garibaldino, e nei decenni suc-
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cessivi – come ministro degli Interni e presidente del Consiglio 
– sospettoso e accanito persecutore di repubblicani, anarchici e 
socialisti, veri e di fantasia, che accusa di minare l’autorità dello 
Stato e di mettere a rischio il risultato di tante fatiche.
Niente di simile a questo – comunque la si consideri, matura-
zione o parabola involutiva – avviene invece nella lunga esistenza 
dei due personaggi-guida: Giuseppe Mazzini e Giuseppe Gari-
baldi, che sono i pilastri su cui poggiano l’azione e ancora di più 
la favola, o, come si dice oggi, l’immaginario del Risorgimento. 
Parleremo, più avanti, di Vittorio Emanuele II, re – prima di Sar-
degna e poi d’Italia –, e del suo grande ministro, Camillo Benso 
conte di Cavour: e vedremo quanto anch’essi siano importanti, 
anzi indispensabili, perché si arrivi a risultati concreti. Ma sono 
Mazzini e Garibaldi – e migliaia di altri, trascinati dalla loro fede 
– a dare al processo storico da cui nasce l’Italia unita una carica 
ideale che trasforma in un Risorgimento nazionale quelle che 
altrimenti avrebbero potuto restare le solite guerre di espansione 
di uno Stato (il Regno di Sardegna) ai danni dei vicini. E sin dal 
principio quella specie di profeta ed educatore della Nazione 
che è Mazzini – un «rivoluzionario di professione» genovese che 
dedica l’intera sua esistenza (1805-1872) a quella sua rigorosa ed 
esigentissima idea della Nazione – si rivolge ai giovani, punta su 
di loro: chiamando – non per niente – Giovine Italia l’organiz-
zazione politica clandestina da lui fondata nel 1831, dopo avere 
cominciato a lottare fra i membri della Carboneria.
Saranno soprattutto i giovani più pensosi e idealisti a nutrirsi 
dei suoi severi richiami ai Doveri dell’uomo (il suo scritto più 
rappresentativo e famoso), ma non bisogna pensare che fossero 
solo i primi della classe o topi di biblioteca, perché la parola 
d’ordine dell’Apostolo era invece Pensiero e azione. Non si trat-
tava solo di riflettere e scrivere proclami, ma anche di agire. ora, 
agire legalmente non si poteva, fra gli anni Venti e trenta, quan-
do Mazzini inizia a dissodare il terreno;bisognava dunque agire 
illegalmente, per diffondere nei vari staterelli della penisola il 
programma della Giovine Italia: Unità, Indipendenza, Repub-
blica. C’era da rischiare continuamente la galera e la forca; o la 
fucilazione, se invece che dall’Austria – nel Lombardo-Veneto o 
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nel Ducato di Modena – si era presi e condannati a morte dalla 
polizia e dai giudici del re di Sardegna. (I Borboni, a Napoli, 
che all’epoca vengono da molti considerati la dinastia e lo Stato 
più retrogradi d’Europa, usano contro i patrioti sia i terribili 
ergastoli delle isole che la messa a morte per impiccagione o 
fucilazione. Nello Stato pontificio il papa-re li fa ghigliottinare: 
stranamente, per chi vede nella Francia della Rivoluzione la fon-
te di tutti i mali!) A Garibaldi – che all’inizio era un semplice 
marinaio e non certo un uomo di lettere e che si può considerare 
il miglior frutto della predicazione mazziniana – tocca di essere 
condannato a morte da Carlo Alberto, perché allora la città in 
cui è nato, Nizza, non è ancora stata ceduta alla Francia e fa par-
te del Regno di Sardegna. Siamo nel 1833 e, su iniziativa mazzi-
niana, il giovane rivoluzionario ha partecipato a un tentativo – 
fallito – di fare ammutinare la flotta sarda; prende il volo appena 
in tempo, prima che lo arrestino, così il tribunale militare lo 
processa e lo condanna a morte in sua assenza. In quella stessa 
occasione, Jacopo Ruffini – uno dei tre fratelli mazziniani – si 
suicida in carcere per timore di non reggere agli interrogatori 
(gli altri due seguono il loro maestro nell’esilio inglese).
Insomma, il problema è moralmente e politicamente inquie-
tante, ma la patria più grande – l’Italia – comincia da uno strap-
po eversivo, la violazione delle leggi vigenti della patria piccola. 
Ci volevano teste calde e fegato. E qui – da questa drammatica 
frattura – il ventisettenne Garibaldi (1807-1882) incomincia la 
sua straordinaria avventura di capopolo avventuroso e amatis-
simo: Eroe dei Due Mondi, perché, fino al 1848, in attesa che 
una nuova occasione di azione maturi in Italia, prende intanto 
le armi contro i tiranni di altre parti del mondo, soprattutto in 
Sudamerica, dove per questo esistono ancor oggi città, strade 
e musei con il suo nome. Intanto Mazzini – il maestro suo e di 
tutta una generazione di giovani ribelli e aspiranti Italiani di 
quegli anni – non abbandona la lotta, anche se deve a lungo 
trasferirla fuori d’Italia, esule in Svizzera e in Inghilterra. Sono 
dunque tutt’e due – e ce ne sono parecchi altri – degli esuli. 
Vent’anni prima, anche Ugo Foscolo, alla fine della sua vita, era 
stato esule in Inghilterra. È una condizione che ben si adatta 
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all’uomo romantico, corrisponde al suo disagio, alla sua duplice 
natura di vittima ed eroe, che non può riconoscersi nella società 
così com’è e da cui si sente oppresso. Costretti poi, come sono, 
a starne lontani per anni, l’Italia appare loro ancora più bella: 
la sentono più «patria» proprio perché ne sono privati. È un 
meccanismo ben noto agli studiosi dell’emigrazione, anche della 
comune emigrazione dei poveri diavoli, che arrivano per così 
dire a diventare Italiani lontano dall’Italia.
Molti sono i tentativi di riaccendere la lotta ispirati da Maz-
zini, tutti, uno dopo l’altro, sconfitti. Fino al ’48 c’è modo solo 
di accumulare delusioni; e processi, anni di carcere, condannati, 
màrtiri. Ma la «religione» civile di cui Mazzini è l’inesauribile 
propagatore – la religione della Patria – si alimenta consape-
volmente del sacrificio dei màrtiri. I più ricordati sono quelli 
del 1844, che prendono il nome dai fratelli Attilio ed Emilio 
Bandiera, i quali seguono uno schema d’azione, si può ben dire, 
classico: organizzano un gruppetto di giovani patrioti e sbar-
cano sulle coste del Regno delle Due Sicilie (in Calabria); la 
speranza è la solita, la stessa che anima anni dopo (1857) un 
altro gruppo di rivoluzionari, quello capeggiato dal napoletano 
Carlo Pisacane, che parte da Genova, sequestrando una nave, 
libera al passaggio i prigionieri dell’isola di Ponza e sbarca pure 
in Calabria, questa volta a Sapri. Quali erano la speranza e il 
calcolo, che si rivelano tutt’e due le volte sbagliati? Siccome tutti 
sapevano che i contadini dell’Italia meridionale avevano condi-
zioni di vita ancora peggiori di quelli dell’Italia settentrionale, 
ci si illudeva per questo che fossero pronti a ribellarsi contro il 
governo borbonico responsabile delle loro miserie. Situazione 
incendiaria, insomma: bastava arrivare anche in pochi, fare da 
fiammifero, e il fuoco della rivoluzione sarebbe divampato. E 
invece non succede così. Non basta essere poveri e affamati per 
avere la volontà e la capacità di agire. La storia del mondo è 
piena di sfruttati che subiscono e non hanno il coraggio di sol-
levarsi. Così, tutt’e due le volte, nel 1844 e nel 1857, i contadini 
meridionali restano a guardare o addirittura aiutano le guardie e 
i soldati borbonici a catturare e a massacrare quegli sconosciuti. 
I due Bandiera e diversi loro compagni finiscono davanti al plo-
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tone d’esecuzione; Pisacane si suicida prima di essere linciato 
sul posto come gran parte dei suoi, e – terribile ironia della sor-
te – all’esecuzione sommaria partecipano anche quei contadini 
che essi erano generosamente venuti a «liberare».
Ma torniamo un momento ai Bandiera per segnalare un par-
ticolare che può aiutarci a capire le difficoltà della situazione e le 
dolorose divisioni che – in quella fase di trapasso – si manifestano 
anche all’interno degli stessi nuclei familiari, oltre che nella più 
vasta società. Attilio ed Emilio sono due giovani veneziani, uffi-
ciali della Marina austriaca, che hanno cercato di propagandare 
le idee nuove fra gli altri giovani ufficiali, come loro, spesso, di 
lingua italiana. Ma il particolare che ci fa capire come la politica 
spaccasse le famiglie è che il loro padre era un ammiraglio della 
Marina imperiale. Questo dimostra che non tutti – lo abbiamo 
sottolineato sin dal principio – credevano che, per essere Italia-
ni, si dovesse puntare all’indipendenza politica. C’erano anche 
coloro che ritenevano di poter vivere onestamente restando sud-
diti rispettosi delle leggi e ricoprendo anche posizioni di potere, 
negli Stati preunitari; magari, come in questo caso, nella Venezia 
ancora austriaca, sudditi di uno Stato sovranazionale: e senza 
per questo sentirsi «al servizio dello straniero», perché lo «Stato 
nazionale» non c’era sempre stato, l’italianità era un principio e 
un obiettivo che stavano affermandosi allora e ancora in conflitto 
con altre idee di cittadinanza e di Stato. Anche questo è un caso 
di quello scontro fra padri e figli che costituisce una delle spin-
te acceleratrici del Risorgimento. Il più famoso dei giudici che 
inquisiscono e mandano sulla forca o nel sinistro carcere dello 
Spielberg Silvio Pellico e gli altri patrioti è il Salvotti, un trentino. 
Già la sua scelta asburgica ci appare significativa; ma i trapassi 
veloci della storia fanno sì che il «tradimento» che persegue co-
me giudice lo affligga anche come padre: suo figlio sceglie l’Ita-
lia e viene processato dall’Austria. Neanche il dottor Mazzini è 
d’accordo politicamente con il figlio (la madre di più, e protegge 
e aiuta quel suo figlio speciale, sempre in pericolo e in giro per il 
mondo); e il padre di Pier Fortunato Calvi è un commissario di 
polizia al servizio dell’Impero, che manda il suo promettente ra-
gazzo a studiare da ufficiale nelle scuole militari austriache: se ne 
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varrà invece Manin come valente capo della guerriglia contadina 
in Cadore durante la rivoluzione del 1848. Si potrebbero fare 
tanti altri esempi. Il conflitto è la cifra dell’epoca e le divisioni – 
dolorose – possono cominciare anche dentro casa.
IL 1848
Giàalla fine del 1847 serpeggiava, da sud a nord, la mobilita-
zione di liberali e democratici per ottenere la Costituzione. Ce 
n’erano di più o meno aperte o tradizionali, ma antitradizionale 
era comunque pretendere dai sovrani assoluti che cessassero di 
essere assoluti, vincolando il proprio potere a una legge gene-
rale dello Stato che dovevano rispettare anche loro. È la strada 
maestra perché i sudditi diventino cittadini. Fra i sovrani e i 
popoli si conduce quello che è anche un balletto. Questa so-
spirata Costituzione è il sovrano che la concede – facendola 
cadere dall’alto e perpetuando così in maniera moderna il suo 
paternalismo – o sono gli altri che gliela impongono, quelli che 
parlano in nome del «Popolo»? Fatto sta che, nel giro di poche 
settimane, al principio di quell’anno dei portenti in cui la storia 
sembra si sia messa a correre, ci si arriva dappertutto: cede 
per primo quello che meno ci si aspettava, il più retrogrado 
di tutti, quel Ferdinando II di Borbone, che aveva la Sicilia in 
ebollizione già da mesi. E poi, con effetto a cascata, lo seguono 
gli altri: Leopoldo II granduca di toscana, Carlo Alberto re 
di Sardegna e Pio IX, che da quando, due anni prima, è stato 
eletto, viene esaltato come il «papa liberale»: una formula, all’e-
poca, imprevedibile e strana, come mettere insieme il diavolo 
e l’acqua santa.
A Milano e a Venezia la sfida fra governi e popolo è compli-
cata dal fatto che qui, più che altrove, la dinastia regnante (gli 
Asburgo) è ormai sentita come imposta dall’esterno e straniera. 
Ai primi di gennaio Milano conosce la famosa beffa (e contro-
beffa) del fumo: i patrioti, per danneggiare non solo simbolica-
mente le finanze dell’Impero austriaco, fanno a meno di fumare; 
e i gendarmi, per farli morire di voglia, vanno in giro per la 
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città fumando i più bei sigari in commercio. Siamo ancora alle 
dimostrazioni simboliche e non violente. Ma il 12 gennaio parte 
la rivolta di Palermo, le truppe borboniche vengono scacciate, 
la Sicilia si dà un governo provvisorio a carattere costituzionale. 
È importante segnalare che l’insurrezione avviene prima a Pa-
lermo che a Milano perché troppo spesso si è portati a pensare 
che il Risorgimento sia stata un’imposizione e un’operazione di 
conquista del Nord nei confronti del Sud.
In realtà, tutta Europa – tra gennaio, febbraio e marzo – è 
punteggiata di focolai di rivolta e grida di libertà, di sovrani che 
corrono ai ripari, di cortei, costituzioni e barricate. Insurrezioni 
e rivolte a Parigi, nella Prussia, in Ungheria, addirittura a Vien-
na – nel centro dell’Impero e del sistema generale della Santa 
Alleanza: la primavera dei popoli! Il 15 marzo, il principe di Met-
ternich, cancelliere dell’Impero e massimo artefice della Restau-
razione (è quello per il quale l’Italia non è, sprezzantemente, 
che un’espressione geografica senza alcun diritto politico), deve 
scappare da Vienna e l’imperatore è costretto a patteggiare con 
gli insorti. Sembra davvero il passaggio da un’epoca all’altra. 
Se ci si ribella a Vienna per mutare la natura delle istituzioni, 
nei domini austriaci in Italia c’è una ragione in più per farlo: 
la crescente idea che ci sia popolo e popolo e che ciascun po-
polo debba essere libero e indipendente in casa propria. Ed 
ecco, il 17 marzo si muovono i Veneziani, che in pochi giorni 
organizzano una Guardia civica, liberano i prigionieri politici 
e trovano in Daniele Manin, avvocato, un capo popolare abile 
e determinato. Rinasce in nuove forme e con spiriti nazionali e 
unitari la Repubblica di San Marco. Fa proprio il tricolore e ci 
mette in mezzo un bel leone: proprio come fanno in Piemonte, 
dove però alla bandiera nazionale si aggiunge nella fascia bianca 
centrale il simbolo dei Savoia. Non è mica facile cancellare il 
passato e unire d’un tratto storie diverse. Nel resto del Veneto 
la soluzione «piemontese» risulta maggioritaria nel giro di pochi 
mesi; a Venezia l’oscillazione fra i più innovatori – tendenzial-
mente repubblicani – e gli innovatori più prudenti – propensi 
ad appoggiarsi al Piemonte e a riconoscersi nella monarchia dei 
Savoia – caratterizzerà i 17 mesi del «lungo ’48»: la sua glorio-
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sa resistenza «ad ogni costo» agli Austriaci che la bombardano 
avverrà sotto bandiera repubblicana. E non è fatta solo da Ve-
neziani. Arrivano volontari da tutte le parti – in particolare da 
Napoli: Pepe, Ulloa, Rosaroll, Poerio, che sono fra i capi e fra i 
caduti della resistenza, dal forte di Marghera e dal ponte della 
ferrovia. È un segno che i sentimenti unitari si vanno concreta-
mente facendo strada e che chi è di Napoli può essere patriota 
a Venezia, e gli uomini del Nord scendere a combattere a Roma 
o più a sud.
Dal 18 al 22 marzo, Milano dà vita alle Cinque giornate, de-
stinate a essere e a fissarsi nella memoria come la più grande vit-
toria di popolo dell’intero movimento di affermazione nazionale 
(ma è un avvenimento di portata europea). I fatti si coloreranno 
di leggenda, ma alla base c’è la realtà concreta di un esercito 
regolare di molte migliaia di uomini costretto a sloggiare, con 
tutti i suoi cannoni, da una insurrezione popolare, armata con 
armi di fortuna o tolte al nemico, e nella quale c’è posto per 
l’entusiasmo e la partecipazione di tutti, donne, bambini e se-
minaristi compresi.
Capisce subito che la situazione si fa brutta il vecchio e spe-
rimentato comandante delle truppe imperiali – il generale Ra-
detzky – che si vede sorgere d’improvviso sotto gli occhi quella 
imprevedibile forma di guerriglia di strada. Le barricate erette 
nelle vie di Milano sono più di mille già il secondo giorno di 
lotta. Lo sappiamo anche da Radetzky, testimone ostile. Carlo 
Cattaneo, che è il suo diretto antagonista come capo militare 
degli insorti, ne conterà alla fine qualche altro centinaio in più. 
È l’arma di difesa collettiva – valida soprattutto contro la caval-
leria – e il massimo simbolo visivo della partecipazione popolare 
alle lotte contro il potere e le armi del potere, tipica dell’ot-
tocento romantico; generazioni più scettiche o ciniche guarde-
ranno con sufficienza a questi sforzi. Intanto, però, il terribile 
Radetzky viene costretto alla ritirata, mentre dalle torri e dai 
campanili di Milano si innalza nel cielo un gran numero di pal-
loncini destinati a portare notizie fresche alle città e campagne 
della pianura padana. La rivolta, infatti, è in atto o sembra sul 
punto di scatenarsi anche in altri centri; anzi, Cattaneo – diven-
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tando pochi mesi dopo anche uno dei primi cronisti e testimo-
ni dell’insurrezione di Milano – rimpiange la grande occasione 
perduta: non si è riusciti infatti a fare entrare in azione anche la 
provincia e i contadini. Secondo lui era la volta buona. Questo 
esponente della borghesia lombarda è un intellettuale di idee 
moderne e avanzate, ha una formazione economica e statistica, 
chiama «Politecnico» il suo periodico; e non vorrebbe né un’I-
talia monarchica sotto i Savoia, né una repubblica unitaria alla 
maniera di Mazzini. Secondo lui, infatti, la penisola ha struttu-
re economiche e sociali, livelli di sviluppo e anche storie così 
differenti nel proprio passato, che funzionerebbe meglio uno 
Stato di repubbliche federate fra loro. Dal nostro osservatorio di 
oggi, queste idee possono apparire motivate e lungimiranti, ma 
all’epoca i primi a considerarle astratte e troppo radicali sono i 
nobili milanesi.
Diversi di loro – come quel Gabrio Casati che mettono a pre-
siedere il governo provvisorio – appartengono a grandi famiglie 
proprietarie abituate a primeggiare e a dare ministri a qualsiasi 
governo; l’idea di rinnovare profondamente la società e lo Stato 
– come avverrebbe chiamando all’azione, invece che a una pas-
sività rassegnata, il mondo popolare delle città e, peggio che peg-
gio, delle campagne – non gli sorride davvero.Mentre, nel corso 
delle Cinque giornate, si adattano a partecipare al movimento 
per non essere poi trattati da nemici, spediscono però messaggeri 
a torino, supplicando i loro pari grado – i conti e i marchesi che 
fanno da ministri e generali, ambasciatori e magistrati del re di 
Sardegna – di mandare in tutta fretta l’esercito regio a prendere 
in pugno la situazione. E così sarà: con qualche esitazione, da 
parte di Carlo Alberto (il re-tentenna, come lo chiama sarcasti-
camente il poeta Giosue Carducci), per il timore che – mentre 
vanno a salvare il futuro dell’ordine e della monarchia a Milano 
contro il duplice avversario austriaco e democratico – qualcuno 
intanto, alle spalle, a torino o ancor più a Genova, gli metta su 
la Repubblica. Come infatti, nel ’49, si tenterà di fare.
Quella che chiamiamo la prima guerra di indipendenza è 
fatta anche di queste lotte di tendenza all’interno del campo 
italiano. Così, all’inizio, sembra che principi e popoli, eserci-
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ti e insorti, tutti i vari Stati e le diverse classi sociali, possano 
procedere uniti contro gli Austriaci. Dio e Popolo lo aveva già 
detto Mazzini; ora sembra dirlo anche Pio IX. In realtà, non 
c’è un programma comune. I sovrani sono stati costretti dalle 
circostanze a spingersi più avanti di quel che vorrebbero. Co-
mincia Pio IX a ricordarsi che è il papa di tutti i cattolici, anche 
degli Austriaci e non solo degli Italiani. Così ritira le sue truppe. 
Sarebbe stato naturale se fosse stato solo papa, ma era un papa-
re, regnava sul Lazio, le Marche, l’Umbria e parte dell’Emilia-
Romagna, e anche qui c’erano cittadini che volevano le ferrovie 
e il parlamento, l’allargamento dei mercati e il diritto di voto: 
parecchi, anche, l’unificazione nazionale e persino la repubbli-
ca. Nel giro di aprile e maggio, si sfalda quell’alleanza militare, 
che sembrava realizzare le idee di una federazione di monarchie, 
come quella neoguelfa di Vincenzo Gioberti, o quella incentrata 
sul Piemonte di Cesare Balbo. Rimangono in campo l’esercito 
regolare piemontese di Carlo Alberto e i volontari: il fior fiore 
della gioventù accorsa da ogni parte della penisola. Questa fa-
se della prima guerra di indipendenza sembra dar corpo non 
più alla prospettiva di un ecclesiastico come Gioberti – Italia 
confederata con il papa per presidente –, ma a quella di Balbo – 
anche lui, come Gioberti, piemontese e ministro nel Regno dei 
Savoia – che vedrebbe meglio, come presidente, il suo re, forte 
anche di una collaudata tradizione militare. Qualche scontro 
incoraggiante c’è (Curtatone e Montanara, dove si mettono in 
luce i battaglioni studenteschi, in particolare dell’Università di 
Pisa, e Goito), ma a fine luglio arriva la disfatta di Custoza, 
la sfortunata località del Veronese che vedrà un’altra sconfitta 
italiana anche nel ’66.
I Piemontesi non si fidano a proseguire, abbandonano al suo 
destino la povera Milano insorta e un loro generale (Salasco) fir-
ma un armistizio con gli Austriaci. Armistizio, non pace; e infat-
ti, pochi mesi dopo, nel marzo del 1849, il Piemonte ci riprova. 
Gli tocca subito un’altra sconfitta, a Novara – 23 marzo, una 
delle giornate più infauste dell’intero Risorgimento; e stavolta è 
così grave (siamo per giunta nel territorio del Regno Sardo, un 
bello smacco per chi era partito verso la Lombardia per allar-
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garsi) che si tramuta da militare in politica: Carlo Alberto abdica 
sul posto e gli succede il figlio Vittorio Emanuele II, sotto il cui 
regno (1849-1878) nascerà l’Italia unita. La scelta decisiva – tra 
andare avanti o tornare indietro – il re giovane la deve compiere 
immediatamente: sceglie «bene», cioè nel senso del progresso 
storico e non della reazione, e conferma la validità dello Statuto. 
Abbiamo visto il grande valore simbolico assunto dalle Costi-
tuzioni, di trasformazione e modernizzazione dei rapporti fra i 
cittadini e lo Stato. E poiché in quello stesso momento gli altri 
sovrani, in Italia e fuori d’Italia, stanno in genere revocando le 
Costituzioni che s’erano dovuti rassegnare a concedere l’anno 
prima, ecco che il Regno di Sardegna ci fa una miglior figura, 
dimostrandosi diverso e un po’ meno vecchio e impaurito degli 
altri. È qui una svolta dell’intero processo di formazione dello 
Stato nazionale in Italia, coerente alla scelta, nel ’48, del trico-
lore rivoluzionario – con l’aggiunta dello stemma sabaudo – al 
posto della tradizionale bandiera azzurra. Il Piemonte diventa 
un punto di riferimento anche fuori dei suoi confini e uno Stato-
guida, non più solo per i moderati, ma anche per una parte 
crescente dei democratici. Nello stesso tempo – poiché è pur 
sempre uno Stato, esiste da secoli e si regge su una monarchia e 
una aristocrazia – fa meno paura dei repubblicani, dei volontari 
e delle forze più vicine al popolo, agli altri Stati europei, dove 
pure, intanto, il ’48 è finito e si vanno riassestando i governi 
interessati alla conservazione dell’ordine sociale. Una cruda e 
chiarificatrice prova di realismo il partito della monarchia pie-
montese la dà anzi subito, dopo la sconfitta di Novara: quando 
la seconda città del Regno di Sardegna, Genova repubblicana, 
vorrebbe proseguire la lotta per conto suo, come sta avvenendo 
intanto a Venezia e a Roma, ma accorre l’esercito al comando 
di Lamarmora che riconquista la città a colpi di cannone. Sono, 
queste, vittorie – e sconfitte – che faticheranno ad entrare nella 
memoria collettiva. Si va avanti anche dimenticando. (Un vuoto 
di memoria grottesco lo subiamo a ogni Capodanno: quando 
anche da noi si batte il tempo giulivi al suono della Marcia di 
Radetzky trasmessa nel concerto da Vienna, ignorando o trascu-
rando che il «re del valzer», Johann Strauss padre, la compose 
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in onore del vecchio generale proprio perché aveva represso nel 
sangue il ’48 e rimesso al loro posto gli Italiani.)
LE GLoRIoSE DISFAttE
Gli anni Cinquanta vengono considerati il decennio di prepara-
zione e sono caratterizzati dall’azione diplomatica del ministro 
piemontese Camillo Benso conte di Cavour. Bisogna stare atten-
ti a non anticipare i tempi e a non vedere tutto con il senno di 
poi. Preparazione, ma a che cosa? Non ancora all’unità d’Italia, 
che rimarrà sino alla fine del decennio la scelta strategica di 
coloro che si sono formati nella Giovine Italia. Fra i moderati 
– e per la monarchia piemontese che tende a rappresentare la 
direzione politica anche dei moderati lombardi, toscani, veneti, 
siciliani ecc. – l’idea nazionale si è fatta strada, ma non ne deri-
va automaticamente che appaia realistico e attuale proporsi la 
realizzazione di un unico Stato. Perché ci si arrivi – per molti 
moderati e conservatori inaspettatamente e fortunosamente – 
occorre una serie di circostanze favorevoli, nella stretta decisiva 
del 1859 (seconda guerra di indipendenza), del 1860 (spedizio-
ne dei Mille) e del 1861 (nascita del Regno d’Italia).
Ci arriveremo. Prima, è necessario retrocedere al primo dei 
due decisivi tornanti della vicenda risorgimentale, cioè al 1848-
49 (l’altro è il 1859-60). Abbiamo già cominciato a vedere quanto 
sia diversificata la geografia delle presenze e dei comportamenti 
nel corso del 1848. Bisogna aggiungere ora una serie di varianti 
territoriali del 1848-49 che servono a capire sia il clima, sia quello 
che accadrà dopo. Dovremo parlare di una sconfitta dietro l’altra. 
Disfatte gloriose! Ma sempre sconfitte. Non la si finirebbe mai, 
mettendo l’accento, a preferenza, sul sostantivo o sull’aggettivo. 
In realtà, pesano molto tutt’e due. Pesano nel senso che esprimo-
no atteggiamenti mentali, e non solo di allora. Si diceva prima che 
quella da cui vien fuori il Risorgimento è la cultura romantica, 
amante delle vittime e innamorata degli eroi. Metteteci anche l’o-
pera lirica, il melodramma, che nell’ottocento italiano è proprio 
a casa sua, riempie iteatri – dal San Carlo di Napoli al Regio di 
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Parma, dalla Fenice di Venezia alla Scala di Milano, dal teatro 
Massimo di Palermo al Regio di torino. E, anche lì, nelle trame e 
nelle musiche dell’opera, gli ideali risultano quasi sempre sconfitti 
e i «realisti» fanno sempre, più o meno, la parte dei «cattivi».
Ebbene, questo è il clima verso la metà del secolo e così 
i fatti politici e militari – che quindi finiscono spesso male – 
esprimono e si collegano a questa cultura dell’ideale nobile e 
incompreso. Mazzini e Garibaldi sono temperamenti diversis-
simi, ricoprono parti distinte, hanno anche itinerari politici che 
non sempre coincidono. Però, in comune – con tante altre stelle 
minori del firmamento patriottico – hanno il peso e il fascino 
della sconfitta gloriosa delle minoranze eroiche che pagano per 
le maggioranze. Ed è proprio il 1849 un anno chiave nel radi-
care questa curvatura malinconica e persino tragica nella sto-
ria collettiva dell’Italia allo stato nascente. Da questo punto di 
vista, l’angoscioso ’49 non è meno rilevante del luminoso ’48. 
Naturalmente, quegli anni vanno valutati insieme, anche perché 
i processi che si esauriscono nel secondo avevano preso avvio 
nel primo. Anzi, qualcuna di queste gloriose disfatte avviene 
più precocemente delle altre e cioè già nel 1848: come la gene-
rosa resistenza agli Austriaci della città di Brescia, nelle Dieci 
giornate dal 23 marzo al 1° aprile, che prendono avvio quan-
do finiscono le Cinque giornate di Milano, ma che finiscono 
in un bagno di sangue, fissando nella memoria le due opposte 
immagini della città Leonessa d’Italia e della Iena di Brescia (il 
generale Haynau). Ancora più leggendaria, perché più estesa 
nel tempo – non giorni, ma mesi – la resistenza delle due re-
pubbliche di Venezia e di Roma. La Repubblica Romana nasce 
dopo – il 9 febbraio 1849 – e cade prima (2 luglio); e non solo 
è una repubblica – cosa di per sé indigeribile ai più –, ma viene 
proclamata proprio in casa del papa-re (che fugge e va a mettersi 
sotto la protezione dei Borboni nella fortezza di Gaeta, con una 
significativa scelta di campo); e questo è uno scandalo doppio 
per i difensori dell’ordine e accende invece gli entusiasmi della 
parte più avanzata del movimento nazionale. Vi accorrono sia 
Mazzini – che guida il triumvirato rivoluzionario – sia Garibaldi, 
che capeggia dalle mura di Roma la pugnace resistenza dei vo-
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lontari contro le truppe francesi. Vi muore fra gli altri Goffredo 
Mameli, di cancrena perché la medicina dell’epoca non riesce a 
bloccare le infezioni e anche una ferita alla gamba può portare 
alla morte. Il giovane poeta genovese ha solo 22 anni, ma lega 
per sempre il suo nome al nostro inno nazionale: Fratelli d’Italia 
(la musica è di Michele Novaro).
Nella penisola sotto tutela non sono questa volta gli Austriaci 
a intervenire e fare i gendarmi del papa, ma – paradossalmente 
– i Francesi, essi pure repubblicani: e questo perché, dal suo 
rifugio napoletano, Pio IX ha chiesto aiuto a tutte le potenze 
cattoliche affinché schiaccino a mano armata la rivoluzione e 
restaurino il potere temporale (cioè il potere politico dei papi su 
un territorio, il Regno pontificio). In Francia, in quel momento, 
sta prevalendo la controrivoluzione e il suo capo – l’ex liberale 
Luigi Napoleone, nipote di Napoleone Bonaparte – manda un 
esercito contro i rivoluzionari romani per due ragioni: perché in 
tutta Europa si fronteggiano rivoluzione e controrivoluzione; e 
perché lui, per affermare il suo potere personale in Francia, ha 
bisogno di avere dalla sua il potente partito clericale (nel 1852, 
infatti, diventa Imperatore dei Francesi, col nome di Napoleone 
III; lo ritroveremo ripetutamente presente, come protettore dei 
moderati e antagonista dei democratici, negli sviluppi politici 
e militari del nostro Risorgimento). Il 30 giugno – dopo una 
serie di attacchi e contrattacchi intorno alle mura (400 volontari 
uccisi solo in quel giorno) – i Francesi schiacciano la resistenza 
italiana. Mentre il governo della Repubblica è costretto ad ac-
cettare la resa, l’Assemblea, composta di uomini provenienti da 
ogni parte d’Italia – in un estremo guizzo di orgoglio –, compie il 
gesto simbolico di votare e approvare, il 1° luglio 1849, la Costi-
tuzione della Repubblica. È la legge costituzionale più avanzata 
fra tutte quelle che fanno la loro comparsa nelle vicende di que-
gli anni, il precedente ideale della nostra attuale Costituzione.
Il giorno 2 – dopo un celebre discorso in piazza San Pietro, 
nel quale promette a chi voglia ancora seguirlo solo «lacrime e 
sangue» – Garibaldi inizia l’avventura della ritirata. È una riti-
rata da quel fronte di lotta, ma per andare a riprenderla dove 
ancora la lotta continua. In toscana la sollevazione si è esaurita 
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e il granduca – che è un Lorena, di un ramo degli Asburgo – è 
stato restaurato al potere dalle baionette degli Austriaci (i quali 
perciò comandano più di prima). Braccati da tutti gli eserciti della 
reazione e senza più risorse per tener duro, i 4000 volontari che 
avevano scelto di restare con lui si assottigliano strada facendo, 
finché Garibaldi scioglie ciò che resta del suo esercito al passag-
gio in quella simbolica isola di libertà che è la Repubblica di San 
Marino e rimane con un piccolo gruppo. Mentre il contatto con 
le truppe austriache che li incalzano si fa sempre più immediato, 
Garibaldi vede anche morire Anita, la sposa sudamericana che sta 
al suo fianco anche in battaglia sin dai tempi della guerriglia in 
Sudamerica. Non ci voleva altro che questo tocco di amore e mor-
te – al solito, reale e romanzesco al tempo stesso – per pennellare 
il suo personaggio, che – per innumerevoli lettori di romanzi e di 
spettatori del teatro d’opera – sembra venir fuori dritto dai generi 
artistici più popolari del tempo. Non è possibile qui tener dietro 
agli episodi di questa straordinaria trafila, che è anche una specie 
di Via Crucis laica, da cui fiorisce tutta una aneddotica di lunga 
durata (luoghi, memorie, quadri, stampe popolari, monumenti e 
lapidi). Catturano e fucilano Ugo Bassi – uno dei preti patrioti più 
ardenti –, catturano e fucilano Ciceruacchio – il capopopolo ro-
mano. Garibaldi si salva, ma non gli sarà possibile forzare il bloc-
co austriaco e andare a portare aiuto a Venezia, l’unica che ancora 
resiste, sotto la guida di Daniele Manin. Molti altri patrioti accorsi 
da varie parti della penisola dimostrano comunque come la difesa 
di Venezia abbia assunto carattere non municipale, ma nazionale: 
dei 32.000 difensori della città si calcola che i locali siano il 60%. 
L’assedio si prolunga sino all’agosto, quando la città deve cedere 
alle bombe austriache che la martellano da Mestre: 1000 morti e 
feriti in combattimento e un numero ancora maggiore, anche fra 
i civili, di fame e di colera. Il morbo infuria / il pan le manca / sul 
ponte sventola / bandiera bianca! – conclude amara una popolare 
poesia di Arnaldo Fusinato. Ma queste sono sconfitte onorevoli, 
che non fanno solo male.
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L’INIzIAtIVA PIEMoNtESE
Certo, alla fine, ci vogliono anche delle vittorie. E tutti gli anni 
Cinquanta servono a prepararle. Verranno nel 1859 (seconda 
guerra di indipendenza) e in quell’altro grande momento av-
venturoso – più fortunato del 1848 – che è il 1860. L’iniziativa, 
come si è detto, è passata nelle mani dei monarchici. Cavour – il 
gran tessitore – lavora diplomaticamente a dimostrare a tutti gli 
Stati e a tutti i conservatori d’Italia e d’Europa che ormai ci si 
devono rassegnare. Così com’è, la situazione in Italia non può 
durare, quindi scelgano: o il Piemonte o la rivoluzione!
Benché Mazzini continui a stimolare moti repubblicani – ine-
sorabilmente repressi nel sangue, come quelli nella Milano ritor-
nata austriaca del 1853 –,parecchi di quelli che si sono formati al-
la sua scuola si dimostrano disponibili a rinunciare al più spinoso 
dei tre obiettivi della Giovine Italia, e cioè la repubblica, purché 
l’alleanza con i monarchici piemontesi e filopiemontesi porti a 
raggiungere gli altri due: l’unità e l’indipendenza. È tutt’altro che 
poco, visto che le mosse diplomatiche di Cavour, che sono vòlte 
a controbilanciare l’ostilità austriaca con la benevolenza france-
se e inglese, non prevedono ancora un unico Stato italiano, ma 
– ancora nel 1858 – tre regni, dell’Italia settentrionale, centrale 
e meridionale, più lo Stato pontificio. Comunque, nel 1856, la 
parziale riconciliazione fra moderati e democratici si concretizza 
nella nascita di una nuova associazione patriottica, la Società Na-
zionale, forte di due personaggi del calibro di Manin e Garibaldi, 
che inalbera un’insegna molto chiara: Italia e Vittorio Emanuele. 
Mazzini resta fisso sulle sue posizioni. Pisacane parte ancora mesi 
dopo per la disperata impresa di Sapri. Ma altri membri del par-
tito d’azione – convinti o rassegnati – accettano in un sol colpo 
che l’Italia repubblicana resti almeno per ora un sogno, che nasca 
un’Italia monarchica e che la dinastia sia quella dei Savoia. Con 
questa parola d’ordine esplicita, la spedizione dei Mille – tutti, o 
quasi, di formazione repubblicana e di inclinazioni politiche più 
avanzate – toglierà ai Borboni la Sicilia e il Napoletano.
Prima di questo – che è il momento più alto e decisivo dell’in-
tero ciclo di lotte che denominiamo Risorgimento – si svolge 
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nel 1859 la seconda guerra di indipendenza. È il coronamento 
dell’azione diplomatica di Cavour, basata sulla benevolenza in-
glese e sull’alleanza militare fra il Piemonte e la Francia contro 
l’Impero austro-ungarico (vittorie di San Fermo, Varese, Ma-
genta, liberazione di Milano, grandi e sanguinose battaglie di 
San Martino e Solferino, a sud del lago di Garda). A questa 
dimensione militare si aggiungono e si combinano una serie di 
iniziative politiche e moti insurrezionali in toscana e in Emilia, 
che investono i possedimenti del granduca di toscana, del papa 
e dei duchi di Modena e di Parma e Piacenza. I sovrani sono 
costretti ad allontanarsi e li sostituiscono dei commissari del re 
di Sardegna. Le cose si mettono bene, troppo bene anzi; e così 
Napoleone III – condizionato all’interno dalle forze conserva-
trici e cattoliche – blocca il processo vittorioso con l’armistizio 
di Villafranca (11 luglio). Il Piemonte, messo di fronte al fatto 
compiuto, ci guadagnerebbe la sola Lombardia, con gli Austria-
ci per giunta ancora in possesso delle fortezze del quadrilatero 
(Peschiera e Mantova, oltre a Legnago e Verona). Vittorio Ema-
nuele ci sta, Cavour si dimette. Poi, nei mesi successivi, la situa-
zione internazionale volge in favore delle aspirazioni italiane, 
Cavour torna al governo, riprende le trattative con Napoleone, 
fa valere l’insofferenza delle popolazioni dell’Italia centrale nei 
confronti dei vecchi sovrani, propone scambi territoriali (Niz-
za e la Savoia passano alla Francia). In conclusione, nel marzo 
1860, le popolazioni toscane, emiliane e romagnole votano l’an-
nessione al Regno di Sardegna: sono i cosiddetti plebisciti, di cui 
è ancor oggi facile vedere traccia marmorea sui muri dei munici-
pi locali. Diamo come esempio – altrove le situazioni sono simili 
– il plebiscito tenutosi l’11 e 12 marzo 1860 nel Granducato di 
toscana. L’alternativa messa ai voti è questa: Unione alla Monar-
chia Costituzionale di re Vittorio Emanuele II, ovvero: Regno 
separato. Gli aventi diritto al voto sono 534.000, cioè il 29,6% 
degli abitanti; i votanti effettivi risultano 386.445, cioè il 72,4% 
dell’elettorato. Voti validi: 381.496; voti favorevoli all’annessio-
ne: 366.571; voti contrari: 14.925.
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LA SPEDIzIoNE DEI MILLE
È come all’opera. Il 1860 è il momento culminante. L’aria più 
attesa del tenore, la partecipazione possente di tutto il coro, il 
trepido coinvolgimento del pubblico, il dibattito della critica.
I volontari di Garibaldi partono il 5 maggio 1860 dal grande 
scoglio di Quarto, vicino a Genova, in poco più di mille. Un nu-
mero qualunque, per ora, che diventerà presto leggenda: i Mille. 
Quanti ce ne stanno sui due piroscafi, il Piemonte e il Lombardo. 
Glieli lasciano prendere, non proprio ufficialmente, così come 
avviene per le armi: le carabine più moderne rimangono chiuse 
per precauzione nei magazzini e quelli che si concedono sono 
vecchi catenacci. tutto – almeno nelle prime settimane – rima-
ne, da parte dei Piemontesi, all’insegna del doppio gioco. Chi 
sono veramente e che accadrà di questi matti che partono in 
mille contro centomila? Va bene l’entusiasmo, va bene il roman-
ticismo, ma la cosa più probabile è che vengano gettati a mare 
subito. Dopo tutto, la flotta borbonica è la prima marina della 
penisola. Ma – prima ancora di questo calcolo delle probabilità 
basato sui rapporti di forza – i moderati non si fidano mai del 
tutto dei democratici e sono preoccupati che possano ripren-
dere l’iniziativa; tutta l’Europa amante dell’ordine è lì pronta 
con le armi spianate, contro quei rossi rivoluzionari e chi gli 
tiene il sacco. È un equilibrio sottile. I Borboni provano a ripe-
tere con Garibaldi la manovra che gli è riuscita tre anni prima 
con Pisacane: lo definiscono filibustiere, brigante e cercano di 
sollevare contro lui e i suoi gli antichi terrori delle popolazioni 
costiere contro le incursioni dei pirati turchi. Ma questa volta il 
gioco non riesce. Anzi, dopo lo sbarco a Marsala (11 maggio), 
il proclama di Salemi (Garibaldi assume la dittatura in nome di 
Vittorio Emanuele) e la decisiva giornata vittoriosa sulle balze di 
Calatafimi (15 maggio), i Mille vedono accorrere al loro fianco 
molti altri: un certo numero di Siciliani e, via via, dalla penisola, 
i volontari di successive spedizioni. L’entrata a Palermo, a fine 
giugno, è facilitata da un’insurrezione popolare e tutta la città si 
copre di barricate antiborboniche come Milano nel ’48 di barri-
cate antiaustriache. Nuova vittoria garibaldina a Milazzo (20 lu-
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glio). ormai la situazione è cambiata. I 1000 stanno diventando 
50.000. Corruzione e scoramento dilagano fra i Napoletani, con 
il sospetto che sempre più serpeggia di appartenere al passato 
e di avere torto di fronte alla storia. tanto più che alla patria 
italiana, al posto della patria napoletana, sono già da prima in 
non pochi a crederci: il ’48 c’è stato anche a Napoli. Da una 
parte, quindi, l’esercito e il regno di Francesco II di Borbone 
non tengono più; dall’altra, Cavour e i moderati hanno capito 
che quegli uomini dalla Camicia Rossa fanno sul serio – troppo 
sul serio! – e che è necessario correre ai ripari, se non si vuole 
perdere il controllo politico delle operazioni.
Il tentativo di anticipare l’arrivo delle Camicie Rosse a Napo-
li, favorendo una mezza insurrezione filopiemontese nella capi-
tale del Regno delle Due Sicilie, fallisce. Garibaldi, che penetra 
ormai in Calabria e in Campania senza trovare resistenza, entra 
da trionfatore nella capitale, in carrozza, il 7 settembre. Il giorno 
prima, l’ultimo esponente dei Borboni, il giovane Franceschiello, 
ha abbandonato la città, chiudendosi con la regina Maria Sofia 
nella piazzaforte di Gaeta. Ci vorranno ancora la battaglia del 
Volturno e diversi mesi di assedio per avere ragione delle ultime 
resistenze. Ma intanto il vero scontro non è più quello militare 
con i borbonici: è diventato esplicitamente quello politico fra 
Piemontesi e Garibaldini, cioè fra le due anime del Risorgimen-
to. A mali estremi, estremi rimedi. Mentre i capi repubblicani 
incitano Garibaldi verso Roma e qualcuno anche a rompere l’al-
leanza tattica con i monarchici, riprendendo la propria libertà 
strategica, l’esercito regio riesce, questa volta, ad anticiparegli 
eventi. Lo fa a caro prezzo, perché, scendendo anch’esso da 
nord verso sud, per via di terra, attraversa necessariamente il 
territorio pontificio, battendo le truppe papaline nello scontro 
di Castelfidardo, nelle Marche (18 settembre). È una scelta au-
dace, che non potrà non pesare nei successivi rapporti dello 
Stato italiano con la Chiesa cattolica, ma – almeno nell’imme-
diato – i giochi sono fatti. L’incontro di teano, il 26 ottobre, fra 
Vittorio Emanuele e il capopopolo – militarmente vittorioso, 
politicamente emarginato – sarà freddo e formale. I monarchici 
lo riassumono nella frase di Garibaldi: Saluto il re d’Italia! I 
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repubblicani rilevano con amarezza che il re non si degna nep-
pure di passare in rassegna i volontari (un possibile fattore di 
inquinamento politico per la disciplina, che poi Cavour, in uno 
dei primi grandi dibattiti parlamentari, si rifiuterà di incorpora-
re nell’esercito regolare, dove viceversa entrano numerosi gli ex 
militari al servizio dei Borboni e dell’Austria). Garibaldi, che si 
può definire un vincitore-vinto, parte per l’isola di Caprera. Una 
minuscola «repubblica» autonoma dove – un po’ Napoleone, 
un po’ Robinson, un po’ anche precursore di Sandokan – at-
tende gli eventi e prepara la rivincita. o piuttosto un esilio in 
patria, una forma di arresti domiciliari ai margini della politica? 
Le due cose, insieme.
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L’Italia dopo l’Unità
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GoVERNANtI E GoVERNAtI
I plebisciti, fra ottobre e novembre 1860, chiudono anche qui la 
partita con l’annessione al Piemonte (regioni meridionali, Um-
bria e Marche. Il papa rimane re del solo Lazio). Ma ora, fatta 
l’Italia, bisognava fare gli Italiani: così avrebbe detto Massimo 
d’Azeglio, uno degli esponenti delle grandi famiglie dell’aristo-
crazia piemontese che si sono avvicinati alla causa nazionale 
strada facendo e di coloro che si sono ritrovati «rivoluzionari» 
senza volerlo (ma la divisione delle idee e la contiguità di com-
portamenti antitetici si confermano anche in casa d’Azeglio: un 
fratello di Massimo è un illustre gesuita, redattore di «Civil-
tà cattolica», pilastro della controstoria clericale e dell’ostilità 
all’idea liberale e all’Italia). In realtà, risolta per gran parte la 
questione territoriale, rimane «da fare», in quanto Stato uni-
ficato, anche l’Italia. Il 18 febbraio 1861 si riunisce a torino il 
primo parlamento nazionale. Il 17 marzo viene proclamato il 
Regno d’Italia. La questione di principio se Vittorio Emanuele 
debba rimanere «II» o diventare «I» viene risolta nel senso della 
continuità del Regno d’Italia rispetto al Regno di Sardegna. È 
già un segno di quello che molti non-Piemontesi chiameranno 
presto «piemontesismo». Anche la formula prescelta – «re d’I-
talia per grazia di Dio e volontà della nazione» – rappresenta 
un ibrido: pretendendo di fare andare a braccetto i due princìpi 
sull’origine del potere che si danno battaglia da generazioni – il 
potere viene da Dio o dal Popolo? – i moderati vogliono dare 
un altro segnale, rassicurante per gli uni, delusorio per altri: la 
rivoluzione è finita. D’ora in avanti – chiuso il periodo delle 
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insurrezioni e degli atti illegali – si ridiventa uomini d’ordine. 
Entrando, si capisce, in una nuova stagione. E senza più Cavour, 
che muore improvvisamente, a 51 anni, nel giugno 1861. Non 
ci sono statisti della sua levatura, fra i suoi eredi della Destra 
storica, destinata a guidare il paese nel primo quindicennio di 
vita unitaria.
Subito tante durissime scelte da fare, fra le più drammati-
che due: Aspromonte (1862) e la guerra contro il brigantaggio 
meridionale (1861-1865). Nella foresta sui monti della Calabria 
l’esercito del Regno d’Italia – che pur gli deve tanto – arriva a 
far fuoco su Garibaldi e a ferirlo, mentre opera uno dei reiterati 
tentativi suoi e del «partito d’azione» di forzare la situazione e 
arrivare a Roma, per toglierla al papa e restituirla all’Italia come 
sua capitale naturale e necessaria. 29 agosto, uno strappo ama-
ro e una rivelazione terribile: si può sparare su Garibaldi. Una 
considerazione non edulcorata del Risorgimento deve prender 
atto anche di questo: che il sanguinoso scontro simbolico è una 
tragedia in senso stretto, se i grandi autori tragici della Grecia 
classica spiegano che la «tragedia» c’è quando tutti e due i con-
tendenti hanno ragione; e non – troppo facile! – uno ragione 
e l’altro torto. Qui le ragioni dei volontari sono ovvie, liberare 
Roma, come si è fatto nel 1860 con l’Italia meridionale: non è 
ancora finita, il Risorgimento rimane incompiuto. Le ragioni del 
governo italiano sono che non ci possono essere contempora-
neamente due politiche estere; e quella del governo è arrivare a 
Roma con calma, senza far troppo arrabbiare il papa-re e pro-
vocare l’intervento dei suoi protettori, a partire dalla Francia di 
Napoleone III.
Seconda, violenta scelta dettata dalla ragion di Stato: una vera 
e propria guerra «sporca», la prima combattuta dal Regno neo-
nato. Paradossalmente, questa guerra su una «frontiera» inter na 
l’esercito nazionale la conduce contro una parte della Nazione, 
in quell’Italia meridionale che appena pochi mesi prima ha vi-
sto svolgersi la favolosa avventura dei Mille. ora, per spegnere i 
focolai rivoltosi, di militari ce ne vogliono 100.000. Fra i veri bri-
ganti, ci sono in realtà poveri contadini affamati; e non mancano 
disertori, renitenti alla leva ed ex militari disoccupati e allo sban-
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do dei disciolti eserciti. Inoltre, su questo sottofondo diffuso di 
ribellismo e insubordinazione sociale – quasi una aurorale lotta 
di classe – soffiano interessati i Borboni di Napoli, il papa e la 
reazione internazionale dei cosiddetti legittimisti (i nostalgici del 
passato, difensori del «potere legittimo» dei sovrani spodestati). 
L’inchiesta parlamentare del 1863 mostra di comprendere che il 
fenomeno, complesso, è anche «la protesta selvaggia e brutale 
della miseria contro antiche e secolari ingiustizie». In pratica, 
però, la repressione armata è durissima, con molti fucilati sul 
posto, processi, esecuzioni capitali, anni e anni di carcerazione: 
circa 5000 insorgenti – veri e presunti – uccisi e 5000 incarce-
rati. Comincia anche così a manifestarsi quella che verrà pre-
sto chiamata la questione meridionale. Un insieme di dislivelli 
economico-sociali e diversità di storia e di culture, fra il Nord e 
il Sud del paese, che mostra quanta strada ci sia da fare per unifi-
care materialmente e mentalmente sia l’Italia che gli Italiani. Fra 
i problemi impellenti l’enorme debito pubblico accumulato con 
le guerre; come fondare o rifondare su scala più estesa – oltre che 
la monarchia, il governo, il parlamento – le leggi, l’economia, il 
fisco, la diplomazia, le ferrovie, l’istruzione pubblica, l’esercito: 
la lunga leva obbligatoria non è fatta per conciliare al Regno d’I-
talia le simpatie di quella parte delle popolazioni, in particolare 
contadine, che prima non l’avevano conosciuta; tanto più che 
esiste la possibilità di una surroga, e cioè chi paga può manda-
re un altro a fare il soldato al posto suo, assolvendo l’obbligo 
di leva per interposta persona. Un’ingiustizia? Un’ingiustizia. E 
un’altra dura scelta di classe e un’ingiustizia è la tassa sul (gra-
no) macinato, la più odiata di tutte dalla povera gente, poiché 
la colpisce nell’alimento primario: il pane. Viene applicato una 
specie di contatore alle macine dei mulini, fa anche questo parte 
della «politica della lesina» in vista del pareggio del bilancio cui 
lega il suo nome il ministro delle Finanze, l’ingegnere minerario 
e imprenditore tessile piemontese Quintino Sella: una scelta da 
statista, se vogliamo; ma anche l’esplicitazione della natura socia-
le e politica dei governidella Destra storica (che trova riscontro 
nel diritto di voto ristretto a meno del 2% della popolazione, del 
resto snobbato da molti dei potenziali elettori). Nel 1861 il 60% 
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degli abitanti vive di agricoltura, ma il grosso non fa mercato, 
campa di quel poco che produce. Far pagare una percentuale su 
quanto si è macinato mette alla disperazione i contadini pove-
ri, perché non si può sfuggire alla diabolica macchinetta e soldi 
liquidi in tasca loro non sono soliti averne; inoltre, rendendoli 
esattori di questa tassa, metterebbe ogni giorno i mugnai contro 
i contadini. Così i mugnai si rifiutano e i contadini – nel gennaio 
del 1869 – entrano in ebollizione un po’ dappertutto, nell’Italia 
settentrionale e centrale, con epicentro in Emilia. La lettura dei 
moti del macinato da parte dei prefetti è che il partito repubbli-
cano e il «partito pretino» si diano la mano per sobillare i con-
tadini; in realtà, se qualcheduno magari ci prova, il movimento 
resta sostanzialmente spontaneo e privo di una guida. Così viene 
spento a forza, non senza 200 morti contadini. A guidare la re-
pressione è il generale Raffaele Cadorna, un «duro» che nel 1866 
aveva domato a cannonate una confusa rivolta a Palermo e il 20 
settembre del ’70 legherà, più nobilmente, il suo nome alla presa 
di Roma.
Per procedere, dobbiamo fissare un minimo di punti fermi, 
cioè date che corrispondono a fatti salienti. Partiamo dal 1864, 
da ricordare per tre ragioni: Pio IX emana un rigidissimo docu-
mento, il Sillabo, con cui si può dire scomunichi l’intera civiltà 
moderna (libertà, diritti, istruzione ecc.) perché a suo dire vuol 
fare senza Dio e senza la Chiesa. In questo modo si capisce che 
non ce l’ha solo con quell’ultimo venuto che è il Regno d’Italia 
(non collaborare con gli usurpatori – né eletti né elettori – ha in-
timato immediatamente ai credenti), ma con gli indirizzi generali 
del tempo. Naturalmente – poiché il papa, fino al 1870, mantiene 
il potere politico a Roma e continua anche dopo ad avervi la sua 
altissima sede come Primate di una Chiesa ecumenica – questa 
drastica opposizione interna risulta ancora più preoccupante per 
il giovane Regno d’Italia. È la cosiddetta questione romana. Un 
decennio basta a risolverne un aspetto, con il passaggio a Roma 
della capitale del Regno; ma l’opposizione cattolica farà crescere 
dentro alla scomunicata Italia legale, liberale, laica e anticleri-
cale, un’Italia reale – come la definiscono provocatori i clerico-
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intransigenti – fatta di contadini, aristocratici e (in minor misura) 
borghesi, più vicini ai parroci che ai sindaci.
Il secondo avvenimento del 1864 è di tutt’altro ordine, ma 
delinea anch’esso la nascita di un nuovo avversario dello Stato 
e, in particolare, dello Stato nazionale: l’esordio dell’Internazio-
nale. È la prima volta che il proletariato operaio, i lavoratori e le 
forze politiche che, nei più sviluppati paesi europei, si propon-
gono di rappresentarli compiono una scelta così netta, che va 
oltre la Nazione. In Italia, lo Stato nazionale è appena nato; la 
Prussia non si è ancora trasformata in Germania; nell’Europa 
centrale e orientale, altri popoli e nazioni risultano ancora in 
formazione; ma la storia non si ferma e addita già, per il futuro, 
altri obiettivi e itinerari, in chiave non più liberale, ma socialista.
Il terzo avvenimento del 1864, più contingente, è lo sposta-
mento della capitale provvisoria del Regno da torino a Firenze. 
Qualcuno la vive come una rinuncia a Roma, altri come un av-
vicinamento; e avranno ragione questi, come – il 20 settembre 
1870 – dimostrerà l’entrata dei bersaglieri italiani nella capitale 
pontificia, dalla breccia di Porta Pia: un varco nelle antiche mura 
aperto a cannonate poiché il papa (che sino al 1878 è ancora Pio 
IX, come il re continua a essere Vittorio Emanuele II) sente il 
bisogno di dimostrare al mondo intero che cede solo alla vio-
lenza. Ci voleva determinazione – in un paese in cui gli uomini 
e i simboli della fede cattolica sono da secoli così influenti e lo 
rimangono tuttora fra gran parte dei laici – per portare a termine 
con la forza la presa di Roma, dopo avere sino all’ultimo inutil-
mente tentato le vie della diplomazia. La classe dirigente che se 
ne dimostra capace è ancora quella dei liberali moderati eredi 
di Cavour – la cosiddetta Destra storica, di Ricasoli, Minghetti, 
Sella e altri – che mantengono la guida del governo dal 1861 
al 1876. Eredi di quel governo D’Azeglio che, con il ministro 
della Giustizia Giuseppe Siccardi e le leggi laicizzatrici che da 
lui prendono nome, aveva nel 1850 osato sfidare e annullare gli 
antichi privilegi ecclesiastici: in sostanza l’extra-territorialità e 
la superiorità della Chiesa rispetto alle leggi comuni. Nei primi 
mesi del 1871 il parlamento vota la Legge delle Guarantigie, che 
regola i rapporti fra Stato e Chiesa fissando garanzie di libera 
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azione al papa nell’esercizio delle sue funzioni. È una sorta di 
unilaterale dichiarazione di pace, ma da parte della Chiesa ro-
mana la guerra continua. Nel primo quindicennio del Regno 
d’Italia, una fortunata alleanza militare dell’Italia con la Prussia 
costringe nel 1866 l’Austria a cedere Venezia e il Veneto: è la 
terza delle tre guerre di indipendenza, decisamente la più pove-
ra di gloria (sconfitte per terra, a Custoza, e per mare, a Lissa). 
Ci si guadagna un territorio, ci si perde in immagine: anche se, 
al solito, i volontari di Garibaldi si distinguono. Addirittura, 
Garibaldi era già arrivato non lontano da trento, vincendo nello 
scontro di Bezzecca, quando l’ordine del governo lo blocca. È 
il momento di una delle sue «frasi celebri», che gli riconciliano 
i moderati e lo differenziano positivamente ai loro occhi dal 
più incontrollabile Mazzini: un telegramma con una parola sola: 
Obbedisco.
VERSo FINE SECoLo
Dal 1876, alla Destra succede al governo la Sinistra storica: il 
nome non inganni, si tratta sempre di una corrente interna al 
mondo liberale e monarchico. Qualche possidente aristocratico 
in meno e qualche borghese laureato in legge in più, nel gover-
no, alla Camera dei Deputati, nel ruolo di prefetto o di sindaco; 
insomma, un allargamento della base sociale del potere e della 
composizione della classe dirigente, con un modesto aumen-
to degli aventi diritto al voto. Nel 1882 – quando il suffragio 
viene allargato – su una popolazione di 29 milioni di abitanti 
hanno il diritto di votare poco più di 2 milioni, cioè il 6,9% (le 
condizioni: che siano maschi, abbiano l’istruzione elementare e 
paghino una certa cifra come tasse, sia pure inferiore a quella 
precedentemente richiesta dalla legge). Certo, come espressione 
di democraticità, lascia molto a desiderare e conferma che lo 
Stato l’hanno voluto, costruito e adesso lo governano come co-
sa loro delle minoranze. Sarà bene però ricordare che solo una 
parte di quei pochi che potrebbero votare – il 60% – si prende 
la briga di farlo. È difficile obbligare a esser liberi: anzi, come 
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ha osservato uno storico dei nostri giorni, è proprio un coman-
do impossibile. Diciamo subito – anticipando i tempi – che al 
suffragio universale, o quasi, però solamente maschile, si arriva 
con le elezioni politiche del 1913; e al suffragio effettivamente 
universale, cioè anche femminile, solamente dopo la caduta del 
fascismo – che aveva riportato ancora più indietro le cose – e 
cioè nel referendum istituzionale (monarchia o repubblica?) e 
nelle elezioni per l’Assemblea Costituente del 2 giugno 1946.
Un lungo e difficile processo di democratizzazione delle isti-
tuzioni e del paese. Come ci si arriva? I governi della Sinistra 
storica – fra il 1876 e la fine del secolo – non se la sentono di 
andare oltre qualche modifica delle forme di rappresentanza e 
dei meccanismi elettorali. E qui la situazionerisulta più chiara 
se parliamo di Francesco Crispi, che è il più autorevole dei tre 
personaggi che si succedono al governo in quella ventina d’an-
ni. Agostino Depretis e Benedetto Cairoli, lombardi, e Crispi, 
siciliano, hanno partecipato in prima persona e in posizione 
eminente al Risorgimento. I cinque fratelli Cairoli – pavesi, tutti 
via via volontari e tre di loro morti giovanissimi nei vari fatti 
d’armi – divengono, con la loro madre, simboli illustri della 
«religione della patria». tutti e tre questi politici sono dei bor-
ghesi, uomini nuovi, non nobili piemontesi abituati a comanda-
re da generazioni, vengono da sinistra e si sono però convertiti 
strada facendo alla monarchia. Il dramma di Crispi – una figura 
politicamente complessa – è «scoprire» che quell’Italia per cui 
ha speso la vita (si è battuto sin da giovane, è stato esule per 
anni, e poi fra gli organizzatori della spedizione di Sicilia) ha 
pochi sostenitori, molti nemici e ancor più indifferenti. Quan-
do, ormai anziano (è del 1819), diventa ministro degli Interni 
e poi presidente del Consiglio, la delusione per la lontananza e 
l’estraneità del popolo lo rende più che mai autoritario e «sta-
talista», facendogli vedere «nemici dello Stato» sia a destra che 
a sinistra: fra i neri, intruppati dai preti clerico-intransigenti, e 
i rossi, anarchici, socialisti e anche repubblicani ed ex garibal-
dini che non hanno compiuto il percorso che lo ha portato da 
vari anni a sentenziare: La monarchia ci unisce, la repubblica ci 
dividerebbe.
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ora, questi orientamenti sovranazionali o internazionalisti 
c’erano davvero, anche se a volte – per dare meglio addosso 
alle opposizioni – qualche congiura o rivolta se la inventavano i 
prefetti e i giudici dell’Italia crispina; o umbertina, dal nome di 
Umberto I (1878-1900), figlio di Vittorio Emanuele. Il caso più 
clamoroso di «rivoluzione inventata» si avrà – sulle sue orme, 
ma quando ormai Crispi ha perduto il potere – nei cosiddetti 
fatti del ’98 a Milano: quell’anno, a causa del cattivo raccolto e 
di difficoltà negli approvvigionamenti, c’era meno grano, poco 
pane e così qualche coda un po’ agitata dai fornai dà origine 
a proteste e dimostrazioni di folla. Viene subito proclamato 
lo stato d’assedio, il potere passa ai militari e – come dice una 
angosciosa canzone popolare dell’epoca – il comandante della 
piazza, il feroce monarchico Bava / gli affamati col piombo sfa-
mò. Un centinaio di morti, tutti civili, e proprio a Milano, nel 
cinquantenario delle Cinque giornate. Ci dice tutto un clima. 
Qualche storico ritiene che una parte della classe dirigente, in 
quel momento, pensasse addirittura a un colpo di Stato, per 
riportare ancora più indietro la situazione.
Governare con le maniere forti è una tentazione continua del 
tempo. Crispi aveva decretato lo stato d’assedio e risposto con 
una durissima repressione (tribunali militari, processi esempla-
ri, anni e anni di carcere) anche di fronte a un’altra emergenza 
sociale e politica di qualche anno prima, più reale dell’incubo 
del ’98 per una rivoluzione che non c’era. Sono i cosiddetti Fasci 
siciliani (niente a che fare con i fascisti di venti o trent’anni do-
po!): trecentomila contadini siciliani che si organizzano, fanno 
dimostrazioni, occupano in corteo latifondi (grandi proprietà 
terriere, spesso lasciate incolte, nonostante la fame di lavoro di 
tanti senza-terra). C’è al governo, al principio di questi moti 
sociali, nel 1893, un liberale della generazione post-risorgimen-
tale, il piemontese Giovanni Giolitti, che sembra voler adotta-
re uno stile di governo meno interventista e autoritario; ma il 
grosso della classe dirigente vuol fare la faccia feroce e ritrova 
il suo uomo in Crispi, che torna subito al potere e manda in 
Sicilia l’esercito. Naturalmente, in questo modo, si interviene 
sugli effetti, ma non si risolvono le cause sociali del malcon-
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tento; e così ristagna e incancrenisce la questione meridionale, 
che a lungo e inutilmente additano come centrale grandi meri-
dionalisti, tutt’altro che rivoluzionari, anzi, amanti della patria 
e dell’ordine, ma seri conoscitori della realtà sociale: Pasquale 
Villari (1827-1917), Leopoldo Franchetti (1847-1917), Giustino 
Fortunato (1848-1932) e più avanti il radicale Gaetano Salvemi-
ni (1873-1957). Dopo quelle del 1893-94 e del 1898, una terza 
drammatica emergenza è quella del 1900: il regicidio di Monza, 
cioè l’uccisione a rivoltellate di re Umberto, a opera di un anar-
chico. Un po’ in tutti i paesi gli attentatori anarchici prendono 
di mira a più riprese, in quel giro di anni, i simboli del potere 
costituito, colpendo indifferentemente monarchi e presidenti. 
Le organizzazioni sindacali e politiche socialiste si affermano 
anche col distacco da queste pratiche di lotta settarie e indivi-
dualistiche e con il passaggio all’organizzazione di massa e la 
valorizzazione del voto. Gaetano Bresci – un operaio di Prato 
licenziato ed emigrato – motiva durante il processo il suo gesto 
dicendo di essere tornato apposta dagli Stati Uniti per punire, 
nella persona del re, il responsabile politico dell’eccidio milane-
se di due anni prima.
SoCIEtà ARtE CULtURA
Le donne
Di mezza Italia non parliamo mai: le donne. Si ha un bel cercare 
di non ridurre la storia a politica, ci sono periodi in cui chi non 
è, e non si sente, cittadino è assente dalla sfera pubblica e vive 
tutta la sua esistenza in una dimensione privata, sembra come a 
lato degli avvenimenti e inessenziale. Il Risorgimento – l’età in 
cui la Nazione e lo Stato vengono pensati e realizzati – è appunto 
uno di questi periodi, solo la politica sembra contare. Natural-
mente, la politica in senso alto e impegnato: lotte di principio, 
grandi scelte, associazioni segrete e alla luce del sole, processi, 
guerre, diplomazia. Dove sono le donne? Alcune accompagnano 
il proprio nome a quello dei loro uomini – padri, mariti e figli – 
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che appartengono alla minoranza di coloro che fanno la storia. 
Vivono quindi di luce riflessa: Anita Garibaldi, Adelaide Bono 
Cairoli – madre simbolica di tutto il Risorgimento nazionale, con 
i suoi cinque figli, tutti patrioti e volontari –, Jessy White Mario 
– la giovane inglese fulminata d’amore, a un tempo, per la libertà 
italiana e per il garibaldino dei Mille Alberto Mario –, Costanza 
d’Azeglio, infaticabile corrispondente e informatrice politica del 
figlio, sugli avvenimenti di Corte a torino, ma anche sul ’48 e 
gli avvenimenti politici in giro per questa nuova «cosa» che è 
l’Italia. Abbiamo così citato alcuni esemplari di madre, moglie, 
ispiratrice e compagna di vita, di un modello femminile, insieme, 
antico e rinnovato. Potremmo spingerci avanti e ricordare che 
anche la regina Margherita, per qualche contemporaneo, aveva 
più «testa» politica che il suo regale consorte, Umberto I, anche 
se lo spirito dei tempi la relegava in seconda fila; e che, non senza 
ironia, qualcuno diceva che, anche fra i socialisti, l’«uomo forte» 
fosse una donna, Anna Kuliscioff, anch’essa, comunque, emersa 
in pubblico grazie ai suoi due compagni di vita, successivamente 
capi del Partito socialista, Andrea Costa e Filippo turati.
La maggioranza delle donne, però, non viveva di luce pro-
pria né riflessa nell’arena politica, ma ripeteva, di generazione in 
generazione, compiti e figure di figlia, moglie e madre, «regina 
della casa» e tutrice del privato, anche del privato dell’uomo 
pubblico. La storia delle donne – che rappresenta oggi un ramo 
fiorente della storiografia – ha individuato luoghi e figure in 
cui, restando dominante l’«angelo del focolare» come maniera 
normale e quasi atemporale di essere donna, si profilano bisogni 
e ruoli non più riducibili a quelli domestici. Un luogo tipico di 
espressione ed emancipazione della donna è, nel corso dell’ot-
tocento, il salotto, nato già nel secolo precedentein Francia: 
ricevendo i suoi ospiti – artisti, intellettuali, politici – la padrona 
di casa, ormai non solo aristocratica, anche borghese, favorisce 
e anima una conversazione che, nelle età vive e nei salotti che 
funzionano, si nutre non solo di pettegolezzi, ma di notizie e di 
idee. Gli studiosi di storia sociale danno grande rilievo ai salotti, 
così come ai caffè, ai circoli, ai club – ognuno con le sue regole 
di inclusione ed esclusione (non tutti e non tutte sono ammes-
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si dovunque, ogni società ha i suoi uguali e i suoi disuguali). 
Rispetto ai luoghi di incontro esterni, il salotto ha il pregio di 
essere situato in una casa privata e quindi di non escludere la 
donna, anzi di riconoscerle una sorta di primato.
La storia delle donne va poi riportando alla luce tutta una 
galleria di personaggi – da attrici di prosa a dive del bel canto, a 
scrittrici e poetesse, alle prime laureate in medicina o in lettere 
verso la fine del secolo – che rompono con i modelli femminili 
tradizionali della donna chiusa e risolta all’interno delle pa-
reti domestiche o del convento religioso. Anche un’immagine 
femminile tipica del Risorgimento, cucire bandiere – bandiere 
tricolori: è anche un vero e proprio genere pittorico, fra docu-
mento e mercato – appare antica e nuova: cucire è l’arte della 
donna di casa, sono i tipici «lavori donneschi» cui ognuna viene 
indirizzata sin da bambina. E naturalmente, non è lo stesso 
«far la calza» – che va inteso alla lettera, prima di diventare 
uno sminuente modo di dire – o cucire e sventolare bandiere 
patriottiche, o preparare bende e curare feriti. Il modello tradi-
zionale si modifica così almeno un po’, la dimensione pubblica 
lambisce il privato. Ci sono però delle donne nuove – vere pro-
prie avanguardie di una liberazione della donna da rimandare a 
generazioni future – cui tutto questo non basta. La principessa 
Cristina trivulzio di Belgioioso accorre da Napoli a Milano per 
prender parte al ’48, e ne diventerà poi sponsor e memoriali-
sta nei salotti parigini. In quello stesso ’48, qualche veneziana 
propone la costituzione di un battaglione femminile. Nel ’66, 
ancora a Venezia, aristocratiche e borghesi, con un’istanza in 
cui figura un lungo elenco di firmatarie, chiederanno al re il pri-
vilegio di essere ammesse al voto nel plebiscito per l’annessione 
del Veneto all’Italia. Le lasciano dire, non le prendono in con-
siderazione. Sono solo prime tracce di un’evoluzione contrasta-
ta e faticosa. La carica innovatrice impressa dal Risorgimento 
appare particolarmente impacciata in campi come questo e più 
in generale in quelli del costume: l’educazione in parte, e ancor 
più i matrimoni, i funerali e gli altri riti di passaggio restano 
quelli «di sempre»: cioè quelli sotto il controllo del clero.
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La scuola
Lo vediamo bene nel campo dell’istruzione e dell’educazione. 
Anche il liberale più laico, il «mangiapreti» più incallito fatica 
a immaginare – come maestri dei suoi bambini e ancor più di 
sua figlia – figure diverse da quelle tradizionali della suora e del 
sacerdote: e questo sia che si tratti di precettori privati che, per-
sino, di istruzione pubblica. D’altra parte, il Sillabo è del 1864 e 
in un paese impregnato di cattolicesimo e con il papa a Roma co-
me il nostro, non possono non pesare grandemente la diffidenza 
e la condanna che colpiscono l’idea stessa che i poteri civili si 
facciano carico dell’istruzione dell’infanzia e dell’adolescenza. 
Fra Legge Casati (1859), Legge Coppino (1877) e altri interventi 
legislativi e amministrativi, passeranno parecchi decenni prima 
che la scuola elementare diventi una realtà diffusa – non solo per 
i ceti benestanti, ma anche per quelli poveri, non solo in città, 
ma anche in campagna, e non solo nelle aree sviluppate, ma an-
che nel Mezzogiorno d’Italia. Un aspetto concreto del conflitto 
fra Stato e Chiesa si gioca appunto sull’istruzione, su chi deb-
bano e possano essere i maestri elementari del giovane «popolo 
italiano». Per il Regno d’Italia è meno arduo garantire una rete 
di istituti medi in linea con i tempi: il Regio liceo ginnasio, di 
impronta umanistica e classica, tale quindi da scolorire le tinte 
più aggressive della modernità; e le Scuole normali, dalle quali 
a fine secolo cominciano a uscire le prime maestre elementari, 
una professione e un percorso decisivo, fra l’altro, per rendere 
autonomo culturalmente ed economicamente un certo numero 
di giovani donne di origini, anche, modeste. Fino a quando que-
sta nuova pianta non prende a buttare – le Scuole normali sono 
il bozzolo dell’Istituto magistrale – in molte scuole elementari 
di paese, volere o no, non si può ricorrere che al parroco: unica 
figura di «intellettuale» presente in loco, magari in contrappo-
sizione – se il paese non è tanto piccolo – con il medico e con il 
farmacista, che sono non di rado dei patrioti, liberali o radicali, 
laici, anticlericali e magari iscritti, più o meno segretamente, a 
una Loggia massonica (si ricordi che allora la massoneria è anco-
ra un fattore di progresso, laico e razionale, qualche cosa di più 
di un organismo clientelare). Insomma, anche semplicemente a 
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livello di istruzione elementare di tre anni, l’unificazione effetti-
va è uno sforzo duro, che ha bisogno di tempo. Molti all’epoca 
ritengono che – ai fini della reciproca conoscenza fra i cittadini 
della nuova Patria italiana – l’andare soldato non valga meno 
del frequentare la scuola elementare. Liceo e università sono per 
pochi: la partita vera della conquista dei cuori e della mente dei 
giovani figli del popolo si gioca lì, nei vecchi conventi trasforma-
ti in edifici scolastici o in caserme. Un non piccolo cambiamento 
nella destinazione d’uso degli stessi edifici in cui, per secoli, 
generazioni di frati e di suore s’erano ritratte dal mondo.
Come organizzare concretamente la leva, a chi far fare il sol-
dato e a chi no, per quanto, dove, con quale tipo di educazione 
militare, con quali nessi e rapporti fra i giovani di leva, i richia-
mati e i militari di professione: non sono scelte neutre. E anche 
qui, nelle scelte che vengono fatte a preferenza di altre, si riflet-
tono ideologie e inquietudini di chi è al potere. Per esempio, 
non è che i giovani in divisa venissero mandati a servire la Patria 
a mille chilometri da casa solo per la nobile motivazione di far 
conoscere reciprocamente Lombardi e Calabresi, Siciliani e to-
scani; ma anche per l’altrettanto vera, ma meno dicibile ragione, 
che un modo per servire la Patria poteva essere, in qualunque 
momento, quello di intervenire armati contro i movimenti e le 
agitazioni sociali e magari, in caso di comando, sparare. Si sup-
poneva che l’ubbidienza sarebbe stata più sicura se non si fosse 
trattato di sparare su chi parlava lo stesso dialetto. È triste dirlo, 
ma una certa incomunicabilità fra militari e civili fa parte delle 
condizioni e delle scelte.
Uno straordinario punto di incontro fra la scuola elementare 
e la leva militare come strumenti per fare gli Italiani si realiz-
za nell’opera narrativa di uno scrittore, di non eccelsa levatura 
letteraria, ma di eccezionale leggibilità e successo: Edmondo 
De Amicis. Era stato ufficiale, prima che appassionato e lucido 
«maestro» della Nuova Italia: quando scriveva i suoi racconti 
militari, ambientati in giro per tutte le caserme e le più recenti 
battaglie d’Italia, sapeva di che cosa parlava e sapeva come farlo; 
e aveva l’arte di commuovere, faceva scuola pratica di patriotti-
smo parlando ai cuori della gente semplice, oltre e più che alle 
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loro menti. Voleva far «piangere» e in nessun caso gli riesce 
così bene come quando parla di ragazzi ai ragazzi. Perciò il suo 
capolavoro è Cuore, che è stato e in certa misura rimane da oltre 
un secolo un bestseller mondiale, tradotto (comeil suo contem-
poraneo Pinocchio, di Carlo Lorenzini, più noto come Collodi) 
in moltissime lingue. I critici d’oggi ritengono che, sul piano 
della invenzione artistica, Pinocchio stia più in alto di Cuore; ma 
questo avviene anche perché il libro di De Amicis ha più dell’al-
tro l’odore del tempo: è molto dentro quell’Italia umbertina, 
ne condivide e rappresenta i problemi, i sentimenti e anche la 
retorica: quelli di un’Italia giovane e speranzosa, che a molti di 
noi che veniamo dopo può apparire un po’ dolciastra e illusa. Si 
tratta – è bene ricordarlo – di un anno di scuola in una elemen-
tare torinese. Siamo negli anni ottanta, cioè l’autore scrive «in 
diretta», costruendo un «mondo piccolo» in cui si riflettono le 
diversità – sociali, regionali, culturali – del paese appena nato. 
Aggiungete che De Amicis è un patriota unitario non solo in 
senso territoriale, ma anche politico: vuol fare andare d’accordo 
tutti, il re e Mazzini, Cavour e Garibaldi, l’esercito e i volon-
tari. A quel tempo – come si può vedere da altri capitoli – era 
tutt’altro che scontato. L’unica assenza voluta – e vistosa! – è la 
Chiesa cattolica. Non ci sono preti in Cuore. Il papa si è messo 
di traverso all’Italia, ha scomunicato il Risorgimento, continua 
parrocchia per parrocchia a indottrinare il popolo dei fedeli in 
senso ostile allo Stato. E allora, sarà un universo un po’ mieloso, 
ma, con tutte le sue dolcezze, Cuore viene pensato e scritto come 
un libro di battaglia, sulla e per una scuola elementare e per 
un’Italia che ha già dimostrato di poter «fare da sé».
La stampa
Un indice della vitalità dei luoghi è l’esistenza di uno o più gior-
nali. Meglio se quotidiani e se più di uno. La pluralità delle voci 
e la contrapposizione che ne nasce per la conquista del merca-
to e del pubblico è effetto e causa a sua volta di una migliore 
qualità della vita. A tempi e a spazi in movimento corrispon-
de più voglia di esprimersi e di informarsi. Il ’48 veneziano, 
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milanese e romano, la torino degli immigrati politici da tutta 
Italia negli anni Cinquanta, costituiscono buoni esempi di que-
sta corrispondenza fra dinamizzazione della società e delle voci 
giornalistiche. Del resto, la libertà di coscienza e di stampa sono 
bandiere del secolo.
Certo, ci vuole una soglia minima perché l’idea di fare un gior-
nale prenda piede: anche solo un periodico, mensile, quindici-
nale, settimanale, bisettimanale, prima del grande passo verso 
un giornale in grado di uscire tutti i giorni. Bisogna che in quel 
centro, per piccolo che sia, non manchi una tipografia: la mac-
china per stampare il giornale – anche minimo, di un solo foglio 
– ci vuole. Ci vuole almeno un giovanotto di belle speranze, uno 
dei non pochi laureati a spasso, o studenti a vita, o centomestieri 
acculturati dall’esperienza, che sappia fiutare le notizie, per lo 
meno quelle locali, in cui meglio e più da vicino può riflettersi 
il pubblico del posto, che nasce e vien formandosi assieme al 
foglio. Come il giornale, anche il pubblico va costruito. Col tem-
po, «La Voce di...», «La Squilla di...», «L’Avvisatore di...» – o 
come altro verrà chiamato quel piccolo foglio – potrà entrare a 
far parte delle abitudini locali, allo stesso modo della conversa-
zione al Caffè cittadino, dell’incontro in Piazza, della serata nel 
teatro che già da più generazioni fa bella mostra di sé in molti 
piccoli centri i quali hanno la possibilità e l’orgoglio di dirsi e di 
sentirsi città, proprio perché possiedono Duomo, Piazza, Caffè, 
teatro e, appunto, un giornale. La soglia minima perché esso 
possa nascere e sopravvivere comporta quindi una certa quota 
di lettori almeno potenziali, cioè di alfabetizzati, e in particolare 
di avvocati, farmacisti, medici, impiegati, insegnanti, studenti, 
anche mercanti, che vogliano saper tutto delle prossime fiere, e 
magari anche un certo numero di signore, interessate a qualche 
altro genere di articolo o all’ultima puntata del romanzo che, 
come una moderna telenovela, caratterizza un giornale degno 
del nome dalla metà dell’ottocento.
Naturalmente, gli interessi politici non sono estranei all’im-
presa giornalistica: molti fogli nascono in periodo pre-elettorale 
per sostenere una candidatura a sindaco o a deputato. Ho dise-
gnato un modello minimo di giornale perché l’Italia è da secoli 
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– e rimane anche in periodo unitario e post-unitario – caratteriz-
zata dalle cento città e dalle centinaia di paesoni che aspirano a 
diventare città: avere un proprio giornale diventa un’espressione 
moderna di questa tradizione campanilistica. Naturalmente, se 
avere un giornale dota di identità, questo è vero per i luoghi, ma 
può essere vero anche per le parti: la destra e la sinistra; i con-
servatori e i progressisti; i codini e i mangiapreti. Già il dualismo 
– cioè il fatto che una comunità locale si sdoppi e possa ogni 
giorno vedere ciò che accade in nero o in bianco – implica che 
quel centro sia abbastanza esteso e progredito da alimentare più 
d’una voce; mentre tanti altri – s’intende, proprio perché l’Italia 
unita è fatta ancora di tanti pezzi diversi – non hanno ancora 
potuto varcare la soglia minima che permetta di alimentarne an-
che una sola. torino, Firenze, Roma – le tre successive capitali 
del Regno d’Italia –, Milano, Napoli, Venezia, Palermo e tutte le 
vecchie capitali o sub-capitali degli Stati pre-unitari rappresenta-
no, in un’ideale mappa della collocazione dei giornali quotidiani, 
le aree di presenza più intensa. Si tratta, naturalmente, volta a 
volta, a seconda dei luoghi, delle antiche «Gazzette» ufficiali dei 
governi spodestati, più o meno «pentite» e trasformate in organi 
del nuovo governo (i ricchi e i potenti di prima sono, di norma, 
ricchi e potenti anche dopo la fatidica data del 1861); oppure 
di giornali nuovi, nati fra il 1848 e il 1861, come arma di lotta 
nelle contese risorgimentali; o, infine, delle testate più adatte a 
sopravvivere – per larghezza di mezzi e consonanza con pubblici 
e tempi – fra tutte quelle che nascono dopo l’Unità. Esistono 
ancor oggi, in qualche città d’Italia, antiche testate che dichia-
rano orgogliosamente d’esser nate nel Seicento e nel Settecento, 
con infiniti passaggi di proprietà e di linea, magari, da allora; 
ma il grosso dei quotidiani che vanno tuttora per la maggiore 
sono nati intorno agli anni ottanta-Novanta dell’ottocento: dal 
«Corriere della Sera» di Milano (1876) al «Messaggero» di Roma 
(1878), dal «Resto del Carlino» di Bologna (1885) al «Mattino» 
di Napoli (1892), dal «Secolo XIX» di Genova (1886) al «Gaz-
zettino» di Venezia (1887). Sono i superstiti di diverse centinaia 
di fogli che si sono persi per via, dal sapore ottocentesco anche 
nel nome («La Perseveranza», «La Concordia», «Il Pungolo», 
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«Ettore Fieramosca» ecc.). Decisivo è stato, a cavallo fra i due se-
coli, il passaggio necessario dal foglio di raggio cittadino a quello 
di raggio regionale, pluriregionale e nazionale. Maggior respi-
ro di notizie e di idee, certo, ma anche necessità di più potenti 
macchine tipografiche e quindi di capitali, oltre che di cronisti 
e redattori più numerosi e specializzati. È stato anche questo un 
elemento – i costi crescenti – per consigliare, a chi non ce la po-
teva fare a reggere la concorrenza con i grandi organi borghesi, 
di rifugiarsi nel settore del settimanale. Fine secolo vede infatti 
fiorire, in parallelo, una moltitudine di settimanali socialisti e di 
settimanali cattolici. Costituiscono anche una forma di giornale 
più adeguata al pubblico popolare, che ha meno soldi, meno 
tempo o anche ritmi più lenti di lettura. La penisola si riempie di 
«Echi dei Lavoratori», «Lotte di Classe» e «Amici del Popolo».
Arte e letteratura
In questo primo cinquantennio che segue la proclamazione 
dell’Unità, non c’è forse in Italia una grande arte. Certo, non ci 
sono opere cheinterpretino e accompagnino i tempi dandone 
un senso di fiducioso esordio. Il vecchio Manzoni sopravvive 
a se stesso, arrivando a vivere sino agli anni ottanta, ma I pro-
messi sposi sono ormai lontani decenni e niente di così alto è 
più uscito dalla sua penna. Altrove – soprattutto in Russia con 
Dostoevskij e tolstoj, e in Francia con Balzac, Flaubert, Mau-
passant – si sviluppa una grande narrativa capace di sondare 
gli avvenimenti collettivi e le profondità dell’animo individuali; 
intanto, la dimensione prevalente nei romanzi e racconti delle 
prime generazioni di scrittori italiani si rivela quella provinciale. 
Una regione, in particolare, scalza la toscana dal suo primato 
tradizionale nelle lettere ed è l’assolata e tormentosa Sicilia dei 
tre grandi scrittori veristi, Giovanni Verga, Luigi Capuana e Fe-
derico De Roberto. C’è poco ottimismo storico e un incoercibile 
disincanto in questi loro mondi narrativi, abitati anche da conta-
dini e zolfatari, ma soprattutto da possidenti nobili e borghesi, i 
galantuomini, dominati dall’idea che il mondo cambi solo nelle 
apparenze esterne, ma sia, in fondo, sempre uguale a se stesso: 
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al di là dei valori d’arte – spesso notevoli – un bel bagno di ama-
rezza e di sfida alle speranze di un paese politicamente giovane 
e che i maggiori artisti del tempo sembrano invece scoprire vec-
chissimo e ormai incredulo di poter cambiare. L’ombra di que-
sto verismo – che ha naturalmente le sue radici nella questione 
meridionale, oltre che esserne un’espressione – si proietta ben 
fuori della Sicilia, assunta a simbolo della condizione umana, 
e fuori di quel cinquantennio, proseguendo con il Novecento 
nella narrativa e nei drammi di Luigi Pirandello e nell’opera 
di altri grandi siciliani quali Brancati, tomasi di Lampedusa, 
Sciascia (l’ultimo ci porta quasi fino ai nostri giorni); anche in 
loro si perpetua quell’onda di amarezza, quella idea di una storia 
ormai tutta vissuta, non rinnovabile, e la «non-speranza» contro 
cui si sforza di reagire, in un suo simbolico romanzo degli anni 
trenta, Conversazione in Sicilia, Elio Vittorini, un altro figlio 
di quella terra troppo antica per credere alle favole: anche alla 
bella favola del Risorgimento.
Di scettici, disperati, apocalittici e anche di qualche suicida 
è composto il primissimo movimento letterario post-unitario, 
la cosiddetta Scapigliatura. Se ne conoscono una variante lom-
barda e una piemontese, cosicché, non meno dei Veristi, anche 
gli Scapigliati – che i critici riallacciano in piccolo alle tendenze 
del moderno decadentismo europeo – mostrano quanto conti-
nui a pesare l’ancoraggio locale nella letteratura dell’Italia unita. 
Si è diventati e magari ci si riconosce come Italiani, non senza 
talvolta aperture alla grande cultura europea, ma lo si è da to-
scani, Siciliani, Veneti, Lombardi. Nella letteratura e nel teatro, 
l’espressione più colorita e palpabile di questa necessità di con-
tinuare anche dopo il 1861 a fare i conti con la geografia e la sto-
ria differenziata del territorio nazionale si ha nell’arte dialettale: 
vissuta talvolta come minore a priori, e a torto, visto che non è 
passato che qualche decennio da quando il dialetto milanese ha 
saputo elevarsi a lingua poetica di straordinaria espressività con 
Carlo Porta; e quello romanesco con Gioacchino Belli. oggi 
nessuno si sognerebbe di considerarli meno grandi per questo, 
così come nessuno spettatore può pensare che il Goldoni vene-
ziano valga meno del Goldoni italiano o di quello francese. Ge-
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nerazioni di critici ci hanno ormai insegnato a riconoscere non 
solo come una caratteristica distintiva, ma persino come una 
ricchezza il plurilinguismo di una secolare tradizione letteraria, 
che ha molte frecce al proprio arco, da Dante al Ruzante (che 
nel Cinquecento scriveva grandi testi «contadini» in dialetto pa-
vano, all’incirca un padovano dei campi), e dagli italiani regio-
nali al latino «maccheronico», infarcito di invenzioni ed errori 
burleschi. Nello stesso tempo, occorre comprendere i bisogni e 
le preoccupazioni di quegli organizzatori politici e culturali che 
– nei decenni di costruzione dello Stato di cui stiamo parlando – 
si attendevano che anche la letteratura e l’arte, a modo loro, si 
iscrivessero al «partito dell’unificazione»: contribuissero cioè a 
«fare gli Italiani», come la scuola o l’esercito.
Un discorso analogo potrebbe farsi per la pittura di quegli 
anni: non mancano i progetti di importazione di stimoli moder-
ni dall’estero, e, diciamo così, di italianizzazione dell’arte euro-
pea, ma oggi ci ricordiamo soprattutto di artisti come Fattori 
e dei Macchiaioli: paesaggi, vedute e tipi che riconfermano la 
dimensione regionalista e provinciale (il giudizio di valore della 
critica va comunque negli ultimi anni rialzando il peso e l’origi-
nalità dell’ottocento italiano).
Regionalità, localismo, dialetto ribadiscono la propria tenuta 
e persino, in questo caso, il proprio dominio della scena, se dalle 
arti della penna e del pennello passiamo alla musica e – prima di 
salire qualche scalino e passare all’opera – ci soffermiamo qualche 
momento nel mondo della canzone. Ebbene, può essere riduttivo 
rispetto alla ricchezza del patrimonio folclorico proliferante, dalla 
Sardegna al Friuli; ma che cos’è, alla fine, per consenso diffuso, 
la canzone all’italiana se non, soprattutto, la canzone napoletana? 
Ma è proprio in questi decenni che tale vocazione si afferma, si 
consolida, diventa pratica musicale diffusa fuori dei confini del 
Napoletano, e anche industria. La patria dell’emigrante italiano 
all’estero si esprime con le note di Santa Lucia. E il «vero» inno 
nazionale italiano, la musica che all’estero viene richiesta e can-
ticchiata all’Italiano come elemento di identificazione, non era la 
Marcia Reale e non è oggi Fratelli d’Italia, è stata a lungo ’O sole 
mio, poi è diventata Volare / nel blu dipinto di blu.
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C’è però – e c’era già nel Settecento – una dimensione 
dell’arte e della musica in particolare che si sottrae ai dialet-
ti e alla regionalità e vola più libera, unificante e riconosciuta 
come espressione e veicolo di italianità: è l’opera lirica, il me-
lodramma. «w v.e.r.d.i.» scrivevano, non per caso, i patrioti 
monarchici del Risorgimento; e volevano, di nascosto, inneg-
giare a Vittorio Emanuele re d’Italia, ma intanto, allo scoperto, 
facevano di cappello al genio di Verdi, all’empito unitario che si 
sprigionava dalle note del Nabucco; e a tutta un’aneddotica – tra 
fondata e ipotetica o leggendaria – che comunque riconnetteva 
molti libretti d’opera, le trame, le musiche, i comportamenti di 
autori e cantanti, quella certa esecuzione, quel certo teatro, una 
recita, all’uno o all’altro momento della guerra di liberazione 
nazionale. C’è poi da segnalare – al di là della vicenda risorgi-
mentale – che è proprio l’abitudine di andare all’opera, diffusa 
non solo nei ceti sociali più elevati e non solo nelle città-capitali 
a risultare unificante: un vero marchio di identità, un modo di 
essere, sentirsi ed esser visti anche dagli altri come «Italiani». E 
questo, da secoli. Autori, cantanti, musici, scenografi...: tutto, 
da molto tempo, sentito come made in Italy.
LE tRE ItALIE IN CAMMINo
Ricapitoliamo: i rossi e i neri ostili all’Italia liberale a fine secolo 
c’erano davvero, anche se qualche volta le autorità enfatizzavano 
il pericolo. ora facciamo un passo avanti. Si ricordi la pretesa dei 
cattolici – che almeno qualche fondamento lo aveva – di essere i 
veri interpreti dei bisogni e dei sentimenti dell’Italia contadina e 
quindi dell’Italia reale, visto che una grande industrializzazione 
e una vera e propria classe operaia ancora non c’erano. Ebbene, 
prendiamola pure sul serio questa pretesa e anche, in parte, le 
preoccupazioni dei governanti come Crispi – e dopo di lui, nel 
1897-99, il marchesedi Rudinì, un latifondista siciliano, e Pel-
loux, un generale savoiardo – che la loro Italia legale sia presa 
in mezzo fra due nemici. Allora dobbiamo aggiungere, a queste 
due, un’Italia che è un po’ la somma delle diverse sinistre (non 
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quella storica dei liberali al governo, ma i repubblicani, gli anar-
chici e, dagli anni Novanta in poi, sempre più forti e numerosi, 
i seguaci del Partito socialista). Potremmo dire che – in questo 
primo mezzo secolo di vita unitaria – ci siano, per così dire, tre 
Italie che si sono messe o si mettono in cammino.
Sono diverse, procedono in parallelo, qualche volta anche si 
toccano e si scontrano. Una delle tre governa ed è l’Italia libera-
le, con la ristretta base sociale che abbiamo visto. Le due Italie 
popolari stanno per ora fuori dalle istituzioni, aspettano, si pre-
parano, pensano di avere il futuro dalla propria parte. Giornali e 
documenti sia dei cattolici che dei gruppi di sinistra ripetono di 
continuo popolo, mentre lo Stato dei notabili liberali è uno Stato 
che ha paura del popolo. Ma, intendiamoci: quando i cattolici 
di Pio IX, poi di Leone XIII e poi ancora di Pio X, nominano il 
popolo, hanno in mente i contadini; i socialisti di Andrea Costa, 
di Leonida Bissolati e di Filippo turati – per ricordare alcuni 
dei padri fondatori del partito – pensano invece agli operai e a 
quegli operai della terra – senza terra – che sono i braccianti. 
ora, anche se pensano di avere dalla propria parte il futuro, 
intanto, né i cattolici né i socialisti se ne stanno con le mani in 
mano. I primi sono formalmente legati al vecchio obbligo di non 
collaborare, di non essere né eletti né elettori e quindi di non far 
politica, per non aver l’aria di riconoscere lo Stato; però si impe-
gnano molto, oltre che sul piano religioso, sul piano economico 
e sociale: Leone XIII, con l’enciclica Rerum novarum (1891), li 
ha autorizzati a lanciarsi alla riconquista del mondo moderno 
partendo dai bisogni concreti della povera gente, ed ecco fio-
rire – su iniziativa di parroci e cappellani – i circoli dell’Azione 
cattolica, le cooperative, le latterie sociali, le banche e i giornali. 
A votare ci andranno un po’ prima o un po’ dopo, a seconda 
delle situazioni locali, cominciando appunto dai Comuni; nelle 
elezioni del 1904, le gerarchie danno il via, perché intanto i so-
cialisti sono diventati ai loro occhi il pericolo pubblico numero 
uno, mentre i liberali appaiono a questo punto addomesticati o 
un minor male. Lo stesso avverrà nel 1913, alle prime elezioni 
politiche fatte col suffragio universale: i moderati – siano catto-
lici o laici – votano uniti a favore del candidato meglio piazzato 
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per battere il candidato di sinistra (radicale, repubblicano o so-
cialista). A questo punto, è chiaro che molte cose sono cambiate 
in questi primi cinquant’anni di Regno d’Italia; è vero che lo 
Stato e la Chiesa cattolica continuano a tenersi il broncio e il 
papa, come aveva promesso, a starsene chiuso in Vaticano per 
far vedere a tutti che lui è «prigioniero» degli «usurpatori»; ma 
intanto i cattolici stanno diventando cittadini insieme agli altri 
e non vogliono più buttar giù lo Stato, anzi, ormai, aspirano a 
impadronirsene.
Percorsi parzialmente simili hanno intanto compiuto – a ca-
vallo fra i due secoli – le forze di sinistra. È vero che il Partito 
socialista aderisce alla seconda Internazionale – che raccoglie i 
partiti socialisti europei – e che i proletari nelle loro manifesta-
zioni parlano di Classe e non di Nazione, e agitano la bandiera 
rossa, non il tricolore, perché, secondo le teorie di Carlo Marx, 
«i proletari non hanno patria» e quello che conta è costruire 
l’unione dei proletari di tutto il mondo. Ma intanto la lotta di 
classe si svolge in un quadro economico, sociale e politico con-
creto che è quello italiano; operai e braccianti sono stati politica-
mente alfabetizzati dal sindacato e dal partito, hanno imparato 
a pensare e muoversi più in grande, a sentirsi cittadini; e decine 
di migliaia di proletari hanno dovuto imparare le tecniche di go-
verno per amministrare cooperative, giornali, sezioni di partito, 
Camere del lavoro, leghe sindacali, e sono anche divenuti asses-
sori, sindaci, qualcuno anche deputato. Non senatori, perché il 
Senato del Regno rimane non elettivo, e il re coi suoi governi 
si guarda bene dal nominare senatori gli oppositori; e neanche 
ministri, tanto che la prima volta che un esponente socialista 
entra in un governo dell’Italia liberale è già il 1916 e la cosa può 
avvenire perché gli danno solo un ministero «senza portafoglio» 
e perché Bissolati non fa più parte del Partito socialista, che lo 
ha espulso nel 1912 in quanto troppo governativo e di destra. 
(Notiamo di passaggio che la particolarità è destinata a ripetersi: 
anche nel primo dopoguerra quei pochi che diventano ministri 
sono ormai tutti degli ex socialisti. Fino allo stesso Mussolini, 
che chiude la serie mettendo fuori legge tutti i partiti meno quel-
lo fascista.) Ricordata questa regola di esclusione – paragonabile 
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a quella che dal 1947 ai nostri anni colpirà di nuovo la maggiore 
forza di sinistra, questa volta il Partito comunista italiano – va 
detto che persino qualche serio storico nazional-fascista dovrà 
riconoscere la grande opera di educazione civica svolta fra le 
masse popolari dal Partito socialista.
LA GRANDE PotENzA
Gli ideali di libertà e indipendenza dei popoli – di tutti i popoli, 
non solo di quello italiano – avevano ispirato Mazzini e il Risor-
gimento nazionale. Non per niente, oltre alla «Giovine Italia», 
l’agitatore genovese aveva dato vita a un’altra associazione dal 
nome augurale, la «Giovine Europa». Nell’ultimo trentennio 
dell’ottocento, però, il governo italiano – prima con Depretis, 
poi con Crispi – decide di conquistare terre in Africa. Effetti-
vamente, le altre potenze europee avevano un impero coloniale 
e – nel linguaggio politico del tempo (non solo di quello, del 
resto) – essere un paese forte e rispettato significa avere tanti 
soldati, buone armi e, appunto, possedimenti coloniali e terri-
tori da sfruttare.
Sul piano interno, un paese che possiede delle colonie può 
far capire ai poveri: qui siete sull’ultimo gradino della scala so-
ciale e vi tocca obbedire; lì, in colonia, potete salire di grado, 
passare fra chi comanda e farvi obbedire degli altri. Complici i 
dislivelli storici e i rapporti di forza, si capisce, e anche il diverso 
colore della pelle: il che – fra prima guerra d’Africa, guerra di 
Libia del 1911-12 e guerra d’Etiopia del 1935-36 – sarà frutto e 
stimolo di sensi di disuguaglianza e di razzismo.
Chi non vuole starci, perché teme che l’Italia diventi come 
l’Austria – andando a negare la libertà e l’indipendenza agli al-
tri, dopo averla appena reclamata per se stessa –, viene preso 
in giro come un vecchio idealista e nostalgico: la «politica delle 
mani nette» – controbattono i «realisti» – è la politica delle ma-
ni vuote. Anche l’alleanza con l’Impero tedesco del cancelliere 
Bismarck – della cui modernizzazione nell’ordine Crispi è un 
ammiratore – si spiega in questo mutamento diffuso degli spiri-
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ti, che induce ad apprezzare sempre più, come valori, la forza, 
l’autorità, la disciplina. E infatti l’avvicinamento alla nuova Ger-
mania porta a estendere l’alleanza alla vecchia Austria, sacrifi-
cando così i motivi di principio e le speranze degli irredentisti 
di completare il Risorgimento nazionale con la liberazione delle 
città non ancora «redente», trento e trieste. Questa triplice al-
leanza – per quanto urti con il passato e sia poco amata da molti 
cittadini – costituirà dal 1882 al 1914 il cardine della politica 
estera e della collocazione internazionale dell’Italia.
L’orgoglio nazionale della nuova Italia si esprime adesso così: 
armandosi, preparandosialla guerra e dandosi per traguardo 
l’Africa, dove però a questo punto c’è rimasto poco di buono 
da spartirsi. Il meglio (minerali, terre fertili) se lo sono già pre-
so i colonialisti meno tardivi; l’Italia è proprio l’ultima venuta 
rispetto alla Francia e all’Inghilterra, alla Germania e al Belgio. 
Pazienza, comunque, se l’Eritrea e la Somalia non saranno co-
lonie ricche: tanto, quello di cui si va in cerca sono soprattutto 
soddisfazioni e vantaggi di immagine. Se l’Italia vuol essere una 
grande potenza – come Crispi vuole assolutamente che diventi, 
che si senta e che sia riconosciuta dagli altri paesi – occorre che 
si batta, che vinca e che si costruisca un suo patrimonio. oltre 
a tutto, l’Africa serve ai giovani e ai militari, come agli esplora-
tori, per dar corpo a sogni di gloria e avventura. E così, fra gli 
anni ottanta e Novanta, si svolge con alterne vicende la prima 
guerra d’Africa. Alla fine, dei territori rimangono effettivamente 
in mano all’Italia, ma più dell’Eritrea e della Somalia pesa psico-
logicamente e politicamente l’inattesa e disastrosa sconfitta con 
cui il conflitto viene interrotto: Adua, nel 1896. Per Crispi, la 
fine di una eccezionale carriera politica; per il nazionalismo e il 
colonialismo italiano, una ferita crudele e uno smacco indimen-
ticabile; per l’Africa colonizzata, una prima, memorabile vittoria 
sull’Europa colonizzatrice. Le tappe successive del colonialismo 
italiano – la guerra di Libia del 1911-12 e la guerra d’Etiopia del 
1935-36 – rispondono anche a questa volontà di vendicare Adua 
e dimostrare che quello dell’Italia grande potenza non era stato 
solo un sogno.
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L’Età GIoLIttIANA
«Di qui non si passa», aveva ammonito nel ’96 Antonino di Rudi-
nì, all’indirizzo dei primi socialisti. «torniamo allo Statuto», era 
stato nel ’97 il grido di nostalgia di un altro uomo della destra, 
Sidney Sonnino: e voleva dire, torniamo a cinquant’anni fa, più 
poteri al re, meno poteri al parlamento. Dei segnali funesti nella 
stretta repressiva del ’98 – quando coi fatti di Milano i cannoni 
avevano sparato sulla folla e le carceri si erano riempite di op-
positori – già sappiamo. Al culmine di tale processo involutivo, 
nel ’99, il governo, più che mai nelle mani di un uomo del re – il 
generale savoiardo e comandante del corpo d’armata di torino 
Luigi Pelloux –, presenta leggi liberticide per dare veste legale a 
tutto un clima. A questo punto, per fortuna, la parte più aperta 
del vecchio partito liberale non ci sta e ferma l’Italia sull’orlo 
dell’abisso; rompendo in extremis il fronte di una solidarietà 
divenuta ormai compromettente, zanardelli e Giolitti vanno in 
aiuto dei parlamentari democratici e socialisti che attuano alla 
Camera il primo scandaloso esperimento di ostruzionismo par-
lamentare (si arriva anche a rovesciare le urne del voto). Allora 
Pelloux scioglie quel parlamento che gli resiste e indice nuove 
elezioni (giugno 1900), ma gli elettori – dimostrandosi più avan-
zati di quella classe di governo – sconfessano la sua linea.
Il nuovo presidente Saracco fa appena a tempo ad accennare 
a una scelta di conciliazione, ritirando i provvedimenti antide-
mocratici, che – il 29 luglio – il capo dello Stato cade sotto i colpi 
di un operaio – lo abbiamo già incontrato – autonominatosi 
«giustiziere» in nome del popolo. Potrebbe essere la premessa 
di una ancora più risoluta e vendicativa svolta a destra. E invece 
Vittorio Emanuele III, il trentunenne figlio di Umberto – gio-
vane «re venuto dal mare», come lo definisce Gabriele D’An-
nunzio, perché l’annuncio dell’inattesa successione lo raggiunge 
mentre è in crociera nel Mediterraneo –, compie una scelta sag-
gia e strategicamente decisiva nella storia dell’Italia liberale: nel 
suo lungo e alterno regno (sarà costretto ad abdicare nel lontano 
maggio 1946, dopo aver portato alla rovina la casata e la monar-
chia) farà o lascerà fare anche dei mezzi colpi di Stato; ma gli va 
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riconosciuto di avere invece esordito contribuendo a rimettere 
la vita politica sui binari della normalità. Incarica infatti il vec-
chio patriota Giuseppe zanardelli di formare il nuovo governo; 
e zanardelli è uno che ancora nel 1889 ha avuto il coraggio e 
la lungimiranza di abolire la pena di morte nel nuovo Codice 
penale che, come ministro della Giustizia, reca il suo nome. (È 
per questo, perché non c’è più la pena di morte, che il regicida 
Bresci viene condannato al carcere, anche se verrà ben presto 
trovato impiccato nella sua cella in circostanze dubbie.)
Accanto a questo simbolo della continuità risorgimentale – 
che nel 1848 ha preso parte alle Dieci giornate di Brescia e che, 
forse proprio perché non era mai apparso del tutto affidabile 
agli ambienti conservatori, giunge tardi alla presidenza del Con-
siglio, solo nel 1901, quando ormai ha 75 anni – viene messo co-
me ministro degli Interni Giolitti. E quel cambio di generazione 
politica che non era riuscito nel suo primo governo (1892-93) va 
in porto adesso; alla morte di zanardelli, nel 1903, gli succede e 
prende così corpo quella che si usa chiamare l’età giolittiana. In-
fatti, anche se questo liberale riformista non è ininterrottamente 
capo del governo (ci sono le varie tornate elettorali e anche brevi 
intervalli in cui lascia il posto ad altri), il regista della politica 
nazionale è lui, almeno fino al 1914. E anche in quel caso, sarà 
solo il sopraggiungere della guerra europea a trasformare gli 
equilibri politici rendendogli impossibile il ritorno immediato al 
potere (costituirà i suoi due ultimi governi, ormai ottuagenario, 
nel 1920-21, ma a quel punto i tempi sono mutati e siamo ormai 
fuori dell’età giolittiana).
Giolitti ha avuto appassionati avversari al suo tempo: sia 
nella destra del suo stesso partito, facente capo a Sonnino e a 
Salandra, sia nella nuova destra nazionalista che si viene allora 
formando, sia nella sinistra, estrema e non. Da molto, tuttavia, 
concordemente si ritiene che quel primo quindicennio del no-
stro secolo sia una fase di grande progresso per l’Italia, e non so-
lamente sul piano economico, ma anche su quello delle istituzio-
ni politiche e delle libertà civili. L’industrializzazione accelera, 
sia pure con passo diverso al Nord e al Sud (anche Giolitti, cioè, 
non affronta e non risolve la questione meridionale). Migliora-
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no le norme e le possibilità reali di espressione del pensiero, la 
libertà di associazione, di stampa, di organizzazione politica e 
sindacale. Crispi e gli altri avevano ancora negli anni Novanta 
sottoposto i tentativi dei lavoratori di organizzarsi sindacalmen-
te nelle Camere del lavoro a una continua serie di intimidazioni 
e di chiusure forzate. Lo sciopero appariva un crimine contro la 
società e lo Stato. Adesso, invece, Giolitti riconosce tali diritti 
di organizzazione e le forme di conflitto all’interno del sistema. 
Preferisce le masse organizzate e la legalizzazione del conflitto 
sociale alle lotte spontanee e all’anarchia; ed è proprio l’anar-
chia che si finisce per incentivare, se qualunque dissenso ap-
pare un reato e chi dissente non si vede assicurati dei canali di 
espressione della protesta. Il voto amministrativo e politico non 
basta. Esistono anche i conflitti di lavoro e non è possibile che 
lo Stato continui a presentarsi ai proletari – nelle campagne o 
in fabbrica – con il volto arcigno dei carabinieri o dei militari 
in servizio di polizia per rompere gli scioperi a vantaggio dei 
padroni. Almeno nelle intenzioni, insomma – ma non è poco, 
dopo gli stati d’assedio con cui si era governato negli anni No-
vanta e dopo quel che aveva rischiato di succedere nel 1898-99 
–, lo Stato dovrebbe rimanere «neutrale» nei conflitti economici 
che dividono i cittadini. È ovvio che una linea di questo genere 
appaia dura da digerire a quei gruppi sociali e a quelle correnti 
politiche che si eranoabituati finora a ben altro, cioè a sentirsi, 
loro stessi, «lo Stato», con tutti i diritti della Legge e della forza 
dalla propria parte. Quindi, per governare, questo governo li-
berale più sicuro di sé e più moderno ha bisogno di costruire e 
di mantenere buoni rapporti a sinistra.
Le sinistre che possono essere interessate a fare da sponda 
a questa linea di apertura ad opera delle forze di centro sono i 
radicali – un gruppo di opinione che raccoglie una parte dei ceti 
medio e piccolo-borghesi progressisti – e la corrente riformista 
del Partito socialista. Può servire a capirsi schematizzare la si-
tuazione generale così: i governi riformatori dell’età giolittiana si 
reggono sui buoni rapporti fra la sinistra liberale e la destra so-
cialista. L’antigiolittismo – da destra o da sinistra – viene da chi 
sta e si sente fuori di questi equilibri, che – in termini più vicini a 
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noi – potremmo definire tendenzialmente di centro-sinistra (ma 
con molto centro e poca sinistra, cioè con i socialisti tuttora fuo-
ri del governo). E bisogna però tener presente che anche allora, 
come per tutto il periodo successivo all’unificazione, di «parti-
ti politici» organizzati – con iscrizioni, tessere, vita di sezione, 
programmi, organi di stampa, gruppi parlamentari, disciplina di 
partito ecc. – continuava a esserci praticamente solo il Partito 
socialista, che è anche il primo partito «di massa», simile a quelli 
che hanno poi contraddistinto il Novecento; e, in piccolo, il 
partito repubblicano, che pero è «partito» e «piccolo partito di 
massa» solo in alcune sue isole, specialmente romagnole. Quan-
do invece diciamo «liberali» o «radicali» ci troviamo di fronte 
a una galassia, con uno o più leader; nazionali e locali, attorno 
a cui si riuniscono, stabilmente o no, parlamentari, consiglieri, 
gruppi di interesse vari. È il fenomeno – non nuovo, c’era già 
stato, in particolare, ai tempi di Depretis e di Crispi – del tra-
sformismo. Le maggioranze cioè sono mobili, si trasformano di 
continuo a seconda della capacità di attrazione dei leader, e il 
capo è al culmine di una rete di interessi, deve avere la capacità 
di ispirare fiducia e di fornire protezione, agli enti, alle comunità 
e ai singoli: a chi vuole che si costruisca una ferrovia, una strada, 
un ponte, che si insedi una fabbrica, che un reggimento o una 
pretura cambi o non cambi di sede, che vengano concessi lavori 
pubblici e quindi occasioni di lavoro per i disoccupati, fino alla 
nomina a senatore o a sindaco, o anche solo alla concessione di 
titoli di onorificenza come commendatore o alla croce di cava-
liere, che – come un sigaro, si diceva scherzando all’epoca – non 
si nega a nessuno.
Naturalmente, questo sistema clientelare può assumere pro-
porzioni diverse a seconda che siano in ballo interessi e aree di 
raggio più o meno vasto: tuttavia, lo stesso Giolitti per essere 
forte a Roma doveva continuare a essere forte a Dronero, in 
quel di Cuneo, – cioè a controllare i voti del collegio elettorale 
che ogni quattro o cinque anni lo doveva rieleggere deputato; 
e per essere forte a Dronero doveva essere forte a Roma, cioè 
in grado di controllare il lavoro parlamentare e – non meno – il 
lavoro quotidiano degli uffici ministeriali. La forza e la durata 
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di Giolitti si spiegano anche e proprio con il fatto che, nel cor-
so della sua lunghissima carriera politica, riesce a costruire una 
rete di interessi dilatatissima, a piazzare «suoi» uomini dapper-
tutto: prefetti, direttori generali, alti funzionari dei ministeri e 
degli uffici pubblici e naturalmente senatori, deputati, sindaci 
ecc. Meno in grande, lo fanno anche gli altri, su scala nazionale 
o locale. Come si vede, il paesaggio politico d’epoca è molto 
pragmatico, siamo in piena «prosa», sono cioè il trasformismo, 
il sistema clientelare, lo scambio di interessi, che garantiscono il 
funzionamento del sistema. I risultati operativi ci sono, l’econo-
mia gira, il prodotto lordo aumenta, l’Italia non è mai stata così 
florida. E però – ci sono riserve, e gravi – questo sistema econo-
mico funziona anche attraverso l’espulsione della mano d’opera 
eccedente, perché milioni di contadini poveri continuano a emi-
grare cercando lavoro all’estero, dall’Argentina al Brasile agli 
Stati Uniti. L’altra riserva che solleva quella politica tutta fatti e 
cose è che gli uomini che hanno dei princìpi generali e orizzonti 
ideali più ambiziosi ci stanno male in questa che a molti appare 
una Italietta asfittica e bottegaia.
Questo senso di soffocamento può poi assumere colorazioni 
diverse e perciò constatiamo che ci sono antigiolittiani di sinistra 
e di destra. I primi sono i rivoluzionari, cioè coloro che, all’inter-
no del Partito socialista (i massimalisti che non si accontentano 
delle riforme graduali) o ai suoi bordi (i sindacalisti rivoluziona-
ri), oltre naturalmente agli anarchici, temono che l’abbraccio con 
la borghesia giolittiana finisca per imbrigliare la lotta di classe e 
per snaturare il partito e il sindacato. Dall’altra parte, l’antigiolit-
tismo di destra comprende sia i liberal-conservatori, che vorreb-
bero riprendere la guida del partito liberale (e ci riusciranno con 
il governo Salandra nel 1914), sia una nuova destra, che va profi-
landosi nel primo decennio del Novecento: il neo-nazionalismo, 
antimazziniano, militarista e imperialista, di Enrico Corradini e 
Alfredo Rocco. Alla lunga, l’unione delle varie correnti antigiolit-
tiane finirà per spingere all’entrata in guerra dell’Italia. In nome 
di una più grande Italia, come dicono i nazionalisti adoperando 
un’espressione di Gabriele D’Annunzio – il Poeta-Vate – sempre 
più, anche, maestro di vita e di costume (il dannunzianesimo) e 
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aspirante punto di riferimento politico. Contro la politica povera 
di aspirazioni ideali, quando la critica muove da uomini come 
l’interventista democratico Gaetano Salvemini: nel 1910 pubbli-
ca un intero libro contro Giolitti marchiandolo a fuoco come 
Il ministro della mala vita, alludendo alle forme di pressione e 
talvolta di vera e propria intimidazione sugli elettori che, con 
le buone o con le cattive, portavano alla vittoria del candidato 
governativo, specialmente in certi collegi elettorali di provincia 
nel «profondo Sud». Sono le contraddizioni della politica: per 
spingere l’Italia fuori dal vicolo cieco in cui l’avevano cacciata i 
governanti di fine secolo e per aprire al socialismo riformista di 
Filippo turati, Giolitti ha bisogno di una maggioranza solida e 
maneggevole; per costruirsela e mantenersela fedele, fa ricorso a 
mezzi non sempre raccomandabili.
I VECCHI E I GIoVANI
Un romanzo del grande scrittore e uomo di teatro siciliano Luigi 
Pirandello – futuro Premio Nobel nel 1934 – illustra la distanza 
che va creandosi in quegli anni fra I vecchi e i giovani (1909): di-
verse generazioni a confronto in un romanzo storico sull’appena 
ieri e direttamente sull’oggi. I vecchi sono quelli che hanno fatto 
il Risorgimento: molti, poi, vivendo, l’hanno dimenticato, rein-
terpretato o persino tradito; altri, proprio perché vi sono ancora 
legati, si sentono emarginati e disillusi dall’oggi. Questa genera-
zione che ancora guarda alle radici storiche dello Stato nato dal 
Risorgimento – se usciamo dal romanzo e torniamo alla realtà 
– fa a tempo a celebrare nel 1911 il Cinquantenario dell’Unità; 
e anche a far sorgere una serie di musei del Risorgimento, de-
stinati a salvarne i documenti e a preservarne la memoria nel 
tempo (da notare che di musei del genere ce ne sono soprattutto 
nell’Italia settentrionale e centrale: quasi una rivelazione, non 
solo dei ritardi, ma anche di un più contrastato e sordo rapporto 
dell’Italia meridionale con quegli eventi).
Intanto i giovani – quelli che sono nati all’incirca fra il 1880 
e il 1890 e sono fra i venti e trent’anni nel periodo di cui stiamo 
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parlando (è anche, fra gli altri, la generazione di Mussolini) – si 
sentono ormai estranei agli ideali risorgimentali, insofferenti nei 
confronti di tutte quelle polverose memorie, e guardano avanti, 
verso un futuro diverso. Per molti di loro – specie per i giovani 
scrittori di riviste come «Il Regno», «Leonardo», «La Voce», e 
più tardi «Lacerba», tutte fiorentine – nel futuro c’è la guerra: 
solo la guerra darà una scossa salutare a tutto il marciume e lo 
squallore che li circonda, e cioè – rieccola – a quella ai loro occhi 
prosaica e mercantile Italietta giolittiana. Il nascente movimento 
nazionalista prospera in questo clima; e il fondatore dell’Asso-
ciazione nazionalista (1910) è appunto un romanziere, Enrico 
Corradini, direttore dal 1903 del «Regno», una di quelle riviste, 
seguite da un pubblico di giovani intellettuali borghesi, che so-
no il sintomo e il motore di un malessere crescente.
Giolitti cerca di intercettare e dare sfogo a questo bisogno 
di più ampi orizzonti scegliendo nel 1911 – quasi una valvola 
di sicurezza – di ritentare la via delle conquiste africane: è la 
guerra di Libia, la prima in cui si cominci a usare l’aviazione. 
Della modernità di queste macchine di guerra si esalta, in par-
ticolare, il capo ideale del futurismo Filippo tommaso Mari-
netti: un altro artista e uomo di cultura che va ad aggiungersi a 
quelli che sognano e preparano la guerra. Anche un poeta più 
mite e passatista quale Giovanni Pascoli, del resto, non resiste 
alla voglia di veder menare le mani – se non di farlo lui stesso, 
perché è anziano e morirà pochi mesi dopo. In un suo famoso 
discorso di incitamento alla guerra sostiene che i contadini ita-
liani hanno bisogno di terra e si rallegra perché finalmente La 
grande proletaria si è mossa. Allude all’Italia, paese povero fra 
paesi ricchi, e a una specie di «lotta di classe» trasferita dal piano 
interno al piano internazionale. Il suo patriottismo agita quindi 
un tricolore con un po’ più di rosso. In realtà un «socialismo 
nazionale» come questo non spaventa certo i padroni: si tratta 
di vedere se può convincere i proletari. Più o meno, è quello che 
pensa e scrive contemporaneamente Corradini – uomo di destra 
senza imbarazzi – sia come autore di romanzi politici d’attualità 
sull’emigrazione e sulla guerra, sia come oratore nazionalista: 
tutti quei contadini che sono sin qui emigrati all’estero sono 
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braccia e sangue perduti per la patria, molto meglio creare una 
situazione di guerra, richiamarli in Italia e farne altrettanti sol-
dati. Bisogna fare come Roma antica, una politica di conquista 
e – le terre – andarsele a cercare dove sono, portandole via ad 
altri. Così i proletari italiani la finiranno di fare i servitori nei 
paesi stranieri e di snazionalizzarsi.
Anche se la Libia non è ricca (allora non si sapeva ancora che 
il sottosuolo era pieno di petrolio) e qualcuno degli anticolo-
nialisti ne parla anche come di un inutile «scatolone di sabbia», 
si crea un diffuso clima di consenso e di eccitazione guerriera. 
Nei cafés chantants trionfa e deborda in tutto il paese una nuova 
e trascinante canzone, l’inno A Tripoli («tripoli, bel suol d’a-
more, / ... / sarai italiana al rombo del cannon»). Non sono in 
molti a sottrarsi. Un oppositore che abbiamo già incontrato è il 
meridionalista pugliese Gaetano Salvemini, uno che i conti li sa 
fare, e scrive che – visto che l’Italia rimane povera di capitali – 
sarebbe più pratico investirli, invece che nel fare la guerra, per 
portare l’acqua nelle aree del Mezzogiorno che ne sono povere; 
e quindi modernizzare l’agricoltura e creare posti di lavoro nel-
le regioni da cui – proprio per la cronica mancanza di lavoro 
– sono in tanti a emigrare. In un’Italia che immediatamente si 
divide in «libici» e «antilibici», «antilibico» è specialmente il 
partito che si richiama alla classe operaia; e fra i socialisti – può 
far sorridere, ma è un sorriso che deve subito lasciare il passo 
a interrogativi più pensosi – un giovane rivoluzionario che ha 
nome Benito Mussolini. Egli è allora un ventisettenne ribelle 
socialista, rosso fra i rossi, anzi, il rosso che grida e si agita più di 
tutti; arriva provocatoriamente a stendersi sulle rotaie dei treni 
che recano le truppe alla guerra, per protestare contro la guerra 
e, in particolare, contro una guerra così ingiusta. Cambierà idea 
straordinariamente in fretta.
Quella in Libia (1911-12) è comunque una vittoria militare 
(anche se meno piena e definitiva di come se la raccontano all’e-
poca; in realtà molti degli abitanti resistono e non ne vogliono 
sapere di sottomettersi ai nuovi padroni, ci vorranno diversi 
anni di silenziose azioni di repressione antiguerriglia). Giolitti 
– ago della bilancia al centro di un sistema di equilibri – ritiene 
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a questo punto opportuno, dopo aver dato soddisfazione con 
la guerra coloniale alle destre, fare una concessione importante 
anche alle sinistre: e infatti il suffragio universale maschile rap-
presenta davvero una svolta politica di prim’ordine. È del 1912; 
le prime elezioni politiche in cui hanno il diritto di votare tutti i 
maschi più che trentenni – e i più che ventunenni che abbiano 
fatto le elementari e paghino un minimo di tasse – sono dunque 
quelle del 1913. 36 milioni di abitanti, 8 milioni e mezzo di aven-
ti diritto, ne votano effettivamente i due terzi. In via di principio, 
è uno spostamento in avanti della democrazia, pur se solo al ma-
schile: le donne continuano a non avere diritto di voto, perché i 
costumi e i modi di pensare in materia restano arretrati, a destra, 
al centro, ma anche a sinistra; e persino – nonostante l’azione 
delle avanguardie femministe – fra le donne, buona parte delle 
quali pensa davvero di non avere la testa adatta per queste cose 
«da uomini». In pratica, comunque, passano pochi mesi e, già 
ai primi del 1914, non troviamo più il capo della sinistra liberale 
alla testa del governo, ma il suo concorrente interno della destra, 
Antonio Salandra. E ci si ricorda, allora, che una quindicina di 
anni prima, a premere per il passaggio a un suffragio allargato 
era stato proprio qualcuno dei conservatori più lucidi: il voto 
dei contadini, più tradizionalisti, avrebbe aiutato i possidenti a 
contrastare il voto innovatore degli operai e la società ne sareb-
be uscita stabilizzata. Un calcolo, allora, troppo sottile e audace. 
Non se ne era fatto niente. Ma ora, nel 1913, grazie all’accordo 
elettorale fra liberali e cattolici, quella speranza degli uomini 
d’ordine sembra concretizzarsi: con il cosiddetto patto Gentilo-
ni, gli elettori di chiesa assicurano il proprio voto ai candidati 
liberali disposti a mettere un po’ di acqua santa nel loro laicismo 
anticlericale (no al divorzio ecc.).
Ed ecco, invece, mentre il nuovo governo di centro-destra 
formato dal professore pugliese ha pochi mesi di vita, esplodere, 
nel giugno 1914, nelle classiche regioni dissidenti delle sinistre 
– repubblicani, socialisti, sindacalisti rivoluzionari, anarchici –, 
la Settimana rossa. Alle origini di questa eruzione della protesta 
uno dei non pochi eccidi proletari a opera della polizia, che, 
nonostante tutto, continuano ogni tanto a inasprire le relazioni 
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sociali: questa volta ad Ancona (tre lavoratori uccisi nel corso 
di manifestazioni antimilitariste). La Confederazione generale 
del lavoro, pur diretta dai socialisti della destra riformista, pro-
clama lo sciopero generale; dall’«Avanti!» – il quotidiano del 
Partito socialista, di cui è direttore dal 1912 – l’ancora sociali-
sta massimalista Mussolini soffia sul fuoco; e nelle Marche, in 
Emilia, nelle Romagne, i militanti – di vario grado e colore – 
dell’Estrema si scatenano in una serie di manifestazioni e di gesti 
dimostrativi che risuscitano l’immaginario e i simboli politici di 
oltre un secolo di ribellioni:risorgono nelle piazze dei paesi gli 
«alberi della libertà», riecheggiamento rustico della rivoluzione 
francese e anche (come nella piazza di Ravenna) del 1848; le 
panche sottratte alle chiese e accumulate per strada valgono sia 
da barricate che da esibizione anticlericale degli spiriti forti; non 
mancano incendi e azioni di vandalismo; vengono divelte rotaie, 
occupate stazioni, spezzati fili, per interrompere le comunica-
zioni fra i micromondi «liberati» e il resto d’Italia; si procla-
mano calmieri sui prezzi e addirittura, in qualche luogo di più 
illimitati entusiasmi, la repubblica; si fanno anche prigionieri, 
fra cui un generale. Il lato carnevalesco di questa specie di reci-
ta regionale dell’insurrezione è indubitabile, anche se qualcuno 
poteva invece pensare di vivere finalmente la realizzazione di 
antichi e nuovi sogni di libere comunità autogestite o lo «scio-
pero politico generale insurrezionale» auspicato dai sindacalisti 
rivoluzionari. Sono i socialisti riformisti a sentirsi imbarazzati e 
fuori del proprio terreno e infatti, dopo una settimana, la Cgl fa 
cessare lo sciopero. La controparte politica e sociale, però, non 
si divertiva affatto.
LA GRANDE GUERRA
Uno dei più acuti fra i giovani artisti, scrittori e giornalisti che 
animano i gruppi e le riviste del primo Novecento è Giovan-
ni Boine. Un ligure e, politicamente, addirittura, un rabbioso 
fautore dell’Ancien Régime. Non gli vanno bene la Nazione, lo 
Stato costituzionale, i diritti dell’uomo e del cittadino, dietro ai 
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quali intravvede con orrore la civiltà settecentesca dei Lumi e la 
«Dea Ragione» dei giacobini. Come per il papa del Sillabo – che 
almeno, però, era stato pensato e scritto cinquant’anni prima – 
per lui la colpa è tutta della rivoluzione francese. Prima, c’erano 
ordine, autorità, gerarchia e ciascuno stava al suo posto. Adesso, 
non ci si accontenta più di essere dei sudditi ubbidienti, tutti 
pretendono di essere cittadini, leggere, scrivere, votare e met-
tere bocca in ogni cosa. Ma così non si può andare avanti. Che 
fare? La ricetta viene dall’esercito. In quello stesso anno 1914 
– mentre i disordini della Settimana rossa sembrano dar forma, 
fra tragica e caricaturale, a timori come i suoi – le edizioni della 
«Voce» gli stampano un libriccino che ha per titolo Discorsi mi-
litari. Boine vi dichiara i suoi princìpi francamente reazionari, 
proclama che la società è marcia, corrotta dalla democrazia e 
dalle lotte di classe e di partito; sostiene che il rimedio, nor-
malmente, sta nella vita di caserma, dove l’educazione militare 
costringe i giovani a imparare a rigare diritto e a ritrovare il ri-
spetto per l’autorità; ma precisa che, quando la malattia sociale 
si presenta in forme più gravi, la caserma da sola non basta più, 
ci vuole una scuola più dura: per guarire, la società malata ha 
bisogno della guerra. Perché solo in tempo di guerra è possibile 
per le autorità riprendere in pugno gli individui e i gruppi e 
restaurare la disciplina sociale e mentale usando tutti i necessari 
metodi coercitivi.
La guerra europea sopraggiunge poi davvero – fra giugno e 
agosto 1914 – mentre alcuni dei giovani più intelligenti ragio-
nano così, con tutto questo astio per il progresso storico e di-
sprezzo per i diritti di libertà. Naturalmente, Boine non è il solo 
ed è per questo che gli abbiamo dato spazio. È un sintomo: ce 
ne sono altri, che vanno comunque a parare nella guerra come 
rimedio eroico alle malattie sociali. Giovanni Papini e Ardengo 
Soffici, sulla rivista «Lacerba», si dimostrano entusiasti per la 
guerra che torna e che sarà un magnifico «salasso», perché nel 
mondo si è in troppi, non ci si sta più, ci vuole una ecceziona-
le vendemmia con tanto sangue al posto del vino. Altrettanto 
festanti per la forza devastatrice del conflitto e la quantità di 
macchinari omicidi che stanno per mettersi in moto, si mani-
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festano Marinetti e i suoi scrittori, pittori e musicisti futuristi. 
D’Annunzio, poi, non vede l’ora e partirà a tutti i costi volonta-
rio benché abbia già passato i cinquanta. E non bisogna credere 
che si tratti solo di pose e di gesti da esaltati, perché anche dei 
severi economisti e dei professori di statistica spiegano, con-
temporaneamente, a suon di cifre, che l’eccesso demografico 
di cui soffrono paesi popolosi come l’Italia si risolve solo sfon-
dando i confini e occupando le terre dei vicini, il che comporta 
anche per loro un benefico salasso e quindi che, poi, crescano 
le risorse per chi sopravvive. Non tutti gli artisti e i professori 
suonano la tromba e fanno rullare i tamburi, c’è chi rimane più 
pacato e raziocinante; il filosofo Benedetto Croce, per esempio, 
si oppone alla «criminalizzazione» della sua amata Germania, 
presentata d’improvviso come il «barbaro paese degli Unni» 
dall’elmo chiodato che hanno «voluto» e scientemente prepa-
rato la guerra. E però, dal passatista Boine ai futuristi, anche 
se ci sono differenze, la risultante è la stessa: non se ne può più 
della pace, evviva la guerra.
Naturalmente, non basta che la sognino quelli che scrivono 
libri, articoli o che dipingono quadri e fanno discorsi, perché la 
guerra si scateni. Essa prende avvio per una somma di motiva-
zioni e di spinte in cui ciascuna forza mette qualche cosa di suo, 
fmché ne nasce un’ondata che si fa irresistibile. All’inizio c’è un 
attentato: l’erede al trono del vecchissimo Francesco Giuseppe 
– Imperatore d’Austria sin dal remoto 1848 – viene colpito a 
morte da un Serbo irredentista mentre passa in carrozza per 
le strade di Sarajevo (28 giugno 1914). I Serbi sono fra i tanti 
popoli e nazionalità che si sentono oppressi, dentro o ai bordi di 
quel vecchio Impero sovranazionale. È la scintilla. Gli Austriaci 
si vogliono vendicare dei Serbi, i Russi si ergono a protettori dei 
Serbi in quanto Slavi, la Francia è legata alla Russia, l’Austria 
alla Germania e via così, tutta una concatenazione rapidissima 
di sfide e controsfide che – tempo poche settimane – trascina in 
guerra mezza Europa. Abbiamo detto: Austria e Germania al-
leate. Ma – ricordate? – dal 1882 anche l’Italia rientra in questa 
alleanza, che infatti si chiama Triplice. Il governo Salandra, però, 
chiarisce subito all’Austria che non interverrà perché l’Austria 
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non ha rispettato il trattato e ha fatto tutto da sola, provocando 
la Serbia e rendendo quasi inevitabile la guerra. Formalmente, 
l’Italia ha ragione, ma naturalmente non è facile tirarsi fuori sen-
za danni da un’alleanza che dura da oltre trent’anni. Si rischia 
di apparire traditori o opportunisti. tanto più se ci si viene con-
vincendo via via che non sarà possibile rimanere neutrali – come 
vorrebbero i neutralisti – a guardare gli altri paesi europei che si 
scontrano: roba da periferia svizzera o spagnola, non da «grande 
potenza» come pretende di essere l’Italia. Bisogna schierarsi, da 
una delle due parti. Ci vorranno dieci mesi di discussioni per 
piegare la resistenza dei neutralisti (al momento del voto con-
clusivo in parlamento, il 20 maggio 1915, i socialisti rimarranno 
da soli, ma prima c’erano molti neutralisti cattolici e Giolitti con 
il grosso dei parlamentari liberali, rimastigli fedeli).
L’Italia entra dunque in guerra il 24 maggio 1915; i suoi in-
teressi e le sue simpatie prevalenti la portano a schierarsi dalla 
parte dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia) e contro gli 
Imperi Centrali (per ora solo contro l’Austria, dal 1916 anche 
contro la Germania). Perché? Bisogna ricordarsi che la tripli-
ce Alleanza era stata un «matrimonio d’interesse» dettato dalle 
convenienze internazionali, e non un «matrimonio d’amore». 
L’Austria era rimasta per non pochi Italiani, memori del Risorgi-
mento, il nemico storico dell’unità nazionale; e infatti, rimaneva 
padrona di trieste e del trentino. Con la Germania erano invece 
maturati rapporti positivi:nell’economia e nella cultura, fra i 
borghesi e anche fra i proletari. E infatti – in quei lunghi mesi, 
fra l’estate del ’14 e la primavera del ’15, di trattative segrete e di 
dibattito pubblico – la Germania è piu morbida e l’Austria più 
dura rispetto alle esigenze dell’Italia: che sono, naturalmente, 
di approfittare dell’occasione storica per estendersi. Cioè per 
impadronirsi di tutto il possibile – come pretende il realismo dei 
nazionalisti; ovvero per completare con quel che manca lo Sta-
to nazionale e compiere così il Risorgimento, come altrettanto 
sinceramente desiderano gli idealisti, che sono per l’intervento 
italiano, però democratico, in difesa della libertà e dell’autode-
terminazione dei popoli. Solo che trento e trieste sono terri-
torio austriaco e quindi fa presto la Germania a mostrarsi – ai 
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danni dell’Austria – più comprensiva con le esigenze nazionali 
dell’Italia... Chi ci rimetterebbe non è lei. D’altra parte, è vero 
che tutti e due i blocchi hanno assolutamente bisogno che l’Ita-
lia non si schieri con il blocco nemico: non ha per ora un gran-
de armamento, ma non le mancano gli uomini e se ne schiera 
un milione o più sulle Alpi si apre un nuovo fronte e bisogna 
mandarci un numero adeguato di truppe portandole via da un 
altro fronte. E questo i Francesi non lo potrebbero assoluta-
mente fare, perché hanno sin dal principio i tedeschi in casa, 
giunti subito a pochi chilometri da Parigi, e riescono a bloccarli 
solo perché gli Inglesi sono venuti a combattere al loro fianco 
in Francia. Gli Austro-tedeschi, poi, sono impegnati anche sul 
fronte orientale, contro l’immenso, pur se molto disorganizzato 
e antiquato, esercito degli zar di Russia. L’apertura di un terzo 
fronte meridionale non gli ci vorrebbe proprio. Ed è per questo 
che gli Imperi Centrali si accontenterebbero anche solo della 
neutralità dell’ex alleata. Ma l’Italia – che, come testimoniano i 
due ministri degli Esteri del 1914 e ’15, non era mai stata tanto 
«corteggiata» – finirà invece per schierarsi per l’intervento a 
fianco dell’Intesa che le garantisce in caso di vittoria i vantaggi 
territoriali cui aspira.
L’intervento
La sostanza è questa: una accorta verifica delle convenienze, 
condotta con mesi di trattative diplomatiche, non senza ammic-
camenti e accenni di disponibilità all’uno e all’altro fra i due 
contendenti; e, via via, la scelta di schierarsi a fianco dell’Inte-
sa e contro gli Imperi Centrali. Per un doveroso calcolo degli 
interessi del paese, o per «sacro egoismo» – come dichiara in 
maniera più alata Salandra. Quella cinica è certo l’immagine 
preminente dell’Italia all’estero e non solo presso i suoi ex alleati 
piantati in asso: nel maggio-giugno del 1916 gli Austro-Ungarici 
mettono in piedi per questo, contro l’Italia «fedifraga» – i cui 
soldati vengono rappresentati dalla propaganda come dei loschi 
nani in agguato, piume da bersagliere al vento e coltello dietro la 
schiena – la Strafexpedition: tradotto, la «spedizione punitiva», 
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che per poco, sugli altipiani trentini e vicentini, non riesce ad an-
ticipare di un anno e mezzo la rotta di Caporetto. D’altra parte, 
il paese di Machiavelli è visto un po’ da tutti, a priori e da secoli, 
come il paese dei furbi e, appunto, dei machiavellici. L’Italia 
unita eredita dal Piemonte – sono in molti a pensarlo – l’arte 
furbesca di barcamenarsi, vaso di coccio tra vasi di ferro, mutan-
do volubilmente alleanze: giri di valzer, commenta con ironia il 
cancelliere tedesco, quando ancora Germania e Austria sperano 
di poter trattenere l’Italia dallo schierarsi contro di loro.
E però una visione tanto esclusiva della scelta dell’entrata in 
guerra dell’Italia – in chiave tutta diplomatica e di opportuni-
tà – non rende giustizia alla piazza interventista: ai cortei, alle 
forme di partecipazione collettiva e di entusiasmo corale che, fra 
l’autunno del ’14 e la primavera del ’15, esprimono la volontà 
di guerra di consistenti porzioni di Italiani, specie nelle grandi 
città, borghesi e studenti. Le campagne tacciono, in attesa di ciò 
che – al solito – verrà deciso da altri. Ma nelle città – special-
mente a Milano – l’analisi dei comportamenti collettivi vede sul 
filo di quei mesi ingrossarsi il rumore e la visibilità di coloro che 
si proclamano a favore della guerra e ridursi la capacità di mo-
bilitazione e di presenza delle forze che continuano a preferire 
la pace: per motivi di principio – come i socialisti – o sia morali 
che pratici – come molti cattolici (che si ricordano del comanda-
mento di «Non uccidere», ma anche preferiscono i valori d’or-
dine a quelli di libertà e quindi l’Austria alla Francia, prediletta 
per ragioni opposte da radicali, repubblicani e socialriformisti); 
o per un diverso calcolo delle forze e delle opportunità, come 
quei molti liberali che continuano a rispecchiarsi nel vecchio 
capo Giolitti, il quale fino all’ultimo ritiene che «parecchio» si 
possa ottenere dall’Austria negoziando la neutralità.
Per la guerra sono – da subito o quasi – le forze di centro-
sinistra (repubblicani, radicali come Salvemini, socialriformisti 
come Battisti e Bissolati), con schegge di estrema sinistra (sin-
dacalisti rivoluzionari, persino qualche anarchico e soprattutto, 
dall’ottobre del ’14, il socialista internazionalista «pentito» Be-
nito Mussolini): invocano trento e trieste per l’Italia, libertà per 
i popoli, autodeterminazione per le nazioni; e sono, conseguen-
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temente, contro i due Imperi Centrali, in cui vedono il vecchio 
e il nuovo simbolo dell’autoritarismo e della reazione. Non la 
pensano affatto così i nazionalisti – la nuova destra in formazio-
ne – che partirebbero subito senza scrupoli a fianco degli alleati 
anche perché vedono come il fumo negli occhi la Francia, sim-
bolo della rivoluzione e della repubblica, e la Gran Bretagna, 
simbolo dello Stato parlamentare: il fatto è che sono, soprattutto, 
per la guerra, nella quale vedono lo stato naturale dell’uomo, la 
virilità degli Stati e il motore di un’economia in espansione. Si 
risolvono dunque presto ad appoggiare l’unica guerra possibile, 
quella contro i loro «amici». tanto, nazioni e nazionalisti non 
hanno amici. Sono anch’essi – ironizzano – contro l’«imperia-
lismo prussiano», ma per la semplice ragione che è prussiano e 
non italiano. Moventi e fini del fronte interventista sono, come si 
vede, molto eterogenei; ma l’alleanza si fa in piazza – una piazza 
per una volta non più rossa, ma tricolore – contro quella specie 
di nemico della Patria che è il pacifista: o il panciafichista, come 
lo scherniscono, dandogli del vile, gli oratori che mobilitano le 
folle patriottiche con il linguaggio volutamente sprezzante e in-
timidatorio di un D’Annunzio nel maggio del ’15, proprio da lui 
battezzato radioso. Cesare Battisti – deputato socialista di trento, 
dunque uno dei cittadini «Austriaci» che si sentono Italiani e che 
scelgono di combattere per quella che considerano la propria 
Patria, anche se non è ancora il loro Stato – parla un linguaggio 
più ragionevole e sobrio; ma anche lui porta in giro per mesi, in 
tutti i teatri e le sale da conferenza d’Italia, la parola d’ordine 
emozionata ed estrema: «ora o mai». È «l’ora di trento».
Sarà – per tutti i paesi – invece che una rapida guerra di mo-
vimento una guerra di posizione terribilmente più lunga, deva-
statrice e sanguinosa del previsto: turni logoranti di immobilità 
impotente nelle trincee, sottoposti a ore e ore di bombardamento 
dei grossi calibri; e poi il rapido assalto alla baionetta, sotto il fuo-
co micidiale della nuova regina delle battaglie: la mitragliatrice.
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La trincea
Anche l’assalto, il bombardamento, i primi aeroplani e (sul fronte 
occidentale) carri armati costituiscono atroci luoghi della me-
moria per i popoli europei coinvolti inuna lotta di proporzioni e 
violenza inaudite, che qualcuno ritiene si possa considerare una 
specie di «guerra civile», date le comuni origini e la lunga sto-
ria di coinvolgimenti reciproci propria di quelli che la combat-
tono. trincea e mitragliatrice possono tuttavia considerarsene 
riassuntive. Esse ci dicono l’essenziale di ciò che rende diversa 
rispetto a tutte le altre che l’avevano preceduta quella guerra e 
ne fanno anche un’espressione della modernità e dell’ingresso 
generale nella società di massa e nella civiltà delle macchine. 
Infatti, tutti gli eserciti sono ormai basati non più sui militari 
di professione, ma sulla coscrizione obbligatoria; si mobilitano 
milioni di uomini, sulla linea del fuoco, nei servizi, nelle retrovie 
(si calcola che, all’incirca, su sette uomini solo uno combatta, 
mentre tutti gli altri sono impiegati nei vari punti della catena 
di montaggio della guerra moderna): non è ancora la «guerra 
totale», capace di coinvolgere i civili quanto i militari, come av-
verrà nel secondo conflitto mondiale, ma ci stiamo avvicinando. 
Sono dunque i grandi numeri che contano, la capacità – diversa 
da paese a paese – di mettere in campo, pagare e far funzionare 
una grande e complessa macchina economica, militare e orga-
nizzativa. Questo non significa che i fenomeni di volontariato, 
di partecipazione ideale, le doti individuali, il sentimento civico, 
il morale non contino: contano molto, invece, proprio perché 
vanno misurati sulla media e non più sulle punte. tutti, a que-
sto punto, diventano rotelline di un ingranaggio, quasi nessuno 
insostituibile e tutti, a loro modo, decisivi: l’Italiano normale e il 
tedesco normale, l’uomo medio, appunto, e anche la donna me-
dia, il fante, ma anche l’operaio, il cittadino colto e politicizzato 
e l’uomo dei campi la cui vita si è svolta finora in ambienti tra-
dizionali e ristretti, ignari degli orientamenti che maturano nelle 
città. Insomma, nella prima guerra mondiale, quello che vince 
o che perde, è il paese tutt’intero, non quella sua parte separata 
che era, nelle guerre di una volta, l’esercito: tant’è vero che gli 
Imperi Centrali, e soprattutto i tedeschi, perdono la guerra non 
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perché battuti militarmente, ma perché impossibilitati a resiste-
re e a sostenere, dal paese, l’esercito.
Ebbene, uno dei luoghi primari di incontro e di rifusione del 
paese nell’esercito è proprio la trincea. È in questi fetidi budelli, 
scavati più o meno profondamente nella dura roccia del Carso o 
nei prati della Somme, in Francia, che si realizza un incontro fra 
classi sociali, condizioni, culture, provenienze regionali, dialetti, 
mestieri – che in tempo di pace, probabilmente, non si sarebbe 
mai realizzato. Vivere a così stretto contatto di gomito con degli 
sconosciuti e, spesso, dei diversi, senza più intimità e privato, 
produce, nei singoli, sia assuefazione che nevrosi, sia forme di 
cameratismo e durevoli memorie, sia anonimato e perdita del-
la personalità. Sono fenomeni di adattamento e disadattamento 
con cui i medici militari, gli psichiatri e gli psicologi del tempo 
hanno dovuto misurarsi. Da noi, fra gli altri, a studiare il solda-
to-massa ci si mette un frate, Agostino Gemelli, in buonissimi 
rapporti con il generale Cadorna e quindi ammesso a studiare il 
«materiale umano» con le sue armi di medico e di studioso dei 
comportamenti. In una serie di studi medico-psicologici dedicati 
a Il nostro soldato (1917) il futuro fondatore dell’Università Cat-
tolica del Sacro Cuore, a Milano, e grande regista della cultura 
clerico-fascista fra le due guerre, si compiace dei processi di sper-
sonalizzazione indotti dalla vita passiva e monotona della trincea, 
perché, secondo lui, regge meglio ai bombardamenti e alla priva-
zione di notizie e di responsabilità su ciò che accade ed è più faci-
le che sia un buon soldato il bruto di natura o l’automa prodotto 
dalla vita in trincea, piuttosto che il giovane intellettuale, con 
tutti i suoi buoni sentimenti e valori. Insomma – potremmo dire 
–, Gemelli come Cadorna sono per il gregario e, coerentemente, 
diffidano del militare consapevole. La mitragliatrice, in effetti, 
non guarda in faccia a nessuno e, quando spazza con i suoi pro-
iettili sparati velocemente in successione tutto il terreno davanti 
alla trincea, le probabilità di essere colpito o di farcela a passare 
hanno a che fare più con il caso che con i valori. Fatto sta che il 
condizionamento della trincea non riesce con tutti e che la follia 
– vera e clinicamente accertabile oppure simulata – rappresenta 
una sorta di malattia professionale dell’uomo comune costretto 
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a vivere per settimane fra i topi, che la fanno da padroni, e fra i 
cadaveri dei suoi compagni, che si alternano ai sassi e ai sacchetti 
di sabbia nel fargli da riparo contro i colpi del nemico accucciato 
in un buco simile al suo a qualche decina di metri di distanza.
È tutto da dimostrare che passività e rassegnazione – i com-
portamenti-tipo della normalità militare nell’esercito di Cador-
na – bastino a reggere, non si logorino nel tempo e siano in 
grado di prevalere contro truppe capaci di valorizzare anche 
le doti di autonomia e di intraprendenza dell’individuo e del 
piccolo gruppo. La penetrazione rapidissima realizzata dagli in-
cursori austro-tedeschi il 24 ottobre 1917, mentre tutt’attorno, 
sulle cime e i fianchi dei monti attorno a Caporetto, i cannoni 
italiani tacciono e un gran numero di Italiani si lascia aggirare e 
sopravvanzare in attesa di ordini che non vengono, assistendo 
senza quasi sparare, parrebbe dimostrare il contrario: e cioè che 
le guerre si possono pensare e combattere in diversa maniera e 
che quello di Cadorna era un modello antiquato, anche se – in 
un esercito a maggioranza contadina e largamente analfabeta – 
poteva aver le sue ragioni.
Si pensava che il bagno di sangue sarebbe durato pochi me-
si, si esaurirà invece solo nel novembre 1918. Praticamente, gli 
Imperi Centrali vengono presi per fame, per effetto del blocco 
economico che impedisce i loro approvvigionamenti dall’estero. 
Viceversa, dal 1917 l’Intesa ha dalla sua anche i soldi e i mezzi 
degli Stati Uniti d’America, che vanno ampiamente a compen-
sare la liquefazione della Russia, dove il sistema zarista non ha 
retto alla guerra, i soldati si sono ribellati ed è nato – con la 
doppia rivoluzione, prima liberal-democratica, poi bolscevica 
(comunista), del febbraio e ottobre 1917 – il primo Stato comu-
nista del mondo.
Anche per l’Italia si tratta di una grandissima prova: di gran 
lunga la più difficile da superare nel poco più di mezzo secolo 
di vita dello Stato nazionale. Sei milioni di uomini mobilitati. 
Seicentomila morti. Fatica, spende, si indebita, conosce agita-
zioni nel paese e diserzioni o ammutinamenti al fronte, attra-
versa momenti rischiosissimi (i moti di protesta in una grande 
città operaia come torino nell’agosto del ’17; pochi mesi do-
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po, nell’ottobre, la rotta di Caporetto, con 300.000 prigionieri, 
300.000 sbandati, l’abbandono delle terre «liberate» e anche 
del Friuli e di metà del Veneto, con la ritirata generale sulla 
linea del Piave). Ma il paese e l’esercito tengono, questi terribili 
sforzi hanno successo e l’Italia alla fine ha la meglio sull’Austria 
(novembre 1918).
Caporetto
Qui proprio dobbiamo interrompere la narrazione e fare una 
pausa di riflessione, perché la disfatta di Caporetto – non per 
niente diventata proverbiale – è stata troppo importante nella 
storia d’Italia per poterla liquidare in fretta. Lo è stata e ancor 
più avrebbe potuto diventarlo. L’Austria è stata lì lì per vincere 
non una battaglia, ma la guerra. E allora uno potrebbe dire che 
hanno ragione, nel dopoguerra, quelli per cui la vittoria del ’18 
chiude tutto ed è inutile stare a rivangare le disgrazie del ’17. Ma 
non è così. Vero che Vittorio Veneto «restituisceCaporetto», e 
con gli interessi, perché dopo la disfatta del ’17 l’Italia si risol-
leva e dopo la disfatta del ’18 l’Impero austro-ungarico muore. 
Ma rimane vero che molti, nell’Italia dell’ottobre-novembre del 
’17, avevano avuto paura che stesse crollando tutto, l’esercito e 
il paese; che questa paura della classe dirigente liberale nasce 
da lontano; e che, praticamente, la paura che i soldati abbiano 
«mollato» e non siano più disposti a marciare perdura sino al 
giugno 1918, quando nella battaglia del Solstizio gli Austriaci 
fanno la loro ultima grande offensiva e non ce la fanno a piegare 
la resistenza degli Italiani, dal Grappa al Montello e al Piave: 
per gli Austriaci era la «battaglia della fame», i loro comandi li 
avevano ingolositi assicurando che nella pianura padana c’era 
finalmente da mangiare a sazietà. Perduto quel colpo, le parti si 
rovesciano ed è l’esercito italiano a mettersi a preparare la con-
troffensiva, che poi scatterà vittoriosamente il 24 ottobre 1918, 
nell’anniversario di Caporetto.
Ma su che poggiava – dobbiamo chiederci – quella gran-
de paura di un anno prima? Si è detto che veniva da lontano, 
ma anzitutto veniva da come l’Italia era entrata in guerra nel 
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1914-15: gli interventisti avevano prevalso sui neutralisti, i me-
no avevano forzato i più; si poteva far finta di non saperlo nella 
propaganda; ma naturalmente i governanti sapevano benissimo 
che metà dei liberali non voleva la guerra, non la volevano i 
socialisti e non l’avrebbero voluta neanche molti cattolici, per 
quanto stava in loro. Altro fattore di inquietudine: al suffragio 
universale si era arrivati appena appena alle soglie della guerra, 
dopo mezzo secolo di convinzione che il popolo non fosse anco-
ra maturo. Forse era vero, forse no; ma era comunque una bella 
contraddizione aspettarsi, subito dopo, che tutti quelli che non 
avevano potuto dare all’Italia il loro voto fossero buoni, invece, 
per dare all’Italia il loro sangue. Naturalmente, questo poteva 
non essere una contraddizione per chi era molto tradizionalista 
e di destra, e al contadino-soldato chiedeva solo di continuare 
a obbedire in silenzio.
Ed ecco, allora, le cifre della protesta sociale e militare che, 
crescendo via via nel ’15, nel ’16 e nel ’17, permette poi a molti 
nell’ottobre del ’17 – Cadorna in testa – di interpretare la rotta di 
Caporetto e tutte quelle migliaia e migliaia di soldati che gettano 
il fucile durante la ritirata come un vero e proprio rifiuto di com-
battere, uno sciopero militare, forse addirittura una rivolta simile 
a quella di Russia: l’esito voluto e preordinato di un’azione disfat-
tista, ad opera di socialisti, cattolici e, insomma, di tutta la mala 
pianta neutralista, con vario grado di attivismo e complicità.
Nel corso del ’15-’18 vengono aperti 870.000 procedimen-
ti presso i tribunali militari, saliti strada facendo da 21 a 117; 
un militare italiano ogni dodici viene cioè accusato di un reato 
militare (renitenza alle armi, automutilazione, diserzione verso 
l’interno o verso il nemico, ritardo nel ritorno dalla licenza, di-
subbidienza, gesti, parole o canti sovversivi, partecipazione a 
sommosse e ammutinamenti ecc.); al termine del conflitto, le 
condanne sono 170.000, cioè ne è stato colpito 1 militare ogni 
24. In particolare, le condanne a morte sono 4.028, solo 750 ese-
guite, anche perché spesso pronunciate in contumacia; e queste 
rappresentano solo una parte del tutto, visto che il codice mili-
tare e le circolari sempre più intimidatorie emanate dal generale 
Cadorna consentono, e anzi impongono agli ufficiali, di inter-
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venire subito, di persona e con giustizia sommaria quando il 
rifiuto di ubbidienza si verifichi nel vivo di un’azione e metta in 
pericolo la disciplina dei reparti. Si pongono in questo contesto 
le famose decimazioni – la fucilazione di 1 soldato ogni 10, a 
sorte – quando i colpevoli non siano identificabili e ci voglia, 
immediatamente, un esempio.
Intendiamoci: nessun organismo militare, nella storia degli 
eserciti, sta in piedi senza una certa percentuale di violenza e di 
costrizione. Quello italiano è più duro e avverte come pericolo-
so lassismo qualunque allentamento della disciplina autoritaria, 
proprio perché la società è meno unita, lo Stato più giovane, la 
classe dirigente meno sicura di sé e della fedeltà dei propri cit-
tadini. Qui torniamo all’unanimismo di facciata del maggio del 
’15, radioso per il Poeta-Vate e per non pochi altri, ma non certo 
per tutti quelli che vengono chiamati a combattere. E torniamo 
alle debolezze originarie e specifiche dell’Italia come paese in 
guerra: gli altri paesi hanno un governo di – per dirla alla fran-
cese – union sacrée, l’Italia ha l’opposizione socialista contro, il 
mondo cattolico tutt’al più tiepido e il tradizionale partito di 
governo, quello liberale, spaccato in due.
Se le cose stanno così – e così appunto stavano – non fa 
meraviglia Caporetto, fa meraviglia che la crisi non si sia mani-
festata prima e che l’Italia ce l’abbia poi fatta a superarla. Basta 
questo comunque – che la resistenza abbia avuto successo e che 
a Vittorio Veneto si sia giunti – per ridimensionare la natura e 
la portata del crollo.
Che cosa avvenne veramente a Caporetto resta, in qualche 
modo, non più reale degli incubi catastrofisti in cui immedia-
tamente precipitano molti membri, militari e civili, della classe 
dirigente. I troppi prigionieri c’erano, i troppi sbandati c’erano, 
i troppi che gettavano il fucile c’erano, lo smembramento dei 
reparti, l’accalcarsi disordinato dei fuggiaschi verso i ponti sul 
tagliamento non erano un sogno e neppure solo voci e leggende 
le grida che in molti giuravano di avere sentito levarsi: «Finita 
la guerra». Solo che non c’era la rivoluzione. Anche quelli che 
abbandonano la trincea assicurano che gli è stato ordinato. Da 
chi? Non si sa. Ma è importante che le masse lo credano; e che, 
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incontrando degli ufficiali e persino, in qualche caso, autorità 
civili e politiche prese in mezzo alla folla, diano l’impressione 
del gregge, più che quella di ribelli.
La commissione d’inchiesta – al lavoro fra il ’18 e il ’19 – e 
poi decenni di memorialistica e di riflessione storiografica hanno 
chiarito che, in se stessa, il 24 ottobre e nelle ore immediatamente 
successive, fra Plezzo, tolmino e Caporetto, si era consumata 
solo una sconfitta militare – dovuta a un brillante e modernis-
simo piano di guerra austro-tedesco – a una sorpresa strategica 
che aveva portato a una penetrazione veloce degli incursori nelle 
linee della Seconda Armata, con gravi responsabilità ed errori 
di Comandi, ma non con quel tradimento organizzato da parte 
delle truppe che la cattiva coscienza suggerisce al momento – ai 
Cadorna, ai Mussolini, ai Bissolati – come terroristica interpre-
tazione di ciò che sta accadendo. In conclusione: la rotta e lo 
sbandamento, il gettare le armi vengono oggi considerati l’effetto 
e non la causa di ciò che chiamiamo Caporetto.
Dalla resistenza alla vittoria
Possiamo, a questo punto, riprendere il filo dell’esposizione. 
Non si può mantenere al vertice dell’esercito un generale che, 
per salvare se stesso, ha dato dei traditori ai suoi uomini; quindi 
Cadorna salta, anche per volontà degli Alleati. Inglesi e Francesi 
mandano qualche loro divisione ad aiutare gli alleati in difficol-
tà, ed è naturalmente un segno psicologicamente e materialmen-
te positivo. Il grosso dell’impegno rimane però sulle spalle dei 
padroni di casa. E qui – in questa fase nuova della guerra – mu-
tano parecchie cose: il nuovo venuto al Comando Supremo – il 
napoletano Armando Diaz – è più duttile del «dittatore» Cador-
na, ci sa fare con i politici e con i collaboratori; non è che la di-
sciplina si addolcisca e i tribunali lavorino meno, ma ci si occupa 
finalmente del «morale delle truppe», si migliorano iturni di 
licenza e di trincea, si fa qualche cosa nel campo dell’assistenza 
e a vantaggio delle famiglie dei richiamati, si arriva persino a 
promettere – per il dopoguerra – «la terra ai contadini»... Solo 
promesse, magari, ma intanto, almeno, il segno di un’attenzione 
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ai sogni altrui – dei contadini-soldati, per l’appunto, cioè del 
nerbo dell’esercito –, oltre che ai sogni propri e della parte più 
colta e politicizzata (trento e trieste, grandezza dell’Italia ecc.). 
Più in generale: sempre, probabilmente, ma in particolare con 
un popolo come quello italiano, non ancora del tutto integrato 
e partecipe nella società e nello Stato, risulta più facile compren-
dere e fare una guerra di difesa che una guerra di attacco. Ed 
è proprio quello che è diventata – con il Friuli e mezzo Veneto 
invasi – la guerra dei soldati in grigioverde dopo la ritirata.
In quel frangente supremo, la disgregazione dell’esercito e 
del paese viene evitata, le difese tengono, si ricupera il «mora-
le», i ripetuti attacchi austro-tedeschi non riescono a sfondare le 
nuove linee del Piave, del Montello e del Grappa; e, a corona-
mento di un anno di ricostruzione materiale e psicologica, con 
un nuovo governo (Vittorio Emanuele orlando) e un nuovo Co-
mando Supremo (Armando Diaz) l’Italia finisce per capovolgere 
la situazione e per farcela: l’Austria deve chiederle l’armistizio. 
Dopo lo sfondamento dell’esercito nemico a Vittorio Veneto, 
la corsa vittoriosa verso trento e trieste e la conclusione della 
guerra con la prevalenza dell’Intesa, le parti sembrano davvero 
essersi invertite: l’Italia è più grande, l’Impero austro-ungarico 
si è disgregato e anche l’Impero germanico è in rovina.
IL DoPoGUERRA
L’Italia è più grande – si diceva sopra. E su molti dei monumenti 
ai Caduti che cominciano subito a sorgere in tutti i grandi e 
piccoli centri della penisola (morti o ammazzati sembra troppo 
crudo e brutale, sono parole da non dire), viene infatti ripro-
dotto il motto dannunziano: Per la più grande Italia. Ma in che 
consisteva la «grandezza»? Materialmente e simbolicamente, 
negli ingrandimenti territoriali. Ce n’erano stati, ma a molti non 
parevano abbastanza dopo tutto quel sangue. Le spinte dei na-
zionalisti – per i quali proprio le conquiste sono la misura di una 
Nazione – fanno sì che l’Italia non ottenga solo trento e trie-
ste, ma anche Bolzano e le valli tirolesi, dove si parla tedesco. 
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ovviamente, questa non si può dire una liberazione, è proprio 
una occupazione a mano armata. Ma se non sono Italiani oggi, 
lo diventeranno per amore o per forza col tempo – si pensa. E 
così, alla stessa maniera, mescolando princìpi che si contraddi-
cono a vicenda – tanto l’unico che vale davvero è la forza – si 
pretende per l’Italia la Dalmazia, perché sta scritto nel patto di 
Londra firmato con l’Intesa prima dell’entrata in guerra; e con-
temporaneamente Fiume – non previsto – perché lo richiedo-
no gli abitanti e quindi il principio dell’autodeterminazione dei 
popoli sbandierato dall’Intesa e dal presidente degli Stati Uniti 
Woodrow Wilson come ragion d’essere della guerra e principio 
ispiratore della pace. Intanto, a Versailles – dove si svolgono le 
trattative di pace – non è che manchino, fra gli uomini politici 
dell’Intesa, quelli che ragionano proprio come i nazionalisti ita-
liani: chi più ha, più piglia! E così Vittorio Emanuele orlando 
e gli altri ministri si trovano a trattare in posizioni di debolezza, 
presi fra due fuochi, accusati all’estero di comportarsi da im-
perialisti e all’interno di accontentarsi di una vittoria mutilata.
Anche per Bissolati, per Salvemini e per gli altri ex inter-
ventisti democratici, i nazionalisti e gli ex combattenti vicini a 
D’Annunzio e a Mussolini hanno, nel corso del ’19 e ’20, pa-
role di fuoco. Praticamente, li trattano da inetti o da traditori, 
dei rinunciatari amici della Iugoslavia e degli Slavi, che sono 
la bestia nera degli irredentisti, sempre meno distinguibili dai 
nazionalisti. Se sono diventati in un battibaleno dei «traditori» 
della patria gli ex compagni di strada dell’intervento e del tempo 
di guerra e il presidente della Vittoria orlando, figurarsi come 
questi ultras del patriottismo guardavano a un Giolitti, ai socia-
listi, ai cattolici, a tutti coloro cioè – metà del paese, a dir poco 
– che non si erano mai liberati ai loro occhi del sospetto di essere 
degli intervenuti controvoglia e addirittura dei disfattisti: cioè di 
avere voluto la sconfitta italiana, di avere «fatto» o lasciato fare 
Caporetto gettando apposta le armi, di essersi dati volutamente 
prigionieri per farla finita con la guerra e così via. Un’atmosfera 
avvelenata di sospetti e di recriminazioni incrociate.
Perché, poi, i morti sono stati circa 600.000, c’è un reduce 
o un morto, un ferito, un prigioniero, un mutilato, e vedove e 
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orfani, cioè esperienza diretta della guerra in gran parte delle 
famiglie italiane. La guerra, quindi, dura anche quando è fini-
ta, entra in tutti i discorsi, misura tutte le scelte. Nelle elezioni 
politiche del novembre 1919 gli elettori premiano proprio le 
forze politiche che meno sono sospettabili di avere «voluto» la 
guerra, anche se poi hanno finito per farla come gli altri: i fascisti 
non raccolgono neppure i voti per eleggere il loro capo, mentre 
i socialisti vincono le elezioni, diventano il primo partito e sal-
gono a ben 156 deputati; e quelli del neonato Partito popolare 
italiano – che ricupera alla politica i cattolici ed è guidato da 
un sacerdote siciliano, don Luigi Sturzo, su posizioni oscillanti 
intorno al centro – sono già al primo colpo in numero di 100. 
Uniti potrebbero pensare di costruire una nuova maggioranza 
parlamentare, ma troppe cose li dividono e un governo del gene-
re non nascerà. È uno degli elementi della crisi del dopoguerra, 
perché intanto il vecchio partito della borghesia liberale – che 
ha governato e vinto una guerra di massa, ma che non è riuscito 
e ormai non riuscirà più a divenire anch’esso una forza a base 
popolare – stenta in tempo di pace ad adeguarsi alla nuova situa-
zione creata dalla mobilitazione delle masse avvenuta attraverso 
il suffragio universale e, soprattutto, la guerra. In poco più di tre 
anni, fra il 1919 e il 1922 – dal primo governo Nitti al secondo 
governo Facta – si susseguono ben otto governi, tutti di vita 
breve; e anche questo senso di precarietà contribuisce a spianare 
la strada al «governo forte» di Benito Mussolini.
Ma è venuto il momento di dire qualcosa del movimento 
dei Fasci. Avevamo lasciato Mussolini socialista massimalista 
ferocemente avverso alla guerra di Libia e poi anche alla guerra 
europea. Grida e insegna a gridare «No alla guerra!» sino al 18 
ottobre del ’14, poi, d’un tratto, cambia, e, in men che non si 
dica, da direttore dell’«Avanti!» – voce dell’opposizione sociali-
sta alla guerra – lo ritroviamo il 15 novembre direttore di un suo 
nuovo foglio di battaglia: lo chiama «Il Popolo d’Italia» che pre-
tende di trasformare nella voce di un interventismo rivoluziona-
rio, contemporaneamente socialista e nazionalista. Durante gli 
anni di guerra, è combattente e uno dei capi del fronte interno, 
baluardo contro i disfattisti, tutto sommato più inventati che ve-
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ri. Nel ’19 il suo nuovo movimento si rivolge agli ex combattenti, 
parte dalla valorizzazione della vittoria, ma – a parte questo – il 
programma originario del marzo ’19 appare più di sinistra che 
di destra: per esempio, i Fasci si presentano come repubblicani, 
dicono tante belle cose sul progresso, la democrazia, la pace, i 
diritti delle donne. Marinetti – che ama le parole grosse – au-
spica persino lo svaticanamento d’Italia, cioè che venga buttato 
fuori il papa, come simbolo delle catene del passato.
Si puo dire che, all’incirca, quasi tutti i puntidi quel pro-
gramma avveniristico facciano la stessa fine di questo. Del resto, 
Mussolini non nasconde di considerare i programmi dei pezzi 
di carta. Servono finché servono, appena non servono più, si 
buttano. Adesso per esempio, cioè nel 1919 – quando la rivo-
luzione in diversi paesi europei può sembrare alle porte – gli 
tocca far concorrenza alle sinistre su questo terreno, promettere 
anche lui il «mondo nuovo». Nel giro di pochi mesi, si accorge 
che, da quella parte, sono gia in troppi: socialdemocratici, socia-
listi riformisti, socialisti rivoluzionari, dalla scissione del marzo 
1921 nel congresso di Livorno anche i comunisti, e naturalmente 
gli anarchici e quel che resta dei repubblicani e dei sindacalisti 
rivoluzionari; persino D’Annunzio e i suoi legionari dell’impre-
sa di Fiume risultano strabici, strizzano contemporaneamente 
l’occhio alla rivoluzione e all’esercito (a Fiume, tanto per non 
sbagliare, il Comandante ha due luogotenenti, uno di sinistra, 
uno di destra).
Intanto, gli operai di sinistra, organizzati dal partito e dal sin-
dacato, inventano nel settembre del 1920 una nuova e teatrale 
forma di azione politica, occupando numerose fabbriche metal-
meccaniche grandi e piccole, nelle aree industriali del paese. È 
una prova di forza. Le ciminiere si coronano di bandiere rosse, 
sui muri delle officine compaiono grandi scritte rivoluzionarie 
e i lavoratori – ai loro posti di lavoro – si impegnano a dimo-
strare che ce la fanno a produrre anche senza gli ingegneri e i 
tecnici, perché sono padroni dell’arte e capaci di autogestirsi. 
Può anche esser vero, però in poco tempo i materiali finiscono; 
e, comunque, anche se possono controllare il ciclo produttivo 
dentro la fabbrica, non controllano e non possono nulla fuori, 
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neanche mettere in commercio quel che producono. Fuori ci 
sono la polizia e l’esercito di Giolitti, la vecchia volpe della poli-
tica che capisce che basterà dare tempo al tempo, senza bisogno 
di gravi interventi repressivi. E infatti, sarà proprio così. Gli 
operai saranno costretti ad ammainare le loro bandiere rosse e 
a uscire dalle fabbriche: ci guadagnano solo dei miglioramenti 
sindacali, quel che la dirigenza riformista della Cgl riesce a spun-
tare, che è però molto meno di quanto avevano ipotizzato Anto-
nio Gramsci e le aristocrazie operaie dell’«ordine Nuovo» – il 
giornale torinese che è uno dei nuclei costitutivi del nascituro 
Partito comunista d’Italia.
A questo punto, il biennio rosso del 1919-20 – quando la rivo-
luzione appariva alle porte – volge già al termine e sta per partire 
il contrattacco di quelli che hanno temuto il peggio. È qui che 
– con uno dei voltafaccia repentini in cui Mussolini è maestro – i 
fascisti sterzano decisamente a destra. Gli agrari hanno bisogno 
di una specie di polizia privata contro i braccian ti sindacalizzati 
delle leghe rosse e anche – dove ci sono, come nel Veneto – i 
contadini mobilitati dalle leghe bianche, che i proprietari non 
detestano meno di quelle socialiste: per loro, tutti bolscevichi (co-
me si chiamano i comunisti in Unione Sovietica). I ras, ovveros-
sia i capi del fascismo provinciale, Balbo, Farinacci, Grandi, De 
Vecchi, Caradonna e numerosi altri spadroneggiano sempre più 
nelle campagne e nei centri urbani dalla pianura padana alle Pu-
glie. Capi e gregari portano una divisa di tipo militare, pantaloni 
grigio-verdi e camicia nera; anche se molti sono giovanissimi, 
hanno in buona parte fatto la guerra, specialmente i capi delle 
squadre. Abituati ad avanzare sotto il fuoco delle mitragliatrici, 
per loro è quasi uno scherzo partire in camion per una delle loro 
solite spedizioni punitive – armati di manganello, pugnale, rivol-
tella e bombe a mano – da Ferrara, Cremona, Bologna o Firenze; 
e andare a bastonare i militanti di sinistra, a incendiare le sedi 
sindacali e di partito, i circoli operai, le cooperative, i giornali, o 
a sciogliere con l’intimidazione e le minacce i consigli comunali 
e provinciali conquistati col voto.
Ci sono numerosi morti in questa guerra civile quasi a senso 
unico: luogo per luogo, le sinistre si lasciano cogliere imprepa-
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rate da questa nuova forma di guerra sociale «di movimento» 
e fanno, in genere, da bersaglio pressoché disarmato. Prefetti, 
questori, commissari di polizia, giudici, giornalisti, opinione 
pubblica borghese lasciano fare. Perché? In linea generale, la 
risposta è semplice: perché sentono più estranei e hanno più 
paura dei rossi che dei neri; e molti, anzi, hanno fra gli squadristi 
i propri figli. Fra la borghesia liberale, anche parecchi di quelli 
che nel 1921-22 non sono ancora passati al fascismo pensano, 
sotto sotto, che in fondo i rossi le bastonate se le sono andate 
proprio a cercare e che questo è il momento per assestargli un 
colpo da cui non si risolleveranno per un pezzo. Faranno poi 
in tempo a rendersi conto dell’errore, ma intanto pensano che 
non sia male lasciare un po’ la briglia sciolta a quei maneschi, ma 
provvidenziali giovanotti. Per quegli esponenti della borghesia 
liberale o democratica che invece non si piegano, gli squadristi 
escogitano come forma di punizione una beffa odiosa: se non 
il manganello – che è l’erede del bastone che i signori usavano 
una volta coi servitori, indegni della spada –, un bicchiere di olio 
di ricino, somministrato in pubblico: così si purgano delle loro 
colpe. o la distruzione dello studio. o la lista di proscrizione, 
affissa ai muri, con l’elenco dei concittadini sgraditi perché ostili 
al fascismo, che vengono pressantemente invitati a sloggiare.
Ma come si può passare dallo squadrismo al governo? Nell’ot-
tobre 1922 i deputati del Fascio sono ancora troppo pochi, 
potrebbero bastare per trattare l’entrata in una coalizione di 
centro-destra, magari un rinnovato governo Salandra, ma il mo-
vimento e il suo duce, a questo punto, vogliono molto di più. 
L’ordine di mobilitazione integrale delle squadre parte da Na-
poli dove, a fine ottobre, avviene una grande adunata fascista. 
Ras e gregari ripartono per le rispettive sedi. Devono occupare 
simultaneamente tutti i luoghi di potere e di comunicazione: 
prefetture, uffici postali, stazioni, giornali. Un quadrumvirato 
rivoluzionario – con sede a Perugia e simbolicamente composto 
dall’ex repubblicano Balbo, dal monarchico De Vecchi, dal ge-
nerale De Bono e dall’ex anarchico Michele Bianchi – dovrebbe 
coordinare le migliaia di Camicie Nere che «marciano» verso la 
capitale, con treni requisiti, camion, automobili e anche a piedi. 
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Intanto Mussolini rimane a Milano, nel suo covo al «Popolo 
d’Italia», destinato a diventare un santuario della Rivoluzione 
Fascista e la mèta dei pellegrinaggi di regime: ha i reticolati da-
vanti alla porta, una guardia armata, una bomba a mano e una 
pistola sulla scrivania. Attende. Che cosa? tutto può essere.
Si ritrova – sul filo delle ore – incaricato di formare il nuovo 
governo, ma avrebbe potuto finire in galera o di nuovo esule in 
Svizzera, come ai tempi della sua gioventù ribelle. Infatti, sino 
all’ultimo, quella sbiadita controfigura di Giolitti che è l’ultimo 
presidente del Consiglio dell’Italia liberale, il piemontese Luigi 
Facta – quello che ripete sempre «nutro fiducia...» e spera che 
tutto finisca per aggiustarsi con le buone – esita fra il sì o no. 
Proclamare o no lo stato d’assedio? E l’esercito, come rispon-
derà, se gli si darà l’ordine di usare la forza contro degli ex com-
battenti, con la patria e la vittoria sempre sulla bocca? Pare che 
il generale Diaz risponda diplomaticamente: ubbidirebbe, ma 
meglio non metterlo alla prova. Insomma, non è come tutti gli 
altri stati d’assedio proclamati contro dei morti di fame, conta-
dini o operai; questa volta è come se le classi di governo puntas-
sero il fucile contro una parte di sé. Non è altrettanto agevole. E 
tuttavia, sia pure tardi, Facta a questoestremo gesto di volontà 
finisce per arrivarci: e firma il decreto. Il generale che comanda 
la piazza di Roma mobilita allora i reparti e predispone gli sbar-
ramenti sulle vie d’accesso e i ponti. A questo punto – all’ultimo 
momento, proprio come in un thriller che si rispetti – il colpo 
di scena: il re si rifiuta di controfirmarlo, il decreto non entra 
in vigore, le truppe e gli ostacoli alla Marcia su Roma vengono 
ritirati. E squilla il telefono di Mussolini a Milano. Non deve più 
scappare in Svizzera. Prenda anzi il primo treno, lo vogliono al 
Quirinale. Sua Maestà intende conferirgli l’incarico di formare 
il governo. L’insurrezione finisce – come si dice – «a tarallucci e 
vino», si trasforma in coreografia festosa e – poche ore dopo – 
gli squadristi marciano incolonnati per le vie di Roma, salutati 
dalla folla e «benedetti» dal sovrano.
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Camicia Nera
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DALLA MARCIA SU RoMA AL DELItto MAttEottI
Composto il governo a tambur battente, dal 31 ottobre 1922 al 
25 luglio 1943 Mussolini sarà ininterrottamente presidente del 
Consiglio: anzi, capo del governo, come all’epoca si usa dire, 
perché ha un suono più marziale. L’instabilità dei governi del 
dopoguerra si rovescia nel suo contrario: fascismo e Mussolini 
diventano inamovibili per oltre vent’anni. Spesso, per giunta, 
egli accumula nella sua persona diversi fra i più importanti mi-
nisteri. Nel suo primo governo – che dura sino all’aprile ’24 – 
il giovanissimo presidente del Consiglio (39 anni, un record e 
anche un simbolo della Giovinezza al potere, al posto di troppi 
tremuli ottuagenari) è anche ministro degli Interni e ministro 
degli Esteri. La dittatura sta anche in questo suo non fidarsi pra-
ticamente di nessuno (fa eccezione per il fratello Arnaldo, cui 
passa la direzione del «Popolo d’Italia» e la cui morte precoce lo 
isola dal ’31 ancora di più); e nel fatto che, mentre lui c’è sempre 
e moltiplica le competenze e i ruoli, gli altri ministri, anche se 
fascisti di provata fede, vanno e vengono all’insegna dell’«usa e 
getta» (che anche qui però, con più austero linguaggio militare, 
viene definito «cambio della guardia»). Comunque, nei primi 
due o tre anni, la situazione si presenta ancora relativamente 
fluida. Il primo governo Mussolini non è composto di soli fasci-
sti, è una coalizione: vi entrano anche dei liberali, dei popolari, 
dei nazionalisti, il generale Diaz – simbolo della guerra vittorio-
sa – e un aristocratico ammiraglio.
Si punta a normalizzare gli squadristi, a considerare soddi-
sfacentemente chiusa la dolorosa parentesi violenta di quella 
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che qualcuno ritiene una controrivoluzione preventiva. Anche 
figure importanti dell’Italia liberale – un filosofo come Croce, 
un politico come Giolitti, un giornalista come Luigi Albertini, 
direttore del «Corriere della Sera», che rimane il più influente 
organo di opinione della borghesia – scommettono su questo, 
seppure sanguinoso e forzato, ritorno all’ordine. Non sono i soli. 
Fra i primi e più interessati a dar credito a Mussolini – come 
uomo nuovo privo di inibizioni e di memoria rispetto ai princìpi 
dell’Italia liberale – ci sono le gerarchie cattoliche. Il nuovo papa, 
Pio XI, non esita a sacrificare don Sturzo non appena risulta che 
il fondatore del Partito popolare rimane personalmente troppo 
ostile al fascismo per condividere la spregiudicatezza di manovra 
del Vaticano, che si concluderà, nel 1929, con il Concordato fra 
lo Stato fascista e la Chiesa cattolica: con il quale tutti e due i 
poteri finiscono di seppellire il Risorgimento «scomunicato» e le 
origini liberali e laiche dello Stato unitario. Ma altri avvenimenti 
di rilievo ci separano da questa data cruciale: nel 1923 la riforma 
della scuola, che prende il nome da Giovanni Gentile, filosofo e 
ministro della Pubblica istruzione con Mussolini. Essa traduce 
in realtà attese e studi di anni. Rappresenta il frutto della pre-
valenza, a quel punto ormai ventennale, della filosofia idealista 
nella cultura italiana. È una riforma importante, che viene da 
lontano e che andrà lontano, nel senso che la centralità del Liceo 
classico, del latino, della filosofia e della cultura umanistica in 
genere non costituisce la normativa contingente di un ministro 
passeggero come tanti, ma è incardinata – qualunque giudizio se 
ne voglia dare – nella storia d’Italia; e in questo senso, testimonia 
come anche il fascismo in generale non costituisca una semplice 
«parentesi» – e tanto meno una «irruzione di barbari venuti da 
fuori», come pure a lungo si è voluto credere –, ma un capitolo 
della storia d’Italia.
Riconoscerlo non significa confondere questo capitolo con 
gli altri. E infatti, gli avvenimenti e le scelte successivi – che van-
no immediatamente ricordati – chiariscono la svolta e la nuova 
natura autoritaria dello Stato. Prima di tutto, con il passaggio a 
una nuova legge elettorale – una vera e propria «legge truffa» 
– che assegna i due terzi dei parlamentari a chi prende la mag-
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gioranza relativa. In sostanza: c’erano voluti cinquant’anni per 
arrivare al voto quasi universale (maschile!) e ne bastano una 
decina per mandarlo sostanzialmente in fumo. Il 6 aprile 1924 
si fanno le elezioni con questa nuova pesantissima legge Acerbo 
(dal nome del ministro); per maggior sicurezza i fascisti si pre-
sentano in un listone che comprende anche i sempre più pallidi 
e irriconoscibili liberali. Intimidazioni e violenze caratterizzano 
per giunta l’espressione del voto nei seggi elettorali e «aiutano» 
quelli del listone a prendersi 356 deputati su 535 (il Senato, co-
me sempre, rimane di nomina regia e prono a chi comanda). Il 
24 maggio – e la data naturalmente non è casuale, vuol ricordare 
l’entrata in guerra – la Camera neoeletta si apre con un discorso 
in cui lo stesso Vittorio Emanuele sembra idealmente indossare 
la Camicia Nera. È chiaro anche da questo che ha scelto di con-
fermare il suo appoggio a Mussolini e ai suoi: e – come la monar-
chia – l’esercito, la proprietà terriera, gli industriali, la Chiesa. 
In questo clima di apparentemente riuscita «normalizzazione», 
esplode con fragore il delitto Matteotti: l’unica gravissima crisi 
attraversata dal potere fascista prima di quella dissolutrice che 
porta alla caduta di Mussolini il 25 luglio ’43.
L’avvocato Giacomo Matteotti è un deputato del Partito so-
cialista unitario, un riformista. È stato un neutralista rigoroso in 
guerra, per questo mandato il più lontano possibile dal fronte, in 
Sicilia. Poi amministratore e parlamentare socialista, eletto dal 
poverissimo Polesine dei braccianti: nel 1920 tutti i 63 comuni 
e la provincia di Rovigo erano governati dai socialisti, fra l’in-
credula rabbia dei grandi proprietari terrieri che dominano l’a-
gricoltura della zona, che lanciano le loro squadre armate con-
tro quelli che considerano degli usurpatori di un potere finora 
sempre esercitato da loro. Il Matteotti che il 30 maggio 1924 si 
alza alla Camera a testimoniare, con una serie impressionante 
di documenti e di prove, come in concreto si siano fatte le vota-
zioni, ha dietro di sé questo passato recente. Per farlo diventare 
un simbolo dell’Italia democratica e antifascista, mancavano a 
questo punto il suo discorso di denuncia e il successivo rapi-
mento, in piena Roma (10 giugno 1924), da parte di un gruppo 
di squadristi, che lo massacrano a coltellate e ne nascondono il 
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corpo. Verrà ritrovato solo due mesi dopo, malamente sepolto 
in un bosco. Nel frattempo, e anche dopo, sino alla fine dell’an-
no, Mussolini vacilla. Molti dei suoi compiono in anticipo un 
gesto che verrà ripetuto in massa subito dopo il 25 luglio ’43: 
levano dall’occhiello della giacca la «cimice», cioè il distintivo 
che contraddistingue gli iscrittial partito fascista. Da segno di 
partecipazione al potere è infatti diventata segno di complici-
tà con un crimine politico la cui gravità ed efferatezza balzano 
all’occhio di molti, anche fra i «normalizzatori» e i «normaliz-
zati». Uomini, giornali e gruppi che s’erano piegati al fascismo 
– come un bene o per lo meno un minor male – a questo punto 
non ne vogliono più sapere e si dissociano.
Si sviluppa il fenomeno dell’Aventino: come ai tempi di Roma 
antica, con la «secessione» dei plebei dai patrizi sul colle Aventi-
no, gli esponenti di diverse forze politiche di centro e di sinistra 
abbandonano l’aula parlamentare, dove è chiaro che non è più 
consentito svolgere liberamente il compito di rappresentanti del 
popolo. Il capo degli «aventiniani» è Giovanni Amendola, un 
liberal-democratico, già redattore del «Corriere della Sera», che 
ha subìto aggressioni fisiche da parte squadrista e finirà per mo-
rirne (come un altro fiero e giovanissimo eroe dell’antifascismo 
liberal-democratico, l’intellettuale torinese Piero Gobetti). La 
loro linea politica – debole e attendista – sta tutta nella speranza 
che il fascismo crolli sotto il peso dell’indignazione morale della 
gente e per intervento del re. L’indignazione c’è e dura impoten-
te sei buoni mesi, ma Vittorio Emanuele si guarda dal prendere 
iniziative. Inutilmente, Antonio Gramsci – tra i fondatori del 
Partito comunista – e, fra gli altri, uomini d’azione come il leg-
gendario capitano della Brigata Sassari Emilio Lussu, ora rap-
presentante dei Sardi in parlamento – stimolano gli oppositori a 
essere più combattivi e a osare. Bastava, con un pugno di uomini 
risoluti, attaccare il Viminale – scrive nel suo Marcia su Roma 
e dintorni. Il grosso aspetta e spera che l’autorità delle leggi si 
ristabilisca da sola. Intanto Roberto Farinacci e gli altri fascisti 
più intransigenti minacciano una seconda ondata squadristica e 
premono su Mussolini perché risolva la crisi con la forza. E così 
sarà. Il 3 gennaio 1925 Mussolini prende in pugno la situazione, 
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sfidando opposizioni e alleati con la celebre assunzione diretta 
di responsabilità: «Se il fascismo è stata una associazione a de-
linquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere». 
Comincia di qui la dittatura vera e propria. L’Italia entra nel 
Regime fascista.
IL REGIME FASCIStA
La distruzione della democrazia liberale
Parte la demolizione – ormai anche a suon di nuove leggi – di 
tutti i princìpi e gli istituti della democrazia parlamentare: de-
creti legge contro la libertà di stampa e possibilità di intimidire e 
strangolare i giornali critici con la diffida, il sequestro e la chiu-
sura; scioglimento di associazioni politiche; partito unico (rima-
ne legale solo il Partito nazionale fascista, Pnf); nuovo Codice 
penale (prende il nome da Alfredo Rocco, già cervello pensante 
dei nazionalisti e adesso ministro della Giustizia nonché mente 
giuridica della trasformazione autoritaria dello Stato); ripristino 
della pena di morte; abolizione del sindaco e dei Consigli comu-
nali elettivi e sostituzione con podestà e Consulte di nomina go-
vernativa; neutralizzazione dei poteri parlamentari; nascita della 
Milizia (un esercito di partito nel quale trovano un posto molti 
vecchi squadristi); istituzione del Tribunale speciale per la sicu-
rezza dello Stato (i tribunali normali non erano stati abbastanza 
drastici con gli oppositori, per esempio al processo di Savona 
contro Ferruccio Parri, Sandro Pertini, Carlo Rosselli, colpevoli 
di avere aiutato il vecchio socialista Filippo turati a rifugiarsi 
all’estero); e poi, come non bastasse, rilancio della possibilità di 
mandare anche senza processo qualunque sospetto avversario 
al confino costringendolo a restare segregato per anni in isole o 
in remoti paesi del Sud.
Sono solo alcune tappe di un itinerario accelerato. Nel giro 
di un triennio, fra il 1925 e il ’27, il giro di vite è dato. Esso 
non costituisce solo un plateale ritorno all’indietro, ma la scelta 
dichiarata di una strada diversa, presa in base ad altre priorità e 
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giudizi di valore: in estrema sintesi, che l’autorità è meglio della 
libertà e che i diritti dell’uomo e del cittadino sono superati da 
quelli della Patria, la quale a sua volta si incarna nello Stato e 
più esattamente nello Stato fascista. Chi non è fascista o non 
finge almeno di esserlo, stando al gioco di chi ha vinto, è un 
senza-patria e non ha diritti. Senza la tessera del Partito, negli 
anni trenta, diventerà persino impossibile lavorare, almeno nel 
settore pubblico (perciò la chiamano la «tessera del pane»). Il 
fascismo, a sua volta, non prevede libere elezioni, ma direzione 
dall’alto; sempre più, con il trascorrere degli anni, conta solo 
Mussolini: che è il fondatore e rimane il capo del Partito, anche 
se ne fa via via segretario questo o quell’altro dei suoi uomini 
di fiducia; è capo del governo; è duce del popolo italiano, con 
un termine romaneggiante che non corrisponde a niente di giu-
ridicamente definito, ma a un rapporto mistico di affidamento 
e di comunione; diventerà «fondatore dell’Impero» e poi (da 
soldato e caporale che era stato nel ’15-’18) autolieviterà a co-
mandante dell’esercito.
Cosa gli manca? Di diventare anche, formalmente, capo 
dello Stato, cioè di togliere di mezzo – di fatto e di diritto – la 
monarchia. Gli farebbe ancora ombra il papa, cioè che accan-
to alla nuova «Chiesa» politica permanga autorevole e diffusa, 
alleata benevola – ma anche concorrente –, la vecchia Chiesa 
confessionale nei cui riti e nelle cui tradizioni si riconosce buo-
na parte del popolo italiano. E infatti il persistere della monar-
chia e della Chiesa accanto al crescente potere della dittatura 
di Mussolini fa in qualche misura da freno e contrappeso. Il 
totalitarismo dello Stato, nell’Italia fascista, resta imperfetto ri-
spetto a quello della Germania nazista, proprio perché non si 
può o non si vuole, durante il Ventennio, affrontare in maniera 
risolutiva problemi come questo della diarchia duce-re; e, in 
genere, tutte le forme di compromesso e di mezzadria con i 
poteri tradizionali grazie a cui, nel 1922, la sedicente «rivolu-
zione fascista» ha potuto affermarsi. L’uscita dalla dittatura, 
nel 1943, poggia anche sullo scioglimento di quella irrisolta 
duplicità. Militari, funzionari pubblici, ma anche qualunque 
cittadino benpensante diffidente della politica avranno – nel 
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terribile biennio fra il ’43 e il ’45 – la possibilità e l’obbligo di 
scegliere fra almeno due fedeltà, al re e al duce (in realtà ci sara 
più che mai la Chiesa a fare da terzo incomodo e molti, al solito, 
se ne staranno a guardare).
L’educazione dell’Italiano
Questa drammatica scelta appartiene al domani. Intanto, nella 
seconda metà degli anni Venti e sempre più negli anni trenta, 
l’Italia risulta piegata e organizzata dal Regime fascista: e non ci 
si accontenta di governare, si vorrebbe invadere la vita quotidia-
na della gente. Questo, usando tutti i mezzi possibili. Uno degli 
eroi della modernità nell’Italia fascista è Guglielmo Marconi, 
l’inventore della radio, che viene anche elevato alla presidenza 
della nuova Accademia d’Italia. È una fortuna, per un regime 
del genere, trovarsi a disporre di nuovi e potenti strumenti di 
comunicazione e di indottrinamento come la radio e il cinema; 
un grande giornalista, un oratore trascinante come Mussolini 
monopolizzava già la stampa e la piazza per «rifare» a suo gusto 
gli Italiani. Il settore delle comunicazioni di massa è talmente 
congeniale a Mussolini e alla natura del suo partito-Stato che, in 
pochi anni, quello che era originariamente un semplice ufficio 
stampa alle dipendenze del ministero degli Interni diventa il 
ministero della Stampa e Propaganda; che alla metà degli anni 
trenta – per dargli ancora più peso – si trasforma nel ministero 
della Culturapopolare (i maligni e i «mugugnatori» storpiano 
in Minculpop). Si occupa di giornali, cinema, teatro, musica e 
di ogni possibile manifestazione popolare; sorveglia, censura 
oppure dà il via; agevola o blocca la produzione di opere tea-
trali, film, spettacoli, libri, fumetti; d’accordo con il ministero 
degli Interni, paga sotto banco informatori, propagandisti e spie 
reperendoli e infiltrandoli nelle case editrici, nei giornali, nelle 
università, nei locali pubblici: dove – ingiungono avvisi affissi 
sui muri – discutere è proibito e non si fa politica.
Della scuola si è già detto parlando della riforma Gentile: ag-
giungiamo che il ministero della Pubblica istruzione viene ride-
nominato ministero dell’Educazione nazionale. È un nome più 
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ambizioso, il segno che si vuole scendere nel profondo, impa-
dronirsi delle menti e degli animi. Questa battaglia di conquista 
e sottomissione del popolo italiano – o di forzata «nazionaliz-
zazione delle masse» – la si vuole condurre riempiendo la vita 
di tutti a tutte le età: si impara a essere «buoni Italiani» – cioè 
fascisti – fin da piccini, maschi e femmine, entrando d’ufficio 
nell’Opera Nazionale Balilla e poi nella Gioventù Italiana del Lit-
torio: una trafila di associazioni, di divise, riunioni, simboli, frasi 
fatte, armi e azioni militari simulate o vere. Bisogna imparare 
sin da piccoli a marciare non marcire e a vivere pericolosamente: 
due fra i tanti motti epici fatti scrivere sui muri dal segretario 
del Partito Achille Starace, un uomo tutto di un pezzo, un fe-
delissimo del duce, che arriverà a pretendere dai gerarchi che 
saltino a mo’ di acrobati da circo attraverso un cerchio di fuoco, 
per dimostrare di non amare la vita comoda e di essere degni di 
un regime il cui inno ha per titolo e parola d’ordine Giovinezza 
(finirà fucilato dai partigiani a piazzale Loreto, accanto al cada-
vere di Mussolini, nell’aprile del ’45).
È proprio sulla questione dei giovani – chi ne possiede l’animo 
e ne orienta le fantasie, controlla il futuro – che, poco dopo la 
grande alleanza di regime stipulata con il Concordato del 1929, 
si manifesta l’unico insidioso dissidio venuto alla luce fra i due 
poteri: la Chiesa aveva già mal tollerato la scuola pubblica dello 
Stato liberale; e adesso che sperava di essersi finalmente liberata 
dei laici, degli anticlericali e dei massoni, si trova invece davanti a 
uno Stato etico (vale a dire con la pretesa di avere e insegnare una 
sua morale) e al tentativo di togliere ai tradizionali ordini religiosi 
il monopolio del tempo libero e dei giochi educativi dei ragazzi 
negli oratori. Balilla o chierichetti? È chiaro, si tratta di questioni 
scottanti, la gioventù è oggetto di conquista, il terreno di svilup-
po di qualunque concezione e organizzazione che si proponga 
di durare nel tempo. Chiesa e fascismo, come re e duce, fini-
ranno per fare a mezzadria – lo dicevamo prima. Per molte 
famiglie italiane inesperte di politica, il clerico-fascismo può 
dopo tutto andar bene: Dio, Patria, Famiglia sembra una triade 
comprensiva e rassicurante. Sono gli intransigenti e i «puri» – 
fra i credenti delle due fedi, quella religiosa e quella politica 
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– che vivono con imbarazzo quella situazione di compromesso 
e l’impossibilità di indirizzare in proprio, con rigore e senza 
inframmettenze, la coscienza e i comportamenti collettivi.
Passato il periodo della formazione giovanile – a scuola e 
fuori della scuola – non è ancora finita, perché il Regime predi-
spone luoghi di «educazione dell’adulto», in senso guerriero e 
nazionalista ultra, che coprono anche il tempo libero, con l’O-
pera Nazionale Dopolavoro. Insomma in quei vent’anni l’Italia 
fascista diventa una specie di scuola permanente e, contempora-
neamente, di teatro – dalla Casa del Fascio alle ricorrenti adunate 
in piazza – in cui tutti hanno una parte da recitare: se non da 
protagonisti (per questo c’è Lui, il duce) almeno da comprimari, 
da comparse o da coro.
Teatro Italia
A fare da coro al Primo Attore e a interpretare nel contempo la 
parte del Popolo italiano riunito, hanno incominciato i Legio-
nari accorsi volontari da tutta Italia e i cittadini di Fiume, quan-
do, fra il 1919 e il 1920, il Poeta-Vate ha messo in scena questa 
sua penultima ventura (l’ultima sarà la morte, in realtà soprag-
giunta quasi vent’anni dopo, con un lungo ritiro di D’Annunzio 
nei lussi e nei silenzi di quella sua speciale «isola di Caprera» 
che è la villa del Vittoriale a Gardone, sul lago di Garda). Da 
quella piazza ai confini, il rito dell’adunata del Popolo italiano 
riunito in comunione con il suo duce – dopo che Benito Mus-
solini ha prevalso come interprete del ruolo di protagonista – si 
trasferisce al centro: anzi, nel centro del centro, in quella piazza 
Venezia in Roma su cui si affaccia da un lato l’antico palazzo in 
cui lavora Lui, da un altro lato il Vittoriano: il marmoreo mau-
soleo eretto in onore di Vittorio Emanuele II, che la vittoriosa 
guerra del 1915-18 ha trasformato e ribattezzato in Altare della 
Patria, affiancando al sovrano grazie a cui l’Italia unitaria è nata 
quell’uomo e soldato senza nome, simbolo di altri milioni di 
senza nome – il Milite Ignoto – grazie a cui l’Italia è rinata.
È qui – fra palazzo Venezia, l’Altare della Patria e il vicino 
palazzo del Quirinale, sede del sovrano – che è venuta a con-
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cludersi nel ’22 la sfilata delle decine di migliaia di partecipanti 
alla Marcia su Roma che, mossa con intenti insurrezionali, si è 
venuta infine trasformando in manifestazione coreografica di 
supporto a giochi ormai fatti: teatro, appunto, di massa, la pri-
ma e più rilevante di una serie di recitazioni collettive che si 
susseguiranno negli anni, con gli stessi simboli e divise. Natu-
ralmente andare a Roma e prendere personalmente parte a una 
grande adunata romana – nel cuore istituzionale ed emozionale 
dell’Italia in Camicia Nera – non è cosa di tutti i giorni. Vi si 
può partecipare – nei giorni grandi del Regime – ascoltando il 
discorso del duce e le grida dei presenti per radio; o visionando 
i Film Luce che, settimanalmente, in coda al film, in tutti i cine-
ma d’Italia, aggiornano lo spettatore sulle opere del Regime e 
sui movimenti del duce: il quale non si limita a fare politica alla 
vecchia maniera, ma è nuovo, giovane e iperpresente in tutto: 
si alza prestissimo, va a cavallo, tira di scherma, si sposta da 
una città all’altra pilotando personalmente l’aereo, parla, scrive, 
nuota, trebbia, firma, riceve, proclama.
Se il cittadino dell’Era Fascista non può dunque raggiun-
gere il duce a Roma, è possibile che sia il duce a raggiungere 
lui, perché è sempre in giro per l’Italia e tiene discorsi in ogni 
occasione. Complici la sua facondia oratoria, i suoi articoli sul 
«Popolo d’Italia», la radio, il cinema, le scritte murali, le statue 
e i ritratti, nessun leader politico del passato era stato tanto vi-
sibile e presente quanto Mussolini.
Uno degli effetti dell’intervento dello Stato nel tempo libero, 
accanto a quello della sua politicizzazione, è la maggiore mo-
bilità: per esempio, con il treno popolare, la diffusione cioè di 
viaggi a prezzi ribassati con cui è possibile recarsi in visita a Ro-
ma, Venezia, Firenze, Napoli – per vedere di persona le bellezze 
d’Italia – o anche, i più devoti, in pellegrinaggio politico al covo 
di via Paolo da Cannobio, cioè alla sede del «Popolo d’Italia» a 
Milano, oppure al Sacrario di Redipuglia e agli altri luoghi sim-
bolici della Grande Guerra, o al «Cardello», nella villa a Casole 
Valsenio di Alfredo oriani, un saggista e romanziere politico 
romagnolo vissuto sino ai primi del Novecento e promosso al 
ruolo di precursore del fascismo. Questa messa in movimento di 
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uomini e idee si affianca ad altre iniziative in cui sono i mezzi di 
comunicazionea muoversi e a raggiungere anche i piccoli centri: 
Carri di Tespi, che sono dei teatri di prosa o d’opera viaggianti, 
che trasportano su autocarri macchinari, scene, attori e cantanti 
in giro per l’Italia; vi sono anche dei cinema mobili, che possono 
far vedere film – e l’immancabile Film Luce con l’attualità che 
molto sta a cuore al Regime – anche in campagna, dove ancora 
nessuno, né un privato né il prete, ha avuto cuore di mettere su 
un piccolo cinema. È anche questa una maniera per «andare ver-
so il popolo» – frase d’epoca –, come lo è impiantare apparecchi 
radio nelle aule scolastiche, nelle caserme e qualche volta anche 
nelle aie rurali e raggiungere i grandi pubblici – scolari, militari, 
contadini – con programmi radiofonici particolari. Belle cose, 
in sé, fattori di modernizzazione, che mettono a frutto le nuove 
tecniche di comunicazione. Poi, si sa, la comunicazione non è 
neutra. E poter raggiungere il grande pubblico popolare e fargli 
giorno per giorno il suo discorso, rappresenta, per la dittatura 
fascista, un grande elemento di forza. Purtroppo per lei, non 
ce la può fare, tecnicamente, a monopolizzare l’etere. In tem-
po di guerra, soprattutto, tutti quelli che possono si mettono ad 
ascoltare la proibitissima Radio Londra. È però un rivolo con-
trocorrente, rispetto a una lunga e massiccia ondata di messaggi 
uniformi.
Arte e cultura
Per lungo tempo si è mostrato di credere che, per essere in linea 
con l’antifascismo, occorresse ritenere il Ventennio nero un’e-
poca di barbarie. Le cose sono sicuramente più complesse. Il 
regime del manganello non si è costituito e non è durato così a 
lungo, coinvolgendo in un’adesione più o meno attiva milioni 
e milioni di Italiani, solo perché l’hanno voluto dei bruti. Fior 
di pensatori – di giuristi, di scienziati sociali e di cineasti, di 
sacerdoti e di uomini di lettere – hanno accolto e voluto quella 
stretta autoritaria e quel ritorno all’ordine. Le masse popolari 
armate del tempo di guerra e i conflitti sociali radicalizzati del 
dopoguerra – sullo sfondo della rivoluzione del ’17 in Russia e 
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del timore che anche in Italia gli operai e i contadini riescano a 
unificarsi e a spodestare le classi dirigenti tradizionali – suggeri-
scono a molti conservatori e moderati il disamore per la libertà. 
Si teme che la libertà lasci prosperare il seme della rivolta. Per 
molti, il fascismo è solo questo: un eccesso di difesa contro il 
rischio della rivoluzione, una controrivoluzione preventiva. Ma 
per i difensori dello Stato etico – un filosofo come Giovanni Gen-
tile, ministro della Pubblica istruzione e firmatario della riforma 
della scuola, un giurista come Alfredo Rocco, che dà il suo nome 
al nuovo Codice – non si tratta solo di ergere contingentemente 
una diga difensiva contro la falce e il martello. I valori assoluti 
che intendono proporre e imporre – con la Milizia e con il tri-
bunale speciale – anche con il manganello – sono l’ordine, il 
senso della gerarchia, la partecipazione disciplinata, ciascuno al 
proprio posto, nei ranghi della Nazione e dello Stato. C’è molto 
della vecchia destra ottocentesca nelle loro formule, depurato di 
quanto arieggi anche da lontano al conflitto sociale e politico, e 
dunque del parlamento e dei partiti.
Non basta però questa rielaborazione più intransigente del-
la vecchia destra a esaurire le motivazioni e le attese dell’Italia 
del Fascio. È un po’ il destino dei partiti unici veder rientrare 
dalla finestra – dentro il partito – le divisioni e la molteplicità di 
orientamenti che sono state cacciate fuori dalla porta. E così tu, 
in quel Fascio, trovi, alla lettera, di tutto: la controrivoluzione e 
la rivoluzione per bene (cioè nazionale e non internazionalista) 
in armonia con la Chiesa di Roma (Dio, Patria, Famiglia!); il 
clerico-fascismo e lo Stato etico che basta a se stesso; liberismo 
e dirigismo economico; la «destra» e la «sinistra»; modernismo 
e tradizionalismo, ovvero Stracittà e Strapaese, l’architettura co-
siddetta razionalista (cemento armato, solidità di volumi, geo-
metrie funzionali) e quella delle colonne e archi, ispirata a Roma 
antica; la politicizzazione di tutto e tutti e il motto diffuso «qui 
non si fa politica». In regime di ipotetico monolitismo, tutta 
una serie, invece, di dualismi: e passi per le divisioni di natura 
sportiva, che spaccano e contrappongono le falangi popolari del 
tifo ciclistico e calcistico (da notare che la nazionale di Vittorio 
Pozzo vince due volte, nel ’34 e nel ’38, i campionati del mon-
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do). Binda o Guerra, Bartali o Coppi nel ciclismo; e i derby 
stracittadini torino-Juventus, Roma-Lazio, Genoa-Sampdoria, 
o Milan-Ambrosiana (è l’Inter ribattezzata, perché «Inter» sta 
per Internazionale e Internazionale è diventata una parola spor-
ca). Il dualismo si ripropone e si moltiplica in tutti i campi e le 
arti non fanno eccezione.
Per diritto di primogenitura, Marinetti – sulla breccia della 
Nazione all’attacco sin da prima della guerra di Libia – parreb-
be poter pretendere per il suo futurismo – letterario, pittorico, 
musicale – il primato artistico. L’entusiasta e milanesissimo pro-
feta delle macchine e della velocità – sino all’ultimo militante 
e combattente fedelissimo del fascismo, ancora ai tempi della 
Repubblica Sociale – deve invece accontentarsi di spartirsi lo 
spazio con movimenti e sensibilità che affondano le radici nel-
le più sanguigne tradizioni della provincia e addirittura della 
campagna: come il ruralismo di Mino Maccari, rustico lodatore 
della campagna toscana e del «sano» squadrismo provinciale, 
spregiatore della città e addirittura – è proprio il massimo di 
contraddizione – dello spirito borghese della stessa Roma.
Anche la Decima Arte – il cinema, che vede sorgere negli 
anni trenta importanti iniziative per volontà del Regime: Cine-
città, il Centro Sperimentale, l’Istituto Luce – non scherza in 
fatto di contraddizioni. Chi ha contato i film dichiaratamen-
te politici – pochi – e i molti di più del genere commediola 
scacciapensieri – i cosiddetti film dei telefoni bianchi, fra i quali 
eccellono un regista come Mario Camerini e un attore giovane 
come Vittorio De Sica (il futuro, grande regista del neorealismo 
nel dopoguerra) – ne ha derivato a lungo la convinzione rassi-
curante che, in fondo, neanche il cinema, e più in generale la 
cultura, siano stati veramente fascisti. Certo, compromissioni, 
un generale tirare-a-campare, reticenza e mancanza di spirito 
critico, ma niente di veramente profondo. Chi scrive la pensa 
diversamente. I registi fascisti ci sono stati: Blasetti, nientemeno. 
E il grande Roberto Rossellini realizza persino i film di aperta 
propaganda di guerra fascista sino al 1943. Che, poi, da parte 
delle autorità si preferisca il genere commedia al genere epico e 
militante rappresenta una scelta di regia complessiva – diciamo 
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così – rispetto all’immaginazione della gente. Li si fa sognare. 
Le donne, le macchine, la Riviera. Le famose «mille lire al mese» 
di una allegra canzone. Sogni piccolo-borghesi, ma la base di 
massa del Regime era appunto piccolo-borghese.
Il lettore capisce che non è possibile – in materia di idee e di 
opere d’arte – dare qui più di qualche pennellata, accennare ai 
problemi. Condensiamo questo nodo di questioni così: molti fra 
i lettori e gli estimatori di grandi poeti e scrittori come Giusep-
pe Ungaretti o Luigi Pirandello, scultori come Arturo Martini, 
pittori come Mario Sironi, e poi architetti, fisici, linguisti, storici 
della letteratura e dell’arte e via seguitando per tutto l’arco delle 
professioni intellettuali, si illudono che fingessero e recitasse-
ro, per disperazione o convenienza, quando facevano il saluto 
al duce, giuravano fedeltà al Regime, indossavano la Camicia 
Nera, rappresentavano e propagavano i princìpi del Regime. Si 
è parlato di «dissimulazioneonesta». Noi, invece, preferiamo 
per loro che ci credessero davvero: e cioè che ognuno di loro si 
riconoscesse in questa o quella variante del Fascio: chi nella diga 
antibolscevica e chi nel programma di San Sepolcro del 1919, 
chi nella resurrezione dell’Impero di Roma e chi nel Nuovo or-
dine Europeo. Perché il fascismo – e i fascisti, intellettuali e 
artisti non esclusi – sono un frutto della storia d’Italia. Possiamo 
considerarlo un frutto velenoso. Non però qualche cosa di estra-
neo, caduto chissà come da un altro albero.
GUERRE INtERNE E GUERRE EStERNE
Un anno importante per fare il punto è il 1932, quando si cele-
bra il Decennale della Marcia su Roma. Una grande Mostra della 
Rivoluzione fascista glorifica a Roma le tappe di una conqui-
sta dello Stato che si fa risalire alla campagna interventista del 
1914-15 e allo squadrismo del 1919-22. Il 1915 e il 1922 sono 
rappresentati come l’inizio della «nuova Italia». Per il Risor-
gimento non c’è più molto posto: troppa libertà, troppe lotte, 
troppi partiti. Il Regime si fa un vanto di avere eliminato i partiti. 
Grande impressione sollevano le numerose bandiere rosse por-
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tate via ai socialisti, agli anarchici e ai comunisti ed esposte ora 
come preda di guerra. Alle porte della Mostra fanno a gara per 
«montare la guardia», a turno, autorità e rappresentanti delle 
più varie categorie. Se non invincibile, il potere appare ormai 
saldo. Gli antifascisti non hanno più alcuna possibilità legale di 
far politica. Quando arriva Mussolini – che, oltre ad arringare 
le folle inquadrate dal famoso balcone di piazza Venezia accan-
to all’Altare della Patria, a Roma, va continuamente in giro a 
farsi vedere e a parlare in tutte le piazze d’Italia –, chi è noto 
alla polizia come sovversivo viene tolto di circolazione e messo 
per qualche giorno in galera. Questo per i «pesci piccoli»: per 
i meno piccoli c’è di peggio. Al ministero degli Interni è più 
che mai in funzione la schedatura politica generale (inventata 
a fine ottocento da Crispi) e i fascicoli personali degli antifa-
scisti si riempiono di notizie fatte affluire da prefetture, polizia, 
informatori. Diversi membri della classe dirigente del secondo 
dopoguerra avranno l’onore di ritrovarsi schedati e attentamen-
te seguiti dalla polizia e dalle spie di regime: citiamo per tutti 
il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini, militante 
socialista della nuova generazione, fuoriuscito in Francia.
In questa situazione di blocco di qualunque attività politica 
legale non fascista, non resta che la resistenza morale di un grup-
po non grande di uomini di cultura – se ne fa interprete e guida 
Benedetto Croce, che si è pentito dei suoi primitivi atteggiamenti 
filofascisti; oppure – ma ci vuole il coraggio di mettere allo sba-
raglio la propria vita, e non è da tutti – il passaggio all’attività 
clandestina. Si torna, in certo senso, alla situazione di cent’anni 
prima, con i fascisti nella parte degli Austriaci o della polizia 
borbonica. I più attrezzati e risoluti nell’azione antifascista sono 
i comunisti, che hanno il loro capo, Antonio Gramsci, condan-
nato a vent’anni dal tribunale Speciale e in carcere sino a due 
anni prima della morte (1937); e il nuovo capo, Palmiro togliatti, 
fuoriuscito a Mosca, dove lavora nell’ambito della terza Interna-
zionale, ferreamente guidata dall’Unione Sovietica. Alcu ne delle 
più belle isole italiane – Lipari, Ventotene, Lampedusa – si riem-
piono di militanti comunisti, socialisti, anarchici, di Giustizia e 
Libertà, che è un nuovo movimento animato da intellettuali bor-
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ghesi progressisti intenzionati a riunire il meglio del socialismo 
e del liberalismo. La fuga da Lipari – che appariva tecnicamente 
irrealizzabile – dei giellisti Carlo Rosselli ed Emilio Lussu è uno 
smacco gravissimo per il Regime, un’impresa avventurosa che fa 
conoscere a tutto il mondo come si vive sotto il Fascio. L’arma 
estrema dell’attentato, a questo punto, può apparire l’unica so-
luzione non più solo agli anarchici. E di attentati – mai andati 
a buon fine – è costellata la carriera del tiranno. Il gran parlare 
fascista della grandezza di Roma antica e degli Italiani dell’Era 
Fascista – iniziata il 28 ottobre del 1922 e destinata negli auspici a 
durare un millennio – quali discendenti dei consoli, dei littori, dei 
centurioni e dei capimanipolo (sono alcuni termini ripresi negli 
apparati paramilitari di regime) può contribuire a risvegliare in 
qualche libertario la speranza di liberare l’Italia dal nuovo Cesare 
con il tirannicidio. Naturalmente, a ogni attentato fallito, il Regi-
me si inasprisce: tanto che si è spesso pensato che almeno alcuni 
fossero messe in scena dei servizi segreti. Una finzione in più in 
un mondo di recite e di finzioni.
Si può dire quindi che il Regime viva e si confermi facendo 
la «guerra» a una parte dei cittadini, negando loro cittadinanza 
e italianità. E possiamo anticipare che nel 1938 – quando non 
avrà più o quasi comunisti, socialisti, anarchici, giellisti o altri 
antifascisti sotto mano – questo bisogno di costruirsi e magari 
inventarsi un «nemico interno» da additare all’odio e da perse-
guitare per la sua diversità dalla norma contribuirà a far nascere 
le leggi razziali contro i circa 40.000 cittadini censiti come Ebrei. 
(Sono circa 8.000, dopo il ’45, gli Ebrei d’Italia non ritornati dai 
campi di sterminio.) Ci si arriva anche per altre concause, quali 
il fondo antisemita di una certa teologia cattolica che ha insegna-
to per secoli a vedere negli Ebrei il popolo «deicida». Intanto, 
dal 1936, c’è stato l’avvicinamento alla Germania nazista, dove 
Hitler ha preso il potere nel 1933 e l’antisemitismo ha radici 
profonde. E poi, dal maggio 1936, è nato l’Impero dell’Africa 
Orientale Italiana, che pone nuovi problemi di governo in un 
quadro ormai sovranazionale, con una pluralità di etnie, colori 
della pelle, lingue e costumi. È il frutto della vittoriosa guerra di 
conquista contro l’antico Impero etiopico, condotta con enor-
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me spiegamento di forze (1935-36). Si tratta – spiega il duce 
nelle sue arringhe alle folle nelle piazze, che la stampa del tempo 
definisce sempre oceaniche – di compensare e vendicare Adua. 
Quarant’anni dopo, la «nuova Italia» riesce dove la «vecchia 
Italia» aveva fallito. Grandi sono le speranze che la sottomis-
sione di un territorio più esteso dell’Italia fa nascere in molti 
che, militari o civili, si illudono che in colonia ci sarà lavoro e 
benessere per tutti. Andando contro uno Stato che fa parte della 
Società delle Nazioni (l’onu di allora), l’Italia fascista si è tirata 
contro le sanzioni economiche come Stato aggressore; dilagano 
anche le accuse – fondate – per l’uso di un’arma proibita dalle 
leggi internazionali, i gas.
L’essere «soli contro tutti» diventa però un cavallo di batta-
glia della propaganda che mobilita l’orgoglio nazionale contro le 
inique sanzioni. L’avvicinamento fra Italia e Germania si svilup-
pa anche per rompere questo accerchiamento, perché il paese 
del Nazionalsocialismo non fa parte della Società delle Nazioni. 
Anche la guerra di Spagna (1936-39) vede intervenire l’Italia e 
la Germania a fianco del generale rivoltoso Francisco Franco 
che ha alzato la bandiera della sedizione delle destre contro la 
repubblica delle sinistre. È un primo, sanguinoso scontro inter-
nazionale armato tra fascisti e antifascisti. Nelle brigate inter-
nazionali, a difesa della repubblica spagnola, accorrono anche 
molti volontari italiani, di quelli già fuoriusciti in Francia o in 
Unione Sovietica e di quelli che sconfinano apposta ora. Così 
nei combattimenti si fronteggiano anche Italiani di collocazione 
opposta. Lo scontro del primo dopoguerra fra i rossi e i neri 
sembra riprendere e non è più possibile al Regime occultare che 
gli Italiani non sono tutti uniti sotto le sue bandiere.Da Radio 
Barcellona, la voce di Carlo Rosselli – uno dei capi di Giustizia 
e Libertà e dei protagonisti del processo di Savona e della fuga 
da Lipari – risuona con una parola d’ordine memorabile: «oggi 
in Spagna, domani in Italia!». Lui non ci sarà. Viene trucidato 
in Francia con suo fratello – lo storico del Risorgimento Nello 
Rosselli, allievo di Salvemini – in un attentato organizzato dai 
fascisti. Ma altri al suo posto, fra il ’43 e il ’45, daranno corpo a 
quella speranza, nella Resistenza.
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Prima, però, c’è da attraversare un triennio di guerra fascista. 
Pare che l’Italia di Mussolini debba fare sfracelli: il fuoco tam-
bureggiante della propaganda ha magnificato per anni le qualità 
della flotta, detto e ridetto che l’aviazione italiana – l’Ala Fascista 
– è la migliore del mondo, diffuso ad arte l’attesa di nuove mira-
bolanti invenzioni a cui lavorerà fino alla morte Marconi e altri 
dopo di lui (si vocifera del raggio della morte, di aerei fantasma 
ecc.); e infine – ma non da ultimo – sono in molti a pensare che 
l’Asse e il Patto d’Acciaio fra Roma e Berlino siano stati una scelta 
molto furba, perché la Germania viene considerata un potenza 
militarmente irresistibile. Basta stare al suo fianco, fare una spe-
cie di guerra parallela e ci saranno enormi vantaggi per tutti: il 
Mediterraneo, in particolare, ridiventerà un grande lago italiano 
(altro che l’Adriatico, come ai tempi dei primi avvii nazionali-
sti!), scacciando da Malta e dalle sue basi la flotta britannica, sin 
qui ingiustamente annidata vicino alle nostre coste.
Illusioni. Parole che non diventeranno fatti; o parole non 
all’altezza dei fatti. Nell’aprile del 1939 l’Italia ha già occupato la 
piccola Albania e il re-imperatore Vittorio Emanuele si è aggiun-
to un’altra corona. Il 10 giugno 1940 il duce annuncia la guerra 
alla Gran Bretagna e alla Francia, dal balcone di piazza Venezia 
e via radio, in uno dei suoi discorsi più ascoltati. Poi, in pochi 
mesi, la situazione degenera e ben presto va a rotoli. Si interviene 
tardi contro la Francia, già messa a terra dai tedeschi, solo per 
spartirsene le spoglie: giustamente, i Francesi pensano che sia 
un «colpo alla schiena» e non lo perdoneranno, più avanti, ai 
prigionieri italiani caduti nelle loro mani; il 28 ottobre – nell’an-
niversario della Marcia su Roma e con tanto di discorso e frase 
celebre di Mussolini (spezzeremo le reni alla Grecia) – si aggre-
disce la Grecia: niente da fare, i Greci resistono e per liquidare 
la faccenda bisogna ingloriosamente chiamare a soccorso i più 
spicciativi alleati tedeschi. Ma intanto l’Italia si impegna anche 
in Africa e nel Mediterraneo, contro le truppe britanniche; e si 
aprono il fronte iugoslavo – particolarmente aspro, con le truppe 
italiane impegnate in azioni di repressione antipartigiana; e il 
fronte russo, che si concluderà con una tragica ritirata, al centro 
poi di una memorialistica di reduci (Mario Rigoni Stern, Nuto 
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Revelli, Giulio Bedeschi e tantissimi altri): una testimonianza 
collettiva del disastro e del disinganno tanto folta e caratteriz-
zante – a rovescio – quanto lo era stata dopo il 1860 la memoria-
listica della vittoriosa avventura garibaldina. Due stagioni e due 
spaccati antitetici della storia d’Italia.
Impossibile seguire qui la cronaca degli avvenimenti militari 
sui vari fronti, ognuno coi suoi tempi e caratteristiche differenti, 
ma tutti convergenti verso la sconfitta: magari non senza valore 
né senza onore, come in particolare in Africa, a El Alamein, o 
nella ritirata di Russia, che ridimensionano la potenza dell’Italia, 
ma possono almeno essere vissuti come eroiche disfatte; mentre 
sono solo prove ingloriose il tardivo attacco alla Francia già sgo-
minata e invasa dalla Germania, o l’inefficienza inconcludente 
dell’aggressione alla Grecia; e feroci regolamenti di conti con 
popoli presunti razzialmente inferiori in Iugoslavia, dove anche 
nei confronti delle popolazioni civili i comportamenti delle trup-
pe italiane non sono, spesso, meno truci e criminali di quelli so-
litamente attribuiti ai tedeschi. Il succo è che l’Italia ha preteso 
di fare un passo enormemente più lungo delle sue gambe; che 
ora si trova a combattere su tutti i fronti, per terra, mare e cielo, 
contemporaneamente contro la Gran Bretagna, l’Unione Sovie-
tica e gli Stati Uniti. Va bene che il duce ha proclamato molti 
nemici molto onore e che il duce ha sempre ragione, ma a questo 
punto quelle vanesie parole sono sottoposte al rude controllo dei 
fatti. E i fatti sono che la seconda guerra mondiale è dominata 
dai carri armati e dall’aviazione, ma i carri armati prodotti dalle 
industrie italiane sono scatolette di latta di fronte ai mastodonti 
altrui; che, in una guerra moderna, le corazzate avrebbero bi-
sogno di copertura aerea, ma questa difetta; i caccia di cui si 
dispone non sono competitivi e il non essere competitivi, cioè 
la diversa scala in qualità e quantità di armamento e di ritmo 
produttivo, vale in ogni settore: 11.000 nuovi aerei fabbricati in 
Italia fra 1940 e 1943, quando nel solo 1943 i tedeschi sono in 
grado di produrne 25.000, oltre il doppio. Lo stesso divario, se 
andiamo a confrontare – con alleati e nemici – la qualità e il nu-
mero di carri armati e cannoni. Per i cannoni, si è costretti a far 
conto anche su quelli portati via agli Austriaci nell’altra guerra. 
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Del resto, con qualche aggiustamento, il fucile è pur sempre il 
vecchio 91: dove «91» vuol dire modello 1891. Non è finita, per-
ché la mancanza di materie prime e di armi e strutture produtti-
ve adeguate alle dimensioni mondiali del conflitto rende l’Italia 
dipendente dall’assai più forte Germania; e mostra l’astrattezza 
del sogno di ridefinire le gerarchie delle nazioni, attribuendo in 
una «Nuova Europa» all’Italia un ruolo imperiale paragonabile 
a quello di Roma rispetto ai popoli antichi. Anche l’aggressione 
all’Unione Sovietica non corrisponde solo all’anticomunismo 
originario, ma a uno scontro di sistemi che pretendono tutt’e 
due, e in concorrenza, di costruire l’uomo nuovo e rifare il mon-
do: Roma o Mosca. Nella visione fascista, però, non sono meno 
nemiche dei presunti popoli giovani – Italiani, tedeschi e Giap-
ponesi – le potenze democratico-liberali, che nel gergo d’epoca 
vengono chiamate demo-plutocratico-giudaiche, per dare addosso 
contemporaneamente a tre avversari: la democrazia liberale, il 
capitalismo, gli Ebrei.
La catastrofe dell’Italia fascista è piena e amaramente istrut-
tiva anche in questo: l’offensiva delle armate fasciste viene mes-
sa in rotta sia dal nemico orientale, l’Unione Sovietica, sia dal 
nemico occidentale, gli Inglesi: sul fronte africano si dissolve 
l’Impero e con esso anche le colonie conquistate in età liberale, 
espressione già allora del disegno di fare dell’Italia una gran-
de potenza; poi, dal 9 luglio 1943 – quando avviene lo sbarco 
anglo-americano in Sicilia – gli Italiani hanno la guerra diretta-
mente in casa e non solo patiscono la sconfitta, ma la vergogna 
di essere occupati dal nemico occidentale. Quasi due anni du-
rerà l’agonia, in una guerra combattuta sul suolo italiano, non 
solo, ma in prevalenza fra gli eserciti degli opposti occupanti, 
con i presunti padroni di casa ridotti a un ruolo subordinato, 
anzi, i più, solo di spettatori.
DAL 25 LUGLIo ALL’8 SEttEMBRE
Lo sbarco degli Alleati in Sicilia anticipa e accelera la caduta di 
Mussolini. Vittorio Emanuele III, in parallelo con alcuni gerarchi 
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del fascismo (Dino Grandi, Galeazzo Ciano) e con gli alti gradi 
dell’esercito, è il patrono di una congiura di palazzo che porta 
all’allontanamento del duce il 25 luglio 1943. Il colpo di scena si 
attua in una riunione del Gran Consiglio, un organo di cartapesta 
del fascismo costituito nell’ormai lontano 1923,che vive in quelle 
ore decisive la sua sola occasione di potere effettivo.
La mattina dopo la notte in cui molti dei suoi gli si sono ri-
voltati, quando Mussolini si reca nella residenza del re, Vittorio 
Emanuele III – con gesto assai poco regale – lo fa dopo il collo-
quio prelevare dai carabinieri e incarcerare. Non ci sono reazio-
ni da parte fascista, neppure la Milizia – che è stata istituita per 
questo – alza un dito per difendere il suo capo in disgrazia. Anzi, 
la gente scoppia in applausi e grida di liberazione quando, verso 
le dieci e mezza di quella domenica sera, la radio porta nelle case 
la notizia inaudita che Sua Maestà il re «ha accettato le dimis-
sioni del cavalier Benito Mussolini» e ha incaricato di formare 
il nuovo governo il generale Pietro Badoglio: non precisamente 
un innovatore, anzi, fra i più eminenti generali sin dall’ultimo 
anno della Grande Guerra e poi, con il fascismo, comandante 
dell’esercito e condottiero vittorioso nella guerra d’Etiopia; da 
ultimo, furbescamente defilato rispetto al regime che vacilla.
È estate, molti sono ancora in giro, le finestre sono aperte, 
la voce delle radio si propaga nelle strade, il bollettino ufficiale 
viene più volte ripetuto. È un uragano di urla, si esce, ci si af-
folla, ci si esalta, si piange, si pensa che la guerra sia finalmente 
finita. Veramente, il proclama del vecchio generale ripete che 
«la guerra continua», ma sono in molti a sperare che sia solo un 
modo per prendere tempo. Insomma, quelli che per vent’anni 
si sono serviti di Mussolini, sperano spregiudicatamente che 
basti mollare lui per salvare se stessi, affidandosi a un fascismo 
senza Mussolini o a una dittatura militare. Uno come Badoglio 
– ingrassato dal fascio littorio, rammenta ironica una canzonci-
na dei partigiani piemontesi, la Badoglieide, che se la prende 
anche col suo degno compare Vittorio, cioè con lo stesso so-
vrano – è in realtà impresentabile sia per chi resta fascista che 
per gli antifascisti; ma è un fatto che l’iniziativa, il 25 luglio, 
non l’hanno presa né il popolo né gli antifascisti, semmai una 
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parte dei fascisti e la monarchia; e per i Savoia affidarsi a un 
generale autoritario nei momenti di crisi politica non è certo 
una formula nuova.
Cominciano così quegli strani quarantacinque giorni di so-
spensione e di attesa, dal 25 luglio all’8 settembre ’43. Vengono 
un po’ alla volta liberati i prigionieri politici, ma stentano a rien-
trare i fuoriusciti all’estero e il governo «tecnico» del generale 
ostacola la ricostituzione dei partiti. Nelle strade, sin dalle prime 
ore, cortei e dimostrazioni – tra spontanei e organizzati dalle 
rinascenti forze politiche, in particolare il Pci, che è l’unico ad 
avere sempre mantenuto una rete attiva di uomini e di contat-
ti – vanno in giro a far festa e a spazzar via i simboli di quello 
che si chiama già il passato regime: vengono divelti i Fasci che 
costellano gli edifici pubblici, grandi teste di bronzo del duce 
trascinate per le vie, cancellate scritte dai muri (ma erano tante 
che su qualche vecchia parete se ne possono indovinare ancor 
oggi). Naturalmente, queste forme di festa feroce esprimono 
il bisogno di dissociarsi da un’epoca e sono anche un modo, 
per i più, di far giustizia del proprio passato e di venir fuori da 
se stessi: quasi tutti sono stati o si sono comportati da fascisti. 
Adesso, bruscamente, si chiude.
Ma la guerra non è finita. Non avendo avuto il coraggio di 
prendere subito decisioni nette, si regalano sei settimane di tem-
po ai tedeschi per fare arrivare dal Brennero altre truppe e per 
organizzarsi in vista di un’uscita dalla guerra dell’Italia che si 
può intuire imminente. Si stanno infatti svolgendo trattative se-
grete fra rappresentanti italiani e degli Alleati: l’armistizio – una 
resa senza condizioni – verrà reso noto l’8 settembre. È una festa 
e, nello stesso tempo, una umiliante disgregazione. La gioia è 
diffusa perché la guerra sembra finita; e che ormai sarebbe finita 
male lo si era capito da un pezzo; ma le condizioni disastrose in 
cui è precipitato il paese sono segnalate dalla liquefazione repen-
tina dell’esercito. Scappano in centinaia di migliaia, e scappano 
a cominciare dagli alti gradi (addirittura dal re), lasciando senza 
ordini gli ultimi soldati a presidio di caserme che nessuno vorrà 
difendere e che vengono conquistate da due militari tedeschi in 
motocicletta o poco di più. È una vera, più grande Caporetto. 
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Tutti a casa, sembra il comandamento istintivo che ciascuno – in 
assenza di ordini – dà a se stesso. (Un film famoso avrà proprio 
questo titolo, nel 1960.) Ma rientrare non è così facile. L’Ita-
lia è piena di tedeschi imbestialiti per il «tradimento», da sud 
salgono gli «Americani» – come la gente chiama i soldati degli 
Stati Uniti – e gli Inglesi (e anche Canadesi, Australiani, Neoze-
landesi, Indiani, Marocchini, Brasiliani ecc.), i bombardamenti 
continuano, i treni vanno come possono sui binari sconvolti. 
Molti fra i soldati sono stati sorpresi dall’armistizio, seppure in 
Italia, a centinaia di chilometri da casa (sono i più fortunati: in 
centinaia di migliaia rimangono imbottigliati all’estero nei cam-
pi di prigionia africani, indiani, sovietici, statunitensi). Non è 
facile attraversare il paese, non farsi prendere dai tedeschi (che 
deportano ben 800.000 militari nei campi di internamento in 
Germania), salvare la pelle e tirarsi almeno individualmente fuo-
ri dalla guerra che riprende in nuove forme. Le donne si fanno in 
quattro per aiutare – dandogli da mangiare, dormire e rivestirsi 
con abiti borghesi – tutti quei ragazzi e uomini in fuga, nei quali 
indovinano la condizione dei rispettivi figli, fratelli, fidanzati o 
mariti. È certo una grandissima prova di solidarietà umana che 
scatta per istinto collettivo, senza ordini, dalla società, perché lo 
Stato è allo sfascio.
Ed è proprio questo il problema, su cui da allora – e ancora 
oggi – ci si continua a interrogare. Chi fa fallimento l’8 settembre 
o, addirittura, chi muore? Il fascismo o l’Italia? C’è chi ritiene che, 
in quel naufragio, non sia crollato solo il regime delle Camicie 
Nere, ma il senso stesso della Nazione e la possibilità e la voglia 
di uno Stato italiano, unito e indipendente. Quelli che la pensano 
così – già allora, e di nuovo nelle discussioni che si svolgono con 
particolare accanimento dagli anni Novanta, non interrotte dal 
150° dell’Unità nel 2011 – lamentano la morte della patria; ma 
pensano anche che la catastrofe del tentativo nazionalfascista di 
far pensare e agire l’Italia come una grande potenza si aggiun-
ga a una serie di altri motivi che – e non solo nel paese che ha 
inventato il fascismo – decretano la fine di una forma storica di 
Stato: lo Stato nazionale, quale, da noi, lo ha voluto e realizzato il 
Risorgimento. Il futuro cioè non sarà più dell’Italia, e di altri Stati 
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nazionali della sua taglia, ma dell’Europa – se si riesce a farla – e, 
intanto, di superpotenze quali gli Stati Uniti d’America e l’Unione 
Sovietica, con i relativi alleati e satelliti, Italia compresa.
1943-45: PARtIGIANI, FASCIStI, «zoNA GRIGIA»
Ci si può chiedere allora se, dopo il naufragio del fascismo e la 
sconfitta in guerra, gli abitanti dell’Italia si sentano ancora, e 
con quale animo, Italiani. Dopo il 1945, esiste ancora un’Italia 
come Stato indipendente e sovrano? oppure sono in realtà tutti 
degli «Americani», dei «Russi» o degli «Europei», per scelta 
ideale, per realistica rassegnazione o anche, così, senza saperlo? 
Certo, possiamo constatare che gli occupanti-liberatori del 1943-
45 hanno stabilito e tuttora mantengono stabilmente qui ancor 
oggi, dopo oltre sessant’anni – in veste di alleati –, basi aeree, 
missili, caserme e navi da guerra. Ed è sempre difficile stabilire 
– fra alleati maggiori e minori – dove finisca l’alleanzae dove 
cominci la tutela. Questa stessa presenza di truppe statuniten-
si nel territorio della penisola può tuttavia essere vissuta con 
imbarazzo da chi ragioni ancora nei termini dell’indipendenza 
nazionale e invece come una interconnessione logica da chi si 
senta ormai cittadino di un mondo sovranazionale e integrato: 
il mondo occidentale. Cioè quello che – nella spartizione politica 
del pianeta con gli accordi di Jalta (1945) e nello scontro per l’e-
gemonia mondiale apertosi dopo la vittoria sulla Germania fra 
due blocchi di potenze capeggiati dagli ex alleati ormai contrap-
posti, gli Usa e l’Urss (finché c’è) – resta nell’area di influenza 
degli Stati Uniti, del capitalismo (oggi si preferisce chiamarlo il 
mercato) e della democrazia liberale.
In Italia è dunque accaduto questo: dopo l’8 settembre ’43, 
nel momento del crollo, gran parte degli Italiani e delle Italiane si 
è sentita tradita dalla politica, ha badato solo a sopravvivere alla 
fame e ai bombardamenti, attendendo che qualcuno vincesse e 
mettesse fine alla guerra. Generalmente, tenevano per gli Alleati. 
Così, via via che Americani e Inglesi occupano la penisola, si 
vedono, non senza stupore, acclamati dai vinti come liberatori. 
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Sono stati d’animo complessi, in cui c’entrano stanchezza, op-
portunismo, l’ammirazione e la voglia di stare dalla parte di chi 
vince, e in particolare di quel grande paese del benessere che è 
l’«America»: terra dell’oro per più generazioni di Italiani poveri 
e più che mai in quel momento di crisi e di carestia. Sangue contro 
oro – avevano tanto predicato i propagandisti del regime, per 
giustificare la guerra in chiave di rivendicazione sociale dei po-
poli poveri contro quelli straricchi. Ed ecco quella schiacciante 
superiorità materiale farsi luminosa e palpabile e apparire tutt’in-
sieme incredibile la pretesa di misurarsi con essa alla pari. La 
gomma americana, la cioccolata, le sigarette, la carne in scatola, 
il necessario e il superfluo esibiti e gettati a profusione dai carri 
armati gloriosamente avanzanti tra la folla festante annunziano 
l’arrivo e l’entrata in contatto del vecchio mondo con il nuovo 
mondo dei consumi; e la seducente materializzazione di un paese 
immaginario, già amato dagli spettatori cinematografici attraver-
so i film western e le commedie di Hollywood e conosciuto sui fu-
metti (finché il Regime non li proibisce, condannando il pubbli-
co all’autarchia, cioè a film e a giornalini con trame e personaggi 
nostrani). È il mito americano, capace di calamitare i desideri di 
ogni classe sociale, cui le sinistre si sforzano di contrapporre più 
spartanamente il mito ugualitario dell’Unione Sovietica, a lungo 
e da milioni di persone sognata come il paese dove la rivoluzione 
ha vinto e i lavoratori governano.
E però in quel biennio cruciale del ’43-’45 – dove tutto fi-
nisce e tutto ricomincia – non tutto il paese accetta di ridursi 
a teatro e pubblico di quello che fanno gli altri. Si abbia più o 
meno rispetto pietoso per la zona grigia di attendisti e spettatori 
– coloro che seguono la corrente nel modo che abbiamo deli-
neato – anche in quell’Italia dimissionaria ci sono ancora degli 
attori in proprio. Minoranze, certo, ma non è la prima volta che 
le svolte del paese vengono marcate da soggetti del genere, siano 
avanguardie o retroguardie. Le minoranze attive – dopo l’8 set-
tembre – si dividono in due consistenti e antagonistiche sub-
minoranze. Da una parte, quelli che aderiscono alla Repubblica 
Sociale Italiana, con cui Mussolini – liberato dalla sua prigionia 
al Gran Sasso con un colpo di mano: non italiano, tedesco – fi-
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gura di reinventare il fascismo delle origini, come dichiara quel 
nome ambizioso; e però il tempo delle parole si è esaurito, i rap-
porti di forza si sono rivelati per quello che sono e gli riesce or-
mai solo un’apparenza di governo sotto tutela tedesca. Dall’altra 
parte, quelli che si riconoscono nella Resistenza, antifascista e 
antitedesca. Generalmente, le bande partigiane nascono quando 
un certo numero di militari si vergogna dello sfacelo dell’eserci-
to, non accetta il grido semiunanime Tutti a casa!, non getta le 
armi e sale invece in montagna, dove è più facile trovare riparo 
e creare nuclei di resistenza ai tedeschi e ai fascisti. Quando 
i ragazzi di leva dei centri vicini leggono sui muri l’ordine di 
partire per il servizio militare, molti non ci stanno a rischiare 
l’ultima pallottola in una guerra ripugnante e perduta e non si 
presentano agli ordini della Repubblica di Salò (la si chiama così 
per dire quant’è piccola, con i suoi uffici dispersi dal lago di 
Garda a Venezia, e l’ex duce che se ne sta solitario e impotente 
in una villa di Gargnano, sotto sorveglianza tedesca). Allora si 
rifugiano nei boschi e nelle malghe di montagna; e qui trovano 
altri sbandati come loro e vengono riorganizzati e trasformati 
in partigiani o patrioti, dall’azione combinata degli ufficiali o 
sottufficiali che non si sono dati per vinti e di qualche politico 
antifascista, rientrato dall’estero o dal confino. Achtung! Bandi-
ten! («Attenzione! Banditi!») è invece il grido d’allarme degli 
occupanti germanici – e dei fascisti al loro fianco – che li consi-
derano criminali, ribelli e li trattano come tali.
Si sviluppano così, nell’Italia centrale e settentrionale, le 
azioni di guerriglia: attacchi di sorpresa ai convogli tedeschi, 
atti di sabotaggio ai ponti e alle linee ferrate, attentati dei Gap 
(Gruppi d’azione patriottica), scontri armati con la Guardia 
nazionale repubblicana, la Decima Mas e il pullulio delle varie 
formazioni fasciste: militarmente, un prezioso lavoro di suppor-
to coordinato con gli Alleati, a cui partecipano anche reparti 
dell’esercito in via di ricostituzione nel Regno del Sud; politica-
mente e moralmente, qualcosa più del mero dato quantitativo 
e militare, che già non sarebbe poco. Due anni duri, nel corso 
dei quali subiscono carcere, torture e muoiono, negli scontri 
oppure fucilati e impiccati dai nazifascisti, decine di migliaia di 
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partigiani. Gli eccidi e le rappresaglie coinvolgono spesso anche 
i civili, all’insegna barbarica della razza eletta (dieci Italiani per 
un solo tedesco: da cui le Fosse Ardeatine a Roma, Marzabotto 
in Emilia, Boves in Piemonte e infinite altre distruzioni di interi 
paesi e stragi). Al termine della lotta, nei giorni del 25 aprile 
1945, l’insurrezione nazionale ordinata dal Comitato di libera-
zione nazionale (Cln) nelle città del Nord.
È qui, in queste bande di giovanissimi, che rinasce l’Italia, 
ovvero un’altra Italia, rispetto a quella ormai naufragata del du-
ce (Mussolini viene catturato e fucilato dai partigiani il 28 aprile 
mentre scappa su un camion di tedeschi): e un’altra Italia, a 
questo punto, anche rispetto a quella del re, irrimediabilmente 
compromessa con quella del duce. I nomi che i reparti partigiani 
si danno sono quelli dei personaggi e dei volontari del Risor-
gimento e della Grande Guerra: Garibaldi, Mazzini, Mameli, 
Battisti; e, insieme, quelli degli antifascisti perseguitati o uccisi 
dai fascisti: Gramsci, Matteotti, Rosselli. Oggi in Spagna, domani 
in Italia! – aveva gridato Carlo Rosselli all’epoca della guerra di 
Spagna. Ed ecco, quel domani è giunto. È giunta anche l’epoca 
di un secondo Risorgimento, che riprenda e vada oltre il primo, 
più nella direzione di quello che avrebbero voluto farne i demo-
cratici di Mazzini, Cattaneo e Garibaldi, che di quel che ne han-
no fatto i moderati di Vittorio Emanuele e di Cavour. Va detto, 
a questo punto, che a Mazzini e Mameli o Pisacane mostra di 
richiamarsi anche una parte degli ultimi fascisti, fra i quali non 
mancano i ragazzi e le ragazze (ausiliarie), giovanissimi che non 
riescono a capacitarsi come mai, d’un tratto, tutto ciò che gli si 
è insegnato come vero e sacro non lo sia più, e che reagisconoa 
quello che gli sembra, ed è, il voltafaccia degli adulti.
Ma che sia da parte antifascista che da parte fascista si com-
batta e si muoia nel nome dell’Italia e che si contenda su chi sia 
il vero erede della parte migliore del Risorgimento, non pare pro-
prio un segnale che L’Italia non c’è più o della Morte della patria. 
È lacerata e ferita, ma non immobile in coma; e – nonostante 
sia chiaro a tutti che, chiunque vinca, l’esito della guerra ormai 
lo decidono soprattutto gli altri – esprime centinaia di migliaia 
di combattenti volontari: con opinioni e con propositi opposti, 
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questo è chiaro, per opporsi al collasso e uscirne. tanto che par-
tigiani e fascisti si sparano addosso: perché non c’è solo la guerra 
di liberazione nazionale dagli occupanti tedeschi, c’è anche una 
guerra civile fra Italiani in incubazione già dai tempi dello squa-
drismo e degli scontri fra braccianti e agrari nel primo dopoguer-
ra; e – poiché nella Resistenza le guerre si possono considerare 
tre in una – la guerra sociale, cioè la speranza dei partigiani di 
sinistra – comunisti, socialisti e azionisti –, ma non altrettanto di 
quelli moderati, di trasformare radicalmente la società e lo Stato.
Non basta: tra i fascisti – e non solo da adesso, nell’ora della 
sconfitta – non tutti pensano più all’Italia e alla Nazione; vi è 
chi ragiona in termini di Nuovo Ordine Europeo e di Impero 
sopranazionale, che ormai, visto come sono andate le cose, non 
potrà essere dominato che dalla Germania: arrivano anche a 
iscriversi direttamente in reparti tedeschi e vi sono persino delle 
SS italiane. E anche fra i partigiani, il riscatto nazionale si me-
scola agli orizzonti internazionali: il sogno americano, il mito 
dell’Armata Rossa liberatrice dei popoli oppressi e dell’Unione 
Sovietica paese-guida o gli ideali del federalismo europeo – che 
contraddistinguono e dividono i partiti e i cittadini nel lungo 
dopoguerra – hanno radici in quel 1943-45 e prima. I giovani del 
Partito d’Azione – erede di Giustizia e Libertà – si rifanno sin 
dal nome a una matrice risorgimentale, ma sognano un’Italia di-
luita nell’Europa, hanno in mente come modello la democrazia 
liberale inglese e statunitense. I cattolici esprimono un solidari-
smo cristiano cui possono andare stretti o apparire ininfluenti 
i confini nazionali, qualcuno dei loro capi intellettuali pensa 
all’«Europa cristiana»; ma intanto ci sono anche loro schierati 
accanto agli esponenti delle altre famiglie culturali e politiche 
del paese, unite come mai prima d’ora nei Cln, ciascuno con 
una sua storia alle spalle. Non mancano neppure gli autonomi 
– esponenti della borghesia, militari, anche carabinieri – che 
non vogliono impegnarsi politicamente per il domani e che ac-
coppiano l’anticomunismo all’antifascismo, ma intanto sanno 
che, militarmente, i più numerosi e organizzati sono i garibaldini 
comunisti e che senza di loro l’Italia non rialza la testa e la guerra 
di liberazione nazionale non si può fare.
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Il lungo dopoguerra
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«Itala gente dalle molte vite!». Allora – fra gli anni Quaranta e 
Cinquanta – la classe dirigente aveva generalmente fatto il Liceo 
e frasi classiche così ce le aveva dentro. Quasi a contrappasso 
dell’abuso che ne ha fatto il fascismo, questa ci serve ora per en-
trare nel lungo dopoguerra: con il sorriso e le prese di distanza 
che meritano le frasi fatte, però senza eccessi di ironia. Perché, 
effettivamente, sì: c’era da uscire, contemporaneamente, dalle 
rovine della guerra perduta e dalle rovine di un regime. Inven-
tandosi questa nuova formula politica, il fascismo, si erano ven-
ticinque anni prima – la lunghezza di una generazione – strette 
in fascio famiglie culturali e correnti politiche diverse: non so-
lo per contenere le masse popolari e impedire che – come nel 
primo dopoguerra appariva imminente – andassero a sinistra, 
facendo la rivoluzione o semplicemente, come stava accadendo 
nel 1919, vincendo le elezioni; ma anche per integrarle nella 
nazione. E per rendere così l’Italia una potenza, una grande 
potenza. Vecchio sogno, già tutt’altro che estraneo alla classe 
dirigente dell’Italia liberale: motore della spinta al colonialismo, 
appena vent’anni dopo l’Unità, nella prima guerra d’Africa, e 
poi all’andare in Libia, alla scelta di entrare in guerra, potendo 
forse evitarlo: la Grande Guerra, combattuta e vinta nel 1915-
18, che coinvolge, volere o no, milioni di uomini e di donne 
in una dolorante e vittoriosa storia comune. Niente, dopo la 
guerra, sarà più come prima. Un regime di disciplina – questo 
pretenderebbe di essere il fascismo: una rivoluzione disciplina-
ta, allo stesso modo in cui a suo tempo si era potuto vedere come 
un rivoluzionario disciplinato Garibaldi. tutti, anche i civili e 
non solo i militari, e pure le donne e i bambini: tutti idealmen-
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te – e non solo idealmente – con una loro divisa, militi della 
Nazione, in ogni stagione della vita. tutto dentro la Nazione, 
nulla e nessuno fuori della Nazione: gli antifascisti non sono 
veri Italiani, sono obiettori, transfughi, disertori dalla Nazione; 
e ai fuoriusciti – così sprezzantemente definiti per negargli la 
nobile immagine risorgimentale dell’esule – si arriva a togliere la 
cittadinanza. Con queste forzature autoritarie e disciplinatrici, 
Mussolini sospinge l’Italia in Camicia Nera alla vittoria in una 
nuova e più grande guerra coloniale, all’Impero, poi a vincere 
in una nuova guerra europea di contrapposizione ideologica tra 
fascisti e antifascisti come quella di Spagna, e infine alla guerra 
su più fronti – «contro tutti», «molti nemici molto onore»! – che 
è la seconda guerra mondiale. Con i risultati che sappiamo.
RIPARARE IN GREMBo ALLA CHIESA
ora bisogna raccogliere i pezzi. E chi li raccoglie i pezzi? Chi 
può ancora rimettere insieme e in piedi questo vecchio paese, 
che si è sentito giovane e nuovo, e scopre ora, con disillusione 
atroce, di avere fatto il passo più lungo della gamba?
La Chiesa cattolica, innanzitutto la Chiesa. Il papa sta a Ro-
ma e ha una storia, una identità di riserva da offrire al popolo 
italiano sinistrato e malconcio. Lo riaccoglie e lo avvolge nel suo 
abbraccio. Ha fatto un lungo viaggio, questo popolo – o parte di 
esso – per mettersi politicamente in proprio. Il Risorgimento, lo 
Stato laico. Già alle elezioni del 1913, però, che sono le prime in 
cui viene chiamata a votare quasi tutta la popolazione maschile, i 
possidenti e gli avvocati liberali – la borghesia – han dovuto chie-
dere aiuto al popolo dei preti, se volevano avere più voti dei can-
didati socialisti: non gratuito, questo aiuto; il liberalismo italiano 
diventa sempre meno laico e autosufficiente come concezione del 
mondo; di nuovo a dei parroci in divisa – i cappellani militari – si 
fa ricorso nel 1915 per tener buoni i contadini-soldati in guerra, 
contro il nemico esterno. Finché, nel 1929, Stato e Chiesa cele-
brano le definitive esequie della laicità, della libertà di pensiero e 
della autonomia della politica con il Concordato.
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Questo pro-memoria potrebbe portare a chiederci: ma se ci 
sono stati quei Patti e ne è derivato, fra 1929 e 1943-45, un 
clerico-fascismo diffuso – minimo comun denominatore: Dio, 
Patria, Famiglia – com’è che alla caduta del fascismo la Chiesa 
riesce ad apparire una via d’uscita? Non è più innocente, non è 
più illibata di Casa Savoia, degli agrari, della grande industria, 
c’è stata dentro fino al collo – in solido con tutti gli altri poteri 
forti – dentro la miscela di regime. Ecco, appunto: come tutti 
(quasi tutti: gli antifascisti che tengono sempre duro esistono; e 
le eccezioni contano). Solo che la forza di radicazione, i prece-
denti, le risorse di autorevolezza e di poteredi cui sono dotati gli 
apparati ecclesiastici sono superiori. Vince la storia lunga contro 
la storia breve. Le possibilità di svincolamento del cattolico so-
no maggiori. Lui, il credente, non soffre la doppia cittadinanza 
che per i non credenti costituisce un problema: anzi, per il cre-
dente, questo doppio riferimento alla Chiesa e allo Stato – che 
è tipico degli Italiani – è una straordinaria e speciale risorsa nel 
momento in cui lo Stato fascista viene meno. Non c’è più lo 
Stato fascista, appare improbabile tornare indietro allo Stato 
liberale; ma la Chiesa c’è sempre, resta in piedi, offre riparo a 
tanti uomini, materialmente e idealmente in fuga. È tutto abba-
stanza chiaro già nella guerra civile: persecutori e perseguitati 
si scambiano le parti e gli uni e gli altri – prima gli antifascisti, 
poi i fascisti – trovano rifugio a turno nelle stesse sacrestie, pie 
case o edifici conventuali. Una sorta di Medioevo ripristinato, 
con il ricupero di fatto del diritto d’asilo. Appare «normale» che 
da tante parti le riunioni del Cln avvengano in parrocchia; che 
le trattative coi fascisti e i tedeschi all’ultima ora siano mediate 
dal vescovo locale.
L’Italia, che sarà democristiana per mezzo secolo, si riscopre 
e comincia ad esserlo già durante la guerra. Si sono fatte ironie 
sul fatto che Pietro Nenni – l’ex repubblicano interventista della 
Grande Guerra, diventato fra le due guerre il nuovo leader del 
Partito socialista – si salvi dalle retate nazi-fasciste rifugiandosi 
in un convento romano. E non succede solo a lui: una parte della 
classe dirigente antifascista e post-fascista deve la vita ai frati. È 
emblematico, certo, dello strapotere territoriale degli apparati 
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ecclesiastici, che qualunque cartina di città italiana – con la rete 
di conventi, chiese e punti di appoggio vari – fa presto ad evi-
denziare. Ma – fatta salva la carità cristiana – è anche chiaro che 
la convenienza era reciproca. Gli antifascisti si salvano all’ombra 
delle chiese, la Chiesa si paga esimenti e perdoni, cioè il bigliet-
to di ritorno dall’abbraccio clerico-fascista. E del resto, anche 
molti nazisti, oltre che fascisti, si salvano così, fra confessionali 
e tabernacoli, prima di sparire per sempre in qualche luogo del 
Sudamerica, all’ombra di dittature compiacenti. Non esiste d’al-
tronde solo «la» Chiesa come istituzione nel suo insieme, esisto-
no al suo interno gli orientamenti e i comportamenti dei singoli, 
ciascuno dei quali è poi un uomo con le sue idee e propensioni. 
Il mondo cattolico è complesso, e non uniforme.
E così si restaura, riemerge vittoriosa l’Italia guelfa, l’Italia 
reale preconizzata fin da sessanta-settant’anni prima, dai tem-
pi dei tre papi del mezzo secolo dopo l’unificazione: Pio IX, 
Leone XIII, Pio X. Spodestati da Roma come «papa-re», con 
Pio IX, vi si ritrovano «Primati d’Italia», con Pio XII: non solo 
come magistero religioso, ma come potere sociale, di indirizzo 
e di salvezza, delle coscienze e persino, talvolta, della straziata 
fisicità dei corpi.
DUE DIVERSI ESoRDI: IL ’45, IL ’48
Ma, narrata così, questa vicenda a «lieto fine» – che sembra sro-
tolare all’indietro la storia del paese verso le attese e le pretese 
clerico-intransigenti – è troppo unilaterale. Perché, sia pure in 
questa maniera imbarazzante, un antifascista di lungo corso fuo-
riuscito in Francia come Nenni si salva, mentre Palmiro togliatti 
torna dall’Unione Sovietica, dove fra le due guerre ha trovato 
rifugio lui; e l’azionista e prossimo socialista Emilio Lussu dal-
la Francia, il liberal-democratico Gaetano Salvemini dagli Stati 
Uniti; e tanti altri antifascisti – di quelli incompatibili con la 
«normalità» e le doppie verità di regime – tornano dalle isole del 
confino, dalle carceri, dall’esilio. Sono diverse migliaia, l’ossatu-
ra e l’anima di una possibile nuova Italia. Perché anche questa 
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non compromessa e collusa è Italia; ed è un’altra storia, anzi, 
una pluralità di altre storie, non riducibili ad una, ma abbastan-
za significative da permetterci di ricondurre anch’esse all’una o 
all’altra delle «Italie in cammino» fra otto e Novecento. Una 
«Italia di sinistra» – chiamiamola molto sommariamente così – 
riesce a comporre le proprie diversità interne nella Resistenza 
antifascista e antitedesca, stabilendo anche punti di accordo con 
gli antifascisti dell’ultima ora, i nati fascisti redenti dalla guerra, 
e, politicamente, con i democristiani: accordi che consentono 
intanto di rialzare la testa combattendo insieme una guerra di 
liberazione nazionale; e, sulla spinta, di arrivare alla Repubblica 
e alla Costituzione. La soluzione repubblicana prevale – non 
per molti voti – su quella monarchica nel referendum istitu-
zionale del 2 giugno 1946: storica elezione, anche perché per 
la prima volta il suffragio universale è veramente tale e votano 
anche le donne; e perché vengono scelti i membri della Assem-
blea Costituente, chiamata a discutere e decidere, articolo per 
articolo, la nuova Costituzione, che deve sostituire il vecchio e 
rattoppato Statuto Albertino di cent’anni prima. Saranno un 
consesso di alto profilo – Piero Calamandrei, Lelio Basso, Aldo 
Moro e altri, anziani, ma anche giovanissimi «padri della patria» 
– e un quadro generale molto avanzato: un progetto, un ponte 
lanciato verso il futuro, oltre che un fruttuoso bilanciamento 
attuale delle tre famiglie politico-culturali, schematicamente 
denominabili come liberal-democratica, cattolico-democratica 
e socialista. Sono pochi mesi, ma mesi in cui mettono le basi del 
futuro governando insieme ad Alcide De Gasperi personaggi 
come Benedetto Croce, Ferruccio Parri, Pietro Nenni, Palmiro 
togliatti: la «pace» coi fascisti – cioè l’amnistia – si assume la 
dura responsabilità di firmarla, come ministro della Giustizia, 
il segretario del Pci in persona, togliatti, l’unico che possa farla 
andar giù agli ex partigiani; con analogo realismo i comunisti 
arrivano anche a salvare il Concordato del ’29, con grave disap-
punto di socialisti e azionisti, allora e dopo più preoccupati di 
loro dei valori laici. Sono rami d’olivo porti dai vincitori – pre-
cari – a componenti maggioritarie della popolazione. Sembre-
rebbe l’avvio di una grande stagione politica di riforme pensa-
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te insieme, in un intreccio fecondo – difficoltoso, ma sempre 
riconquistato – fra le diverse storie che stanno nel profondo 
dell’Italia e che la fanno essere quello che è: isolando a destra e 
mettendo fuori gioco le due storie – reali anch’esse, ma sconfitte 
– dei monarchici e dei fascisti. Ben presto, però, la sintesi fra i 
partiti antifascisti del Cln viene meno. Non aveva retto dopo la 
Liberazione il primo governo antifascista, presieduto dall’azio-
nista Parri, il Maurizio capo della Resistenza: con i suoi equilibri 
politici più avanzati, ricalcati sulla mobilitazione dell’Italia resi-
stente, ma incuranti del fatto che il vento del Nord non sia arri-
vato a soffiare altrettanto impetuoso nel Regno del Sud. Durano 
e agiscono più a lungo i tre governi del tripartito, messi in crisi 
dal loro stesso presidente Alcide De Gasperi nel maggio ’47; il 
Partito d’Azione non regge alle sue interne tensioni e si sfalda; 
e alle elezioni politiche del 18 aprile 1948 neppure l’Italia di 
sinistra riesce a presentarsi insieme: divaricandosi fra un Fronte 
popolare all’insegna di Garibaldi, che vede alleati i socialisti di 
Nenni e i comunisti di togliatti, mentre stanno ormai dall’altra 
parte i socialdemocratici di Giuseppe Saragat, che nel ’47 ha 
guidato una scissione dal Partito socialista, benedetta dagli Usa. 
Anche quel tanto di borghesia liberale e liberal-democratica che 
ha potuto offrire avvocati, professori, studenti e anche qualche 
imprenditore e ufficiale nella stagione della lotta di liberazione 
nazionale dallo «straniero», rifluisce a destra o comunque suposizioni più moderate in questa nuova stagione politica che si 
estenderà al dopoguerra: e in cui prioritario – ecco il punto di 
contrapposizione – appare ormai a molti essere anticomunisti, 
assai più che essere antifascisti. La Costituzione nata dalla Re-
sistenza – con tutta la sua carica progressiva e dove si sancisce 
la messa fuori legge del fascismo – si ritrova così più avanzata, a 
lungo troppo avanzata rispetto all’equilibrio effettivo delle for-
ze, alle leggi ereditate dal fascismo tuttora vigenti e alla realtà 
degli spiriti pubblici.
Spartiacque decisivo, dunque, il 18 aprile: o di qua o di là. 
Pesa moltissimo, nel trionfo elettorale di moderati e conserva-
tori (riesumiamo delle etichette che almeno in parte ci servono), 
proprio questo senso diffuso e ultimativo dell’«o di qua o di là»: 
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o con l’«occidente» o contro l’«occidente»; o con Washington 
o con Mosca; e alla fin fine – ancora più intimidatorio e irrevoca-
bile – o con Dio o contro Dio (nel segreto della cabina elettorale, 
Dio ti vede, Stalin no – proclama un azzeccato slogan d’epoca); 
o con tutte le nostre tradizioni, la Madonna, i Santi, le pievi, il 
Santo Natale, tutto ciò che riaffiora dall’infanzia e dall’interiori-
tà di ciascuno e fa tanto «Italia», appare naturale, siamo «noi», 
«fatti così», «da sempre», da una parte; e dall’altra, invece, loro, 
gli altri, i rossi, i negatori di tutto questo, i senza Dio.
C’è poco da scherzare, sulle forme e i contenuti di queste 
contrapposizioni. Qualcuno cerca ancor oggi di riesumare e tra-
durre in voti la paura del comunismo; e figurarsi quanto potesse 
funzionare come deterrente e come collante politico elettorale 
quando l’Unione Sovietica c’era, l’Armata Rossa c’era, il confine 
fra le due grandi aree «imperiali» era a trieste, e c’erano il Pci e 
il Psi e c’era – come c’è ancora, questa – la Cgil.
E veniamo, allora, ai comunisti, che sono la pietra dello scan-
dalo, più o meno esplicitamente additata da chi – soprattutto 
dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica e la caduta del muro 
di Berlino nel 1989 – non vuol più saperne di loro, neanche per 
il passato; e che, proprio per questo, esprime anche fastidio per 
la Repubblica fondata sulla Resistenza.
Bisogna tener fermo questo dato di fatto: senza l’Unione So-
vietica, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non ce l’avrebbero fatta 
a vincere la guerra. È uno Stato totalitario, sottoposto alla ferrea 
dittatura di Stalin, ma le potenze capitalistiche e liberali scelgo-
no egualmente di allearsi con l’Urss, perché Hitler, l’espansioni-
smo e il razzismo della Germania nazista sono peggio. Liquidata 
la Germania e finita la guerra, quella contingente alleanza cessa 
e la contrapposizione – ideologica, politica e, potenzialmente, 
militare fra i due mondi – riprende in una guerra fredda a ri-
schio sempre di tramutarsi in un catastrofico conflitto atomico. 
L’Italia è posta dalla geografia al confine fra mondo capitalista 
e mondo comunista: a trieste – città sanguinosamente contesa 
fra Italia e Iugoslavia come un tempo fra Italia e Austria – fini-
sce l’Occidente e comincia la zona di influenza sovietica. Questo 
significa che la sempre calda questione delle foibe – le voragini 
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naturali del Carso nelle quali fra il ’43 e il ’45 viene fatto spari-
re un numero imprecisato di Italiani – così come l’esodo verso 
l’Italia di centinaia di migliaia di Istriani e di Dalmati vanno 
inquadrati in uno scontro antico e nuovo: che è, contempora-
neamente, contrapposizione di storie, di nazionalismi esclusivi, 
di ideologie antitetiche, e di Stati e sistemi antagonisti.
I dirigenti comunisti – anche a costo di scontentare una parte 
della base – fanno di tutto per accreditare il proprio partito co-
me una forza nazionale e responsabile, consapevoli che la spar-
tizione politico-militare del mondo stabilita a Jalta dai vincitori 
della guerra ha assegnato l’Italia alla sfera d’influenza degli Stati 
Uniti: anche quando, il 14 luglio 1948, sparano a togliatti, prima 
di perdere i sensi il segretario del Partito ha il tempo di racco-
mandare ai suoi di non perdere la testa; la rivoluzione bisogna 
scordarsela, non è cosa.
Nonostante questi gesti di buona volontà, le forze di centro 
e di destra continuano a diffidare dei comunisti e dei loro alleati 
socialisti, a vederli come un nemico interno, dei potenziali tradi-
tori, servi dell’Unione Sovietica (come sono servi degli America-
ni, per le sinistre, i governativi). Pio XII arriva a scomunicarli. 
Le elezioni del 18 aprile 1948 diventano una specie di ultima 
spiaggia, in una guerra senza quasi esclusione di colpi. Vince la 
Democrazia cristiana e da allora il destino del paese è segnato: 
diventa il più fedele alleato degli Stati Uniti – importante non 
in proprio, ma per la sua posizione geopolitica di avamposto 
militare rispetto al Mediterraneo e al blocco sovietico.
Ecco allora un punto da rimarcare: qualunque cosa si dica e 
si ripeta, credendoci o fingendo di crederci, sui «cosacchi» che 
da un momento all’altro potrebbero giungere ad abbeverare i 
loro cavalli in piazza San Pietro, almeno un terzo del popolo ita-
liano ha votato lo stesso a sinistra per decenni, tutte le volte che 
ne ha avuto l’occasione; e non c’è da negare, per giunta, che, nel 
1943-45, ma anche più avanti, ricorrentemente, una parte di al-
meno due generazioni di sinistra continuasse a coltivare dentro 
di sé la speranza di qualche cosa di ben più risolutivo della sche-
da elettorale: la si chiamasse rivoluzione o alternativa di sistema. 
L’Armata Rossa poteva essere percepita come grande strumento 
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di liberazione o viceversa di sopraffazione e di conquista. «A da 
venì Baffone...» è una espressione d’epoca che allude con tutta 
la gamma possibile dei toni – fra minaccia e speranza, seria o 
scherzosa – all’arrivo di Stalin anche in occidente.
Dal naufragio fascista, l’«Itala gente dalle molte vite» esce 
dunque anche così: non solo nascondendo la testa sotto la sab-
bia, autopunendosi per aver solo pensato di «fare la storia» e 
riparando a capofitto nell’Italia guelfa, con una forma di protet-
torato atlantico che esime dal pensar troppo in grande. Questa 
Italia si scopre e riconferma via via maggioritaria, vince e rivince 
alle elezioni, esprime il governo nazionale, comanda, ma non 
ha la possibilità di espellere dal corpo sociale quest’altra Italia 
dissidente: che è diversamente Italia, non però meno di lei. Pur 
con il carico di estraneità e colpevolizzazione che le viene gra-
vato addosso.
DAL CRoLLo AL MIRACoLo
Gli anni Cinquanta li anticipiamo, come avvio, al ’48, dopo il 18 
aprile: è questa la data decisiva. Non certo che il ’45 – i domani 
che cantano! – si possa retrocedere a falsa partenza. Fra il ’43 e il 
’47 tante cose sono avvenute e non si cancellano: la Repubblica 
è un dato di fatto e corona cento anni di attese; la Costituzione 
è in parte un dato di fatto, in parte un argine e una risorsa per 
il prossimo futuro; e la collaborazione – sia pure difficoltosa – 
c’è pur stata, fra classi e partiti di orientamenti diversi, prima 
nella Resistenza e poi nei governi Parri e De Gasperi (i primi 
tre degli otto governi presieduti dallo statista democristiano fra 
1946 e 1953). In futuro questi precedenti lungamente rimossi e 
divenuti indicibili potranno tornare buoni: negli anni Settanta 
con il compromesso storico ideato da Enrico Berlinguer, segre-
tario del Pci, fra Pci e Dc; verso il Duemila con la nascita del 
Partito democratico (Pd) e di altre formazioni e coalizioni in 
cui confluiscono una parte degli ex comunisti e una parte degli 
ex democristiani. Ma ora, e per trent’anni almeno, le elezioni 
di questo nuovo ’48 – di colore e spiriti tanto diversi rispetto a 
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quelli del ’48 di cento anni prima – cambiano tutto. La Demo-
crazia cristiana –che la gente semplice chiama senz’altro «la de-
mocrazia» – schiaccia il Fronte popolare dall’alto di un 48,5% 
che umilia socialisti e comunisti, che avevano osato sperare di 
prevalere e si ritrovano con il 31%. Partito di raccolta, la Dc lo 
è doppiamente: è il partito di raccolta dei cattolici, ma anche 
dei moderati e dei conservatori che non vanno in chiesa, di tutti 
quegli ex – ex monarchici, ex fascisti – di cui pullula l’Italia del 
dopoguerra: un’Italia dello «s-fascio» – dopo l’Italia del fascio 
– che ha bisogno di ritrovare dei punti di riferimento. I quali, 
ridotti all’osso, si possono considerare due: la Chiesa all’interno; 
l’America all’esterno. Non si dice Stati Uniti; come ai tempi dei 
nostri emigranti in cerca di fortuna si dice «America», fa parte di 
un mito condiviso di grandezza e superiorità, come se il Canada 
o il Messico, l’Argentina o il Brasile fossero chissà dove, entità 
trascurabili. I due pilastri materiali e ideali del blocco di pote-
re destinato a reggere l’Italia nei successivi decenni sono, al di 
là di ogni differenza, cementati dall’anticomunismo. Il nemico 
esterno rende obbligata una irrevocabile scelta di campo in cui 
non sono ammesse le sfumature, tanto più che esso si presenta 
anche nelle vesti di un inquietante e potente nemico – anzi, vero 
e proprio straniero-interno: il Pci e il Psi, che gli rimane a lungo 
alleato. Gli amici e i nemici degli schieramenti internazionali 
del tempo di guerra appartengono a tempi remoti. Nato, Pat-
to Atlantico. Non c’è modo di indugiare sulle differenze: negli 
Stati Uniti prevalgono i protestanti e una tacita convenzione 
emargina i cattolici, non ci sarà un presidente cattolico sino a 
Kennedy (1960-1963); un italo-americano, poi, neppur oggi è 
potuto riuscirci – otto o dieci generazioni dopo i primi arrivi 
degli emigranti. Ma tutto questo si sa e non si sa, e comunque 
non conta. La Chiesa è la diga anticomunista in Italia e gli Usa 
sono la diga anticomunista nel mondo: non si può guardare per 
il sottile, l’alleanza – il fronte dell’ordine contro il fronte del 
disordine – è un dogma e i dogmi non si discutono.
tutto si complica e si trasforma con l’arrivo della televisione, 
destinata a mutare i contenuti e le forme della cultura di massa 
– dopo il suo arrivo in Italia e successo travolgente, dal 1953 
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– pur se sottoposta a un rigidissimo controllo di notabili e uo-
mini di fiducia del partito cattolico. In quel primo quinquennio 
si potrebbe dire che Chiesa e America si dividano il compito 
più o meno così: alla Chiesa la tutela delle anime, all’America 
la protezione dei corpi. Detto altrimenti: emozioni, riti, mora-
le comune, concezioni del mondo, ci pensano in Vaticano e in 
parrocchia; economia, politica estera, difesa militare, ci pensa il 
grande Alleato. Quando il Santo Uffizio, il 13 luglio 1949, fa af-
figgere su tutte le porte delle chiese che chi è comunista o alleato 
dei comunisti commette peccato mortale; o quando il discorso 
natalizio di Pio XII apre il giubileo del 1950 lanciando la campa-
gna del «grande ritorno» di tutti, atei compresi, a Dio e alla sua 
Chiesa; e se le statue della Madonna miracolosamente sembrano 
piangere o – chiamate per questo Madonna Pellegrina – viaggia-
no per tutte le diocesi e le parrocchie d’Italia, suscitando ovun-
que folle e cortei di popolo in preghiera: questi ed altri consimili 
sono munizioni ideologiche, «beni immateriali», che agiscono 
sulla coscienza, predicano – anche in senso politico – il buon 
costume, estendendo massicciamente l’intervento assiduo dei 
pastori dal campo della morale al campo della politica. Dei beni 
materiali si occupa a cavallo e dopo il 18 Aprile quel gigantesco 
e istituzionale «zio d’America» che rappresentano gli Stati Uniti 
nella fantasia e nelle attese di milioni di contadini poveri: il ricco 
paese oltremare dove hanno parenti emigrati, paisà che hanno 
fatto fortuna, e dove anche molti di loro sognano di andare.
Gli orizzonti mentali e i conforti ideologici che le sinistre 
possono offrire, in contrapposizione, all’immaginario popolare 
faticano a reggere il confronto: una fede politica al posto di una 
fede religiosa; il mito dell’Unione Sovietica, il grande paese do-
ve il proletariato ha preso il potere e governa, la speranza che 
operai e contadini possano vincere anche qui da noi. Quello che 
non c’è e non ci può essere è un Piano Marshall, le navi piene 
di grano, i prestiti, le promesse, tutta quella concreta e visibile 
esibizione di forza, quell’opulenza, quei soldi: fin dai tempi delle 
stecche di cioccolata generosamente allungate dai carri armati 
ai bambini e delle sigarette ai grandi, negli strani mesi del ’43-
’44-’45, elettrizzato e gioioso capovolgimento mentale di una 
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occupazione in una liberazione: e qui non c’è proprio partita, fra 
i due Stati-guida che si contendono la propensione e i sogni dei 
popoli nel dopoguerra. Gli Stati Uniti stravincono. E agli stati 
di necessità e coazione predeterminati dalla spartizione di Jalta 
fra le aree di influenza di due imperi, alle scelte parlamentari e 
di governo a favore dell’occidente, si aggiungono così larghe 
dosi di adesione popolare e di consenso.
Ridurre però la Dc, le sue vittorie elettorali, i suoi governi, a 
un’operazione conservatrice, sarebbe antistorico. Se non altro 
perché qualche cosa di simile a quello che si potrebbe chia-
mare «nazionalizzazione delle masse» si compie in questo se-
condo dopoguerra proprio attraverso la dialettica politica e il 
contrasto giornaliero fra i tre partiti di massa: democristiani, 
socialisti, comunisti si scontrano in parlamento e nelle piazze, 
ma proprio per questo fra i 47 milioni di abitanti della penisola 
i diritti-doveri della cittadinanza si affermano in proporzioni e 
con forme di partecipazione prima inusitate. tanto per comin-
ciare, ora tutti votano; e la partecipazione al voto – espressione 
di una temperatura politica più elevata, e qualche volta febbrile 
– rimarrà altissima sin quasi ai nostri tempi. Basta questo a farci 
entrare in una dimensione nuova.
E poi, c’è dell’altro. C’è che Alcide De Gasperi può consi-
derarsi un cattolico-liberale: raro esemplare di percorsi che la 
storia d’Italia – facendo nascere lo Stato liberale senza e contro 
la Chiesa di Roma – ha reso difficoltosi. È infatti, di origini e 
di formazione, un cattolico e un dirigente del Partito popolare 
nel trentino ancora asburgico. Fa vita ritirata sotto il fascismo: 
come una carta di riserva nella eventualità di un futuro post-
fascista, lui rimasto in Italia, l’ex segretario del Ppi don Sturzo 
fuoriuscito all’estero, pochissimi altri ex dirigenti popolari del 
primo dopoguerra che riescono a non compromettersi troppo 
con il fascismo; e una nuova leva di giovani cresciuti nelle isole 
protette dell’Azione cattolica – la Fuci, con Giulio Andreotti e 
Aldo Moro, sotto le ali di un assistente religioso, che è un futuro 
cardinale e papa, Paolo VI Montini. Sarà lui, De Gasperi, lo 
statista offerto dal mondo cattolico alla democrazia della nuova 
Italia: democrazia «cristiana», come sin dal nome si dichiara. 
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Che può apparire ambiguo, o troppo poco, per chi venga da altri 
percorsi e si dia altri orizzonti; ma è moltissimo, considerato che 
a inizio secolo, cioè solo trent’anni prima, quella strana coppia 
– «democrazia cristiana» –, ipotizzata da avanguardie di giova-
ni laici e giovani sacerdoti bene intenzionati all’incontro con il 
mondo moderno, era apparsa improponibile, e quasi sacrilega 
alla gerarchia terrificata dal «modernismo»; e che in mezzo c’è 
poi stato il bagno di massa clerico-fascista, consacrazione di 
tutti i valori antidemocratici, autoritari e d’ordine. Ebbene, è 
vero che dalla metà del ’47 i governi De Gasperi nascono – per 
spinte interne e internazionali – dalla rottura a sinistra; ma è lo 
stesso vero che De Gasperirappresenta anche così un punto 
di equilibrio coraggioso e difficile all’interno del mondo cat-
tolico – prima ancora che democristiano – che lo esprime, ma 
lo scruta abbastanza sospettoso tenendolo sotto controllo; che 
altri possibili leader potevano essere in maggiore sintonia con 
le chiusure e le propensioni autoritarie di un figlio della romana 
nobiltà nera come Pio XII; e che, rispetto a questi condiziona-
menti in senso clericale e ai duri richiami integralisti, De Ga-
speri avrebbe avuto certamente vita più facile derivando ancora 
più a destra di quanto non faccia. opera invece controcorrente, 
tirandosi dietro un’opinione confessionale sicuramente meno 
liberale, meno democratica e ancora più anticomunista di lui. 
La larga maggioranza di cui il suo partito dispone in parlamento 
– fra le elezioni del ’48 e le successive del ’53 – non renderebbe 
necessaria l’alleanza del centro, con i liberali (Pli) verso il cen-
tro-destra, con i repubblicani (Pri) e i socialdemocratici (Psdi) 
verso il centro-sinistra: partiti minori, con non molti elettori e 
pochi eletti, ma che possono articolare e sfumare il prepotere 
democristiano, renderlo meno monolitico e confessionale, te-
nerlo aperto ad altri contributi e altre storie, comprese quelle 
che hanno preceduto il passaggio alla società e ai partiti di massa 
che caratterizzano l’oggi. Di questo disegno d’assieme fa par-
te anche l’elezione a presidente della Repubblica (1948-1955) 
dell’economista liberale Luigi Einaudi, già ministro del Bilancio 
e governatore della Banca d’Italia. Nell’aprile 1952 da Oltrete-
vere – come si usa dire per alludere con discrezione ai voleri del 
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Vaticano – giungono imperiosi solleciti a De Gasperi perché si 
presti anche lui, come si rassegna a fare il vecchio don Sturzo, a 
coprire politicamente una lista anticomunista aperta alle destre 
monarchica e missina: alle elezioni amministrative, essa dovreb-
be scongiurare la conquista del Comune di Roma da parte delle 
sinistre. Per i clericali è in ballo il carattere «sacro» della città 
dove risiede il papa; per le destre, è una bella occasione per 
rientrare in gioco; per quelli che la pensano come De Gasperi, 
una dolorosa occasione di chiarimento, anche in contrasto con 
l’autorità religiosa, che la politica ha e intende preservare i suoi 
spazi autonomi. L’operazione fallisce.
Si moltiplicano però i sintomi che neppure il centrismo – 
cioè il quadripartito a guida democristiana – rassicura appieno 
l’insieme di interessi, di attese e di paure che urge a destra del-
la Dc e anche dentro la Dc. Segnali d’allarme vari: perdita di 
consensi elettorali; crescita delle formazioni di destra esterne 
alla Dc, che per esempio in una grande città meridionale come 
Napoli raggiungono nel maggio ’52 il 45% al Comune, mentre 
in città e cittadine della Sicilia e del Lazio il Msi dei nostalgici 
di Mussolini è da solo al 20%; persino – è aneddotica d’epoca 
e ci può apparire remota, però dice un clima – uno stillicidio 
di penose polemiche integraliste contro i tentativi di proseliti-
smo e inquinamento del monopolio confessionale da parte di 
qualche sconsiderato pastore protestante. Alla fine si decide 
di tentare la stabilizzazione della base di governo attraverso la 
moltiplicazione artificiosa dei voti: una nuova legge elettorale 
che assegna il 65% dei seggi alla lista che prenda il 50% più 
1. È qualcosa di simile alla legge Acerbo imposta dai fascisti e 
adottata alle elezioni del 1924, contrastando la quale si espone 
alla morte Giacomo Matteotti: questo, per chi conosce la storia 
patria. A far capire di che cosa si tratta anche a chi non lo sa, ci 
pensano le opposizioni, con l’ostruzionismo parlamentare e con 
una efficace invenzione verbale: è una legge truffa! Varata dal 
Consiglio dei ministri nell’ottobre ’52, approvata dalla Camera 
nel gennaio ’53 – nonostante un estremo tentativo di opporvisi 
con la proclamazione dello sciopero generale – le elezioni del 7 
giugno non riescono però, per un pelo, a far scattare il premio 
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di maggioranza: la coalizione Dc, Pli, Pri, Psdi si ferma infatti 
subito sotto il quorum, al 49,85% (22,6% il Pci, 12,7% il Psi); 
e tra coloro che concorrono al fallimento della stretta politica ci 
sono piccoli gruppi e circoli culturali di derivazione azionista. Il 
Partito d’Azione non c’è più, ma gli spiriti laici e progressisti di 
quella quota minoritaria e illuminata di borghesia sono ancora 
un lievito.
L’ottavo governo De Gasperi, a questo punto, mentre i tra-
dizionali alleati si astengono, apre a destra accettando i voti mo-
narchici. Per niente, perché subito dopo il governo cade, l’era 
De Gasperi si è consumata e un anno dopo egli muore. E non 
c’è nessuno alla sua altezza. Anche in prospettiva storica, con 
la coscienza cioè di quelli che sono saliti al governo dopo di lui, 
come democristiani o altro, De Gasperi appare un unicum. Sullo 
sfondo di queste vicende, gli anni Cinquanta sono contempo-
raneamente quelli della ricostruzione e della ripresa economica 
del paese: una ripresa inattesa per rapidità e proporzioni, che fa 
parlare di boom e addirittura di miracolo italiano.
Uno sviluppo dai costi umani tutt’altro che lievi. Sviluppo, 
oggi, non ci appare più, univocamente, una bella cosa, come 
certamente appariva allora, quando l’alternativa era la miseria, 
restando al paese, dove lavoro non ce n’era. La modernizzazio-
ne implica lo spostamento – da sud a nord e da est a ovest – di 
milioni di uomini; neanche l’emigrazione all’estero si è bloccata 
nel dopoguerra; ma accanto ai percorsi verso le destinazioni tra-
dizionali, dalle Americhe alla Germania e al Belgio, i processi 
di industrializzazione richiedono spostamenti interni di mano 
d’opera dalle montagne, soprattutto, e dalle campagne alle città; 
e dal Mezzogiorno, grande serbatoio di mano d’opera a basso 
prezzo, verso torino – la Fiat! – e le altre città-fabbrica del Nord. 
Un rimescolamento di genti e di culture, con venir meno, incro-
ci e reinnesti, fra generazioni, provenienze regionali, dialetti. 
Una ripresa forzata dell’unificazione nazionale, stavolta tradotta 
a livello sociale. C’è un grande film di Visconti che qualche anno 
dopo (1960) racconta il mutamento – speranze e dolori del mu-
tamento –, dalla Lucania a Milano: Rocco e i suoi fratelli.
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Gli anni Cinquanta fra veCChio e nuovo
trasformazioni economiche e sociali di tale portata faticano a 
rientrare in un quadro politico come quello centrista, rivelatosi 
sempre più asfittico anche solo dall’interno delle contingenze 
elettorali e dei numeri. quegli stessi anni, per indizi e smaglia-
ture, lasciano trasparire anche la voglia e l’intenzione di andare 
oltre. Dal ’51 qualche cosa si muove e comincia a mettere in 
dubbio la devozione all’unione Sovietica persino all’interno 
dell’ortodosso e coeso Partito comunista; e chi lo fa è un eroe 
della resistenza, aldo Magnani, il sin qui molto amato segreta-
rio federale di una delle piccole capitali del socialismo e poi del 
comunismo in italia, reggio emilia, nel cuore dell’Emilia Rossa; 
la miccia del cambiamento esplode troppo presto perché abbia 
subito seguito, ma il gruppetto, «scomunicato» dalle gerarchie 
di partito, contribuisce nel ’53 a far fallire la «legge truffa»; e 
Magnani non deriva poi a destra, cerca casa nel Psi e la ritrova 
dieci anni dopo in un Pci almeno in parte cambiato; si ritrove-
ranno alla lunga a destra diversi, invece, tra coloro che nel 1956 
firmano una famosa presa di posizione pubblica – il Manifesto 
dei 101 – contro l’intervento sovietico in ungheria: dove si in-
terpretano i moti ungheresi come espressione di autonomia na-
zionale e come possibile autoriforma delle «democrazie popo-
lari», contestando l’intervento di uno «Stato guida», l’urss, che 
mimetizza sotto l’internazionalismo proletario i suoi interessi di 
grande potenza. lemasse operaie non seguono in questa occa-
sione la critica degli intellettuali, comunque 200.000 iscritti non 
rinnovano la tessera; e l’incrinatura nel rapporto del Pci con gli 
intellettuali non è di poco conto, vista sin qui la presa nel mondo 
dell’arte e della cultura impegnate, dove si esercita dal ’45 quella 
che, con Gramsci, possiamo chiamare la sua egemonia. le élites 
culturali – cineasti, artisti, scrittori, editori – sono una bandiera 
della sinistra. Ciò non toglie che la Dc abbia cura intanto di 
detenere sempre il ministero della Pubblica istruzione e risulti 
dominante negli organigrammi di stampa, radio, televisione e 
scuola. la cultura popolare, in questo senso, è più nelle mani 
della Dc che dell’opposizione.
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torniamo per un momento indietro, al 1953, per un altro 
sintomo di potenzialità innovative nel quadro politico. Dc e 
quadripartito stanno giusto leccandosi le ferite per i risultati 
elettorali del 7 giugno, che non hanno premiato le loro attese di 
garantirsi con il premio di maggioranza il monopolio del potere, 
ed ecco, nel luglio, il vecchio Nenni, segretario del Psi alleato 
al Pci, proporsi come un nuovo possibile ago della bilancia. Fa 
capire alla Camera dei Deputati che, a determinate condizioni, 
i socialisti potrebbero svincolarsi dall’alleanza con i compagni 
comunisti: che è poi quella che li schiaccia nell’esclusione pre-
giudiziale dei comunisti dalle «stanze del potere» (conventio ad 
excludendum). È un presagio di «apertura a sinistra», formula 
destinata a una pluriennale incubazione, prima di sfociare, con 
i democristiani Fanfani e Moro, nei governi di centro-sinistra 
dei primi anni Sessanta. Naturalmente l’apertura a sinistra degli 
uni comporta l’apertura a destra degli altri: e quindi dividere 
l’opposizione, aprire ai socialisti per meglio e definitivamente 
chiudere ai e con i comunisti.
La via è ancora lunga, ci si arriverà per negazioni e contrap-
posizioni, diluendo la carica di novità, sperimentando il cen-
tro-sinistra in qualche amministrazione locale, come avviene a 
Venezia alla fine degli anni Cinquanta. La Chiesa è contraria, so-
prattutto è contrario il nucleo forte dei cardinali di curia, la testa 
pensante del Vaticano. Ma anche la Chiesa non è così compatta 
come sembra, se nel ’58 il conclave – dopo il papato ventenna-
le di un principe della Chiesa geneticamente confacente al suo 
ruolo quale l’aristocratico Eugenio Pacelli – Pio XII – elegge 
papa un figlio di contadini bergamaschi, Angelo Roncalli – Gio-
vanni XXIII (1958-1963). È vero che il papa del Concilio ecu-
menico e dell’enciclica Pacem in terris costituirà una rivelazione 
inattesa: il patriarca di Venezia era già anziano, si poteva pensare 
a un papa di transizione e in pochi se lo sarebbero immaginato, 
invece, così radicale e innovativo. oppure, è vero che il Santo 
Uffizio condanna Esperienze pastorali di un ancora sconosciuto 
prete toscano, ma intanto don Lorenzo Milani – di nuovo dieci 
anni dopo pietra dello scandalo come autore della celebre Lette-
ra a una professoressa (1967) – il suo diario critico lo ha pensato, 
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scritto ed è anche riuscito a stamparlo con la prefazione di un 
vescovo, prima che fosse vietato e lui sbattuto in una parroc-
chietta di montagna. Nel contesto teologico italiano, tanto più 
chiuso e ostile a tutto ciò che odori di nuovo rispetto al vicino 
contesto francese, questi sono segnali, sassi nello stagno.
Il fronte di faticoso avvicinamento a un cattolicesimo meno 
curiale e più libero passa anche attraverso il partito di riferi-
mento. Qualche mese prima, commemorando De Gasperi, uno 
dei due «cavalli di razza» della generazione seguente, Amintore 
Fanfani, non può semplicemente essersi lasciato sfuggire, ma 
ha osato sostenere, che la politica sia autonoma dai voleri della 
Gerarchia. Ma come sarebbe?! – replica arcigno l’«osservatore 
Romano»: la politica deve sottostare alla morale; e la morale di-
scende e dipende dalla Chiesa. Il 2 maggio, un richiamo ancora 
più impe gnativo e formale per la coscienza del cittadino creden-
te: non più solo un giornale, per quanto portavoce autorevole, 
ma la Cei, che è la Commissione episcopale italiana, l’organo 
dei vescovi abituato in Italia a dettare legge, ricorda a chi ha 
orecchi per sentire che in materia elettorale il cattolico non ha 
libertà di scelta, ma deve obbedienza a chi tocca. Ci sono le ele-
zioni politiche (1958) e per quanto negli ambienti meno proni 
della stessa Azione cattolica qualcuno, soprattutto fra i giova-
ni, scalpiti un po’, gli viene subito ricordato che bisogna essere 
umili; e che non si ha ragione da soli, occorre semmai disporsi 
a «sbagliare con la Chiesa». E però, nonostante rispetto ad altri 
democristia ni l’economista aretino si possa considerare quasi 
una «testa calda», e nonostante gli altolà, il dopo-25 maggio 
trova proprio Fanfani depositario di un’alta concentrazione di 
potere, come segretario del Partito, presidente del Consiglio al 
suo secondo mandato e ministro degli Esteri (Dc al 42%, Pci al 
22, Psi al 14; all’estrema destra, il Msi non raggiunge il 5%). La 
linea generale è quella che prenderà il nome di centro-sinistra, 
ma si naviga a vista fra gli scogli. Che il contesto sia tutt’altro 
che conquistato al «nuovo» e che il nuovo non avanzi affatto 
a vele spiegate – anzi, il «vecchio», le visioni più tradizionali 
risultino tuttora prevalenti – lo esplicita un clamoroso episodio 
di costume che, fra ’57 e ’58, fa esplodere in bella vista tanti 
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aspetti, religiosi, istituzionali: il caso del vescovo di Prato. Un 
caso che non è un caso, ma un sintomo degli irrisolti rapporti 
fra Stato e Chiesa.
Questo monsignore fa sottoporre niente meno che ad accuse 
pubbliche di concubinaggio, nelle prediche in chiesa, due co-
niugi che hanno osato sposarsi solo col rito civile; mentre – es-
sendo stati da piccoli battezzati dai genitori – dovevano conside-
rarsi credenti a vita, sottoposti alle leggi ecclesiastiche e sposarsi 
quindi in chiesa. Quelli però non ci stanno: si sentono diffamati, 
ricorrono alla giustizia, il vescovo finisce sotto processo e si trova 
persino un giudice che condanna vescovo e parroco, per il reato 
di diffamazione, appunto. Non dura, non può durare. Si scatena 
un dibattito sui giornali e, in secondo grado, i giudici di Appello 
non trovano il coraggio dei giudici di primo grado e assolvono 
gli imputati. La morale: non è più ovvio, non tutti lo accettano 
più supinamente, e però giuridicamente e socialmente è ancora 
consentito e legale, nel 1957-58, infamare dei malcapitati per il 
motivo che i comportamenti da grande di chi è stato battezzato 
e fatto entrare nella comunità dei fedeli da piccolo rimangono 
sottoposti per sempre al giudizio degli uomini di Chiesa.
L’unità dei cattolici nel partito unico emette dunque qualche 
avvertibile scricchiolio. E però le sorti di tutti – democristiani 
e non democristiani, credenti e non credenti – continuano in 
larga misura a discendere e a dipendere dalla volontà del clero 
e dagli indirizzi generali della politica vaticana. Naturalmente, 
essi si evolvono: Giovanni XXIII – fermo contro l’errore, più 
comprensivo e pietoso con gli erranti –, il Concilio ecumenico 
con i confronti e i contatti che ha comportato fra vescovi pro-
venienti da ogni parte del mondo; tutto questo, scendendo dai 
princìpi alla vita d’ogni giorno, contribuisce a rendere meno 
spigolosi i rapporti fra i diversi mondi culturali che la storia 
costringe a coesistere in Italia: cioè in un paese che vent’anni 
di fascismo hanno reso ancora più complesso e internamente 
stratificato in riferimenti, percorsi e memorie differenti. Le «tre 
Italie» – liberale, cattolica, socialista – si può dire infatti siano 
diventate quattro: almeno sinché non vanno in pensione le gene-
razioni che si sono formate tra le due guerre – la magistratura, ilIsnenghi_CS5.indd 141 10/05/12 15.58
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mondo militare, la burocrazia, la stampa, la scuola, l’università, 
il parlamento mantengono una significativa presenza di nostal-
gici più o meno «in sonno» della monarchia e soprattutto del 
fascismo: un basso continuo, un controcanto, rispetto alla de-
mocrazia repubblicana, alle sue origini e ai suoi organi, primi 
fra tutti i partiti. Buona parte dei codici fascisti rimangono del 
resto in vigore e solo nel ’56 inizia il lavoro di verifica e ripuli-
tura ad opera della Corte Costituzionale: un altissimo organo di 
controllo della legalità, previsto dalla Costituzione, ma – come 
tanti altri aspetti di questa, quali le regioni – messo dopo il ’48 da 
parte e ritardato. Perché, per una vecchia Italia pre-’45 sospet-
tosa e ingessata, la politica rimane una cosa sporca anche dopo 
il ’45. Con tutti quei rossi in libertà! Per tutti gli anni Cinquanta, 
non è salutare in certi ambienti – uffici, scuole, non parliamo di 
caserme e fabbriche – farsi riconoscere da capiufficio e capire-
parto come lettori di «certa» stampa, l’«Unità», ma anche solo 
l’«Avanti!»: rari nantes in gurgite vasto – direbbe il poeta: «pochi 
che nuotano e stanno a galla nel gorgo» – i due quotidia ni del 
Pci e del Psi, in un mare di quotidiani nazionali e locali che si 
presumono indipendenti, ma sono proprietà di imprenditori tes-
sili, agrari, fabbricanti d’auto, cementieri, petrolieri, palazzinari, 
oppure direttamente nelle mani della Dc o delle curie vescovili; 
e che sono poi i fogli tradizionali sulla via del secolo di vita, go-
vernativi da sempre, che ciascuno trova nelle edicole cittadine, 
gli stessi di suo padre, di suo nonno e del suo bisnonno, da fine 
ottocento in avanti: il «Corriere della Sera», che detta la via 
da Milano, la «Stampa» a torino – la busiarda, per gli operai 
Fiat –, il «Messaggero» da Roma in giù, il «Resto del Carlino» 
in Emilia Romagna, il «Secolo XIX» in Liguria, il «Giornale 
di Sicilia», il «Mattino» di Napoli, il «Gazzettino» di Venezia. 
Arredo urbano, quasi uno stato di natura, è come se ci fossero 
«sempre» stati. Naturalmente, con mugugni o meno, anche in 
queste vecchie testate si svolge sotto traccia un lungo combat-
timento pro o contro l’attuale e la possibile formula di governo 
– dal centrismo al centro-sinistra. Ci si può fidare dei socialisti? 
o sono ancora «succubi dei comunisti»? Il tira-e-molla deriva 
anche dal fatto che il «partito unico» dei cattolici – come ogni 
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«partito unico» – ricrea al proprio interno le ragioni per discu-
tere e contrapporsi, nella forma delle correnti. Le correnti ci 
sono fra i cardinali – o così almeno ritiene chi cerca di cogliere 
orientamenti che si ripercuotono sulla vita civile e politica di 
tutti –, e figurarsi se non ci sono nella Dc e in ogni altro partito. 
La «sinistra dc», che si diffonde fra i giovani del partito, ma ha 
importanti punti di forza nell’industria di Stato, può contare 
dal ’56 su un nuovo quotidiano, il «Giorno» di Milano, che ha 
dietro di sé l’Eni, e direttori, redattori e collaboratori impegnati 
a favore di una modernizzazione del paese, favorendo l’incontro 
riformista fra democristiani e socialisti. Anche la grafica, le in-
chieste di giornalisti «d’assalto», quali Giorgio Bocca, il linguag-
gio, sottolineano la programmatica diversità dal «Corriere della 
Sera» e l’antitesi fra due stili di classe dirigente. A quel punto, 
però, il centro-sinistra è solo una delle prospettive in campo e 
una battaglia dall’esito incerto.
ANNI SESSANtA: APRIRE A SINIStRA o A DEStRA?
C’è una vecchia Italia d’ordine – non necessariamente nostalgi-
ca del fascismo – che inclina da anni a rimettere in gioco, sotto 
tutela democristiana, i voti congelati dei missini, su cui grava il 
veto costituzionale a ricostituire il Partito fascista, ma che esisto-
no e più d’una volta sono stati usati di sottobanco: per salvare 
una legge, dare ossigeno a un governo, o in una ammucchiata 
per eleggere un presidente della Repubblica. Sono una possibile 
riserva di Stato – paradossalmente – come i monarchici, ormai 
ridotti a pochi, ma utili qualche volta a far numero. Naturalmen-
te, questi voti in frigo collocati a destra – e che per certe forze, 
come i soldi, non puzzano (non olent) – qualcuno può pensare 
di usarli, pragmaticamente, alla usa-e-getta; per altri presup-
pongono un’idea di Repubblica, un senso dell’Italia e progetti 
politici diversi da quelli che hanno in animo coloro che – per 
la governabilità del sistema-Italia – guardano non verso destra, 
ma verso sinistra: dove ogni elezione politica e amministrativa 
riconferma esserci voti anche più numerosi, rimasti anch’essi ai 
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margini e sottoutilizzati. Una potenzialità inespressa a Roma, a 
livello di governo centrale, ma sono un terzo dell’elettorato e in-
tanto e da sempre le sinistre governano in numerose città: nelle 
tante piccole Russie – Bologna in testa – che già dalla fine degli 
anni Quaranta godono di una straordinaria cassa di risonanza 
fra i lettori e gli spettatori della fortunata saga di don Camillo 
e Peppone: giornalistica, libresca, e ancor più cinematografica.
Cinquant’anni dopo, le figurine di quei popolarissimi film oc-
cupano ancora i teleschermi. Giovannino Guareschi, uomo di 
destra, ma emiliano che conosce bene la sua gente, ha cura di 
far prevalere sempre don Camillo nello stato di contesa perma-
nente che divide nel paesone della Bassa – prototipo di tanti altri 
– il Parroco dal Sindaco; e però, autore e personaggio rendono 
l’onore delle armi – e inducono inaspettatamente a farlo anche 
pubblici di destra – al meccanico comunista, che ha la fissa della 
Russia e della Stella Rossa, sbraita, sproloquia, eccede, ma vuole 
sinceramente il bene del paese, si dà da fare per i compaesani, e 
nell’ora delle difficoltà sa, come lo sa don Camillo, che loro due 
si troveranno l’uno accanto all’altro in una responsabilità co-
mune di micro-classe dirigente cui tutti si affidano. D’altronde, 
sono stati in montagna insieme, e la Resistenza – se tricolore e 
non rossa, e magari la più monarchica e la meno repubblicana 
possibile – non dispiace troppo a Guareschi, che è stato Imi, 
cioè internato militare in Germania e in quella occasione non ha 
ceduto alle profferte di tedeschi ed emissari della Repubblica 
Sociale. Sarà lui, magari, ad essere qualche volta apparso ai più 
anticomunisti fra i lettori di «Candido» – il settimanale di destra 
dove i racconti escono in prima battuta – un po’ concessivo con 
quel «trinariciuto» comunista della Bassa emiliana. Ma proprio 
questo trattenuto settarismo ha assicurato rappresentatività e 
durata a testi inizialmente contingenti. «Candido» non esiste 
più da decenni e le altre sue pagine risulterebbero oggi illeggi-
bili. Ma quel seriale rosso-nero paesano dice ancora qualcosa sul 
complesso dualismo di quell’Italia di allora, pre-centro-sinistra.
A cavallo dei due decenni il cinema dà segnali che il clima ge-
nerale stia cambiando, anche in film più ambiziosi di quelli con 
Fernandel e Gino Cervi. La chiave rimane quella della comme-
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dia all’italiana, con Sordi, tognazzi, Manfredi, cui felicemente 
si prestano anche attori drammatici quali Vittorio Gassman; le 
svolte e i momenti più drammatici della storia pagano pure da-
zio alle convenzioni di genere, comunque, come nel dopoguerra 
con il grande cinema neorealista di Paisà e Ladri di biciclette, il 
cinema italiano ritrova l’energia e la voglia per affrontare alcuni 
dei nodi della storia collettiva; e registi del calibro di Monicelli 
e Rossellini si dividono alla Mostra di Venezia del 1959 il Leon 
d’oro con La Grande Guerra (con Vittorio Gassman e Alberto 
Sordi) e Il Generale Della Rovere (interpretato da Vittorio De 
Sica); seguono nel 1960 Tutti a casa – sull’otto Settembre e la 
Resistenza – di Luigi Comencini con Sordi, nel 1961 IlFederale 
di Luciano Salce con Ugo tognazzi, nel 1962 La Marcia su Roma 
di Dino Risi, ancora con Gassman e tognazzi.
Non un bilancio storico a memoria «riconciliata» e discus-
sioni finite, anzi. tant’è che quando nel ’62 tre giovani docu-
mentaristi di orientamenti socialisti, Lino Micciché, Lino Del 
Fra e Cecilia Mangini, abbandonano il terreno della commedia 
e realizzano All’armi siam fascisti, fanno fatica a farsi dare i do-
cumenti d’epoca dalle istituzioni archivistiche, sorgono polemi-
che e battaglie d’arresto perché hanno osato entrare nel merito 
di chi ha voluto e appoggiato il fascismo; e alla fin fine il loro 
lavoro non entra nelle sale. Hanno detto e mostrato troppo. E 
in troppi hanno ancora interesse a far finta che il fascismo sia 
stato una «parentesi», su cui non valga più la pena di soffermarsi 
e di indagare.
torniamo all’anno iniziale del nuovo decennio, quando non 
l’immaginario cinematografico, ma gli scontri di parlamentari 
e di piazza dimostrano come fascismo e antifascismo non siano 
anticaglie e possano ancora fungere da spartiacque identitario 
nella lotta politica attuale. Accade questo. Il 1960 si apre con 
un nuovo intervento a gamba tesa dell’«osservatore Romano»: 
no all’apertura a sinistra, niente accordi fra Dc e Psi, ovvero fra 
noi e loro. Mentre i democristiani si posizionano e si contano – 
avanzare o star fermi, andare a sinistra o andare a destra? – si 
spacca anche il Pri: piccolo partito, ma collocato in un punto di 
giuntura dello schieramento parlamentare e che ha «ufficiali» 
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importanti, seppur poveri di truppe, corrispondenti alla destra 
del defunto Partito d’Azione. Al congresso di marzo, Ugo La 
Malfa, l’uomo forte, incline al centro-sinistra, non riesce a im-
pedire a Randolfo Pacciardi di ergerglisi contro: ed è un monu-
mento dell’antifascismo, valorosissimo combattente nella guer-
ra di Spagna, dominato ora da un anticomunismo sfrenato, che 
lo porterà a derivare illimitatamente verso destra. Il 23 marzo 
esordisce il nuovo governo: lo guida Fernando tambroni, uomo 
relativamente «nuovo», accreditato sin qui di essere fra quelli 
che guardano a sinistra e di fiducia del presidente della Repub-
blica, il democristiano di lungo corso Giovanni Gronchi (1955-
1962). E invece tambroni sale al potere con un governo di soli 
Dc che sta su perché gli allungano il voto missini e monarchici. 
Altro che fuoriuscita dal centrismo e apertura a sinistra! Non 
teorizzata, ma praticata, ecco invece uscire a sorpresa, dalle vi-
scere del paese reale, una apertura a destra. A maggio, mentre la 
direzione della Dc si agita e discute, facendo sapere che le cose 
sono andate oltre le intenzioni, l’«osservatore Romano» ci met-
te (18 maggio) il carico da novanta, una volta di più intimando 
ai politici cattolici di sottomettersi ai voleri della gerarchia ec-
clesiastica. No al centro-sinistra vuol dire sì al centro-destra. Ed 
ecco allora acuirsi i segni di una situazione gravida di sviluppi 
difformi: comizi di sinistra interrotti dalla polizia – avvisaglia il-
liberale di una linea più dura nella tenuta dell’ordine interno; di 
concerto o no, attacchi neofascisti a sedi avversarie; e il Msi che 
sembra voler passare all’incasso, uscendo dalle ridotte. Il suo 
congresso nazionale viene infatti previsto per luglio a Genova, 
la città medaglia d’oro della Resistenza che nell’aprile del ’45 ha 
saputo insorgere e liberarsi senza attendere gli Angloamericani; 
e – a ulteriore sfida – verrà presieduto non da un qualunque 
reduce di Salò, ma dall’ex prefetto della città durante la Repub-
blica Sociale. 25 giugno: sciopero generale dei portuali genovesi, 
fra i quali sono ancora molti e molto determinati i partigiani 
che hanno saputo salvare il porto e le fabbriche dalle mine te-
desche. 19 luglio: dimissioni del governo tambroni. In quelle 
4 settimane si sviluppano quelli che verranno chiamati i fatti di 
luglio. Dimostrazioni e azioni di piazza in tutta Italia, cariche 
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della polizia, che spara e uccide dimostranti a Reggio Emilia e 
altrove: «Morti di Reggio Emilia / uscite dalla fossa / fuori a can-
tar con noi / Bandiera Rossa...», dice una canzone popolare nata 
nel vivo della protesta. Rossa o tricolore, dunque, la bandiera 
della protesta di piazza? Fa problema, fra gli uomini d’ordine 
che vedono risuscitare vicinanze e contiguità che gli anni Cin-
quanta sembravano avere scongiurato, mettendo il silenziatore 
alla Resistenza e al 25 Aprile. Mentre i resistenti tornano a uscire 
in campo aperto, riattivano l’unità dell’antifascismo e scoprono 
che c’è una nuova generazione di giovani eredi: è estate, fa caldo 
non solo metaforicamente, li chiamano i «ragazzi dalle magliette 
a strisce», tutti quei giovanissimi non coinvolti nella sconfitta 
delle sinistre il 18 aprile, che riempiono le piazze accanto ai pa-
dri e ai fratelli maggiori e mostrano di saper reggere, al bisogno, 
lo scontro. Nelle università non c’è differenza fra gli studenti 
dell’Ugi – l’Unione goliardica italiana, che va dai radicali ai co-
munisti, e che è rimasta praticamente l’unica associazione in cui 
non si sia rotta, con il ’48, l’unità della Resistenza – e gli stu-
denti cattolici dell’Intesa democratica. Naturalmente, la scelta 
antifascista non si consuma solo a livello di massa e in piazza. 
C’è un dibattito che investe la stampa, l’opinione pubblica, gli 
organismi dirigenti dei partiti. Che farà il partito di maggioran-
za, che faranno i suoi tradizionali alleati di centro? Dovranno 
pur scegliere con chi stare, definire pregiudiziali e priorità, e 
insomma se guardare a sinistra o guardare a destra. Significa 
scegliersi un’identità, e persino in fondo un passato, oltre che 
una prospettiva. C’è pur sempre una Costituzione antifascista, 
con cui fare i conti, e da rispettare o da stracciare. Proprio per 
questo, il 12 luglio il socialista Pietro Nenni, alla Camera, chiede 
che quel presidente del Consiglio nato male sia messo in stato 
di accusa davanti alla Corte Costituzionale. Il 18 luglio, 61 in-
tellettuali cattolici compiono un franco gesto di autonomia fir-
mando un appello contro le «tentazioni autoritarie» e l’alleanza 
con il Msi. È così che nasce il primo governo di centro-sinistra: 
accompagnato da questa spinta e legittimazione popolare – po-
tremmo dire anche da una retorica nazional-popolare, extra-
parlamentare – che non avrebbe avuto se si fosse continuato a 
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oscillare fra spinte e controspinte di vertice, come avveniva da 
anni. L’antifascismo conosce così una sua nuova stagione, dimo-
stra che può fungere ancora da stimolo e da collante. A Milano, 
torino, Venezia e in molti altri centri maggiori e minori, circoli 
culturali intitolati a una nuova Resistenza riaccendono i circu-
iti della memoria e fra le generazioni, organizzando affollate e 
calorose lezioni su Fascismo e Antifascismo; storici e partigiani 
raccontano e testimoniano un passato che improvvisamente si 
rivela riunificante e vicino, mentre gli anni Cinquanta avevano 
praticato la divisione più che la condivisione, e l’oblio più che 
la memoria. Il nuovo governo – che è il terzo guidato da Fan-
fani – giura il 27 luglio: è un monocolore dc. Ma allora, tutto 
questo movimento per avere una volta ancora al vertice la Dc, e 
per giunta con un monocolore? D’altra parte, i voti sono quelli 
che sono. Le mobilitazioni di piazza e l’accendersi della tempe-
ratura politica possono modificarne la destinazione d’uso, non 
altrettanto la distribuzione quantitativa. Comunque dalla crisi 
si esce col voto favorevole di socialdemocratici e liberali, e con 
l’astensione di socialisti e... monarchici.
«Convergenze parallele» – le denomina con una delle sue ri-
nomate escogitazioni verbali Aldo Moro, sin dai tempi della As-
semblea costituente una delle teste pensanti della Dc, un cauto e 
fine negoziatore che ne ha viste tante. Il quarto governoFanfani 
(febbraio 1962) imbarca repubblicani e socialdemocratici, fa un 
altro passo verso l’accordo coi socialisti – che per ora si asten-
gono – e riuscirà ad approvare l’importante riforma della scuola 
media unificata e per tutti, sino ai 14 anni. Poi toccherà proprio 
a Moro: il giurista pugliese guida dal dicembre ’63 il suo primo 
e dal luglio ’64 il suo secondo governo, di centro-sinistra co-
siddetto «organico», con i quali, a quasi un quindicennio dalla 
loro espulsione dal governo, i socialisti tornano nella «stanza dei 
bottoni». Questo è il traguardo e sin dal congresso di Milano, 
nel marzo 1961, essi sono disposti a pagare per questo dei prez-
zi: non solo – in nome dell’autonomia socialista, la separazio-
ne dai compagni comunisti e la rottura delle giunte «frontiste» 
nelle amministrazioni locali –, ma l’accettazione della alleanza 
politico-militare nella Nato e l’illanguidirsi della politica di ri-
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forme per fare le quali il centro-sinistra è nato: per lo meno il 
centro-sinistra visto da sinistra, poiché nel tiro alla fune che ogni 
alleanza comporta esso può avere una luce diversa se visto dal 
centro. Più ancora che «le riforme», nella strategia di lungo ter-
mine di Moro costituiscono infatti di per sé un fine, e non solo 
un mezzo, l’unità della Dc e la stabilità e l’allargamento delle 
sue basi di governo. Avere strappato i socialisti ai comunisti e 
fatto loro digerire la Nato, è questa la prima e più importante 
«riforma», e ha avuto successo. Naturalmente, per i socialisti è 
diverso. Devono giustificare alla propria base il cambiamento di 
linea. E non a tutti basta entrare in maggioranza e che qualche 
compagno, abbandonando una lunga opposizione, diventi fi-
nalmente assessore, o ministro. Per fare che cosa? L’ex azionista 
Riccardo Lombardi e i lombardiani non sono meno fieramente 
autonomisti di Nenni, ma il vecchio segretario è più interessato 
al quadro politico e il tecnocrate del partito alle dinamiche ri-
formatrici e al contenuto delle riforme di struttura (programma-
zione economica, nazionalizzazione dell’energia elettrica, una 
riforma urbanistica che colpisca gli interessi costituiti e che si 
perde invece per strada ecc.).
Più di tre anni sono passati dai fatti di luglio del 1960, spinta 
propulsiva originaria della nuova formula di governo, quando il 
5 dicembre del ’63 l’antica, gloriosa testata del Partito socialista, 
l’«Avanti!», ritiene di poter salutare la nascita del governo Moro 
(Dc, Psi, Psdi, Pri) con un titolo squillante: Da oggi ognuno è 
più libero. In realtà, nonostante della «rivolta» morale e politica 
del ’60 i comunisti siano stati fra i protagonisti, essi – perduta 
la sponda socialista – risultano ora più esclusi e più isolati di 
prima. La politica dei piccoli passi e dei contrappesi a destra 
per ogni passo avanti a sinistra porta ai «governicchi» di un 
piccolo notabile meridionale, Giovanni Leone, e ad affidare la 
presidenza della Repubblica, nel maggio del ’62, a un inquieto e 
allarmatissimo uomo della destra democristiana, Antonio Segni, 
andato su – di nuovo – coi soli voti della Dc e delle destre, mis-
sini compresi. tutto questo giova a preservare l’unità della Dc, 
preoccupazione prioritaria dei suoi massimi dirigenti; mentre 
il cambiamento di linea politica spacca la controparte, il Psi. E 
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non c’è solo la disillusione dei riformatori più conseguenti. C’è 
l’uscita dal partito della sinistra, che sbatte la porta nel gennaio 
del ’64 riprendendo la sigla Psiup (Partito socialista italiano di 
unità proletaria). Si va rivelando non impropria l’interpretazio-
ne del centro-sinistra come un’abile «operazione di consumo», 
che rinsangua chi è al governo, ma ancora di più dissangua chi 
era e rimane all’opposizione. Eppure, con tutto questo, c’è an-
cora – in Italia e fra gli alleati – chi sospetta, chi teme, o affetta 
di temere, che questa «apertura a sinistra» sia un cattivo affare 
e possa funzionare da «cavallo di troia». Si vocifera di «governi 
di emergenza», di movimenti sospetti di carabinieri, di strette 
autoritarie, addirittura di possibili colpi di Stato. Nenni dice di 
sentire nell’aria un clima reazionario, un «tintinnio di sciabole»; 
e invita i suoi ad accontentarsi e ingoiare il rospo.
IL ’68 DEGLI StUDENtI, IL ’69 DEGLI oPERAI
Nell’ormai lontano ’53 era morto Stalin, dal ’64 non c’è più 
togliatti, il Migliore. Dopo segreterie intermedie (Luigi Longo), 
il Pci ritroverà un grande leader carismatico negli anni Settan-
ta, con Enrico Berlinguer (1972-1984); movimenti autocritici e 
differenziazioni di linea non mancano anche all’interno di un 
partito dal «centralismo democratico» così fortemente coeso e 
dirigista; Ingrao – leader della sinistra – non è come Amendola, 
Napolitano, Lama, che sono i leader della destra migliorista; lo 
stacco più incisivo è quello del Manifesto, un gruppo di comu-
nisti libertari – ingraiani più risoluti di Ingrao – la cui radiazione 
nel 1969 segnala che i fermenti innovativi non intaccano il corpo 
del partito e non riescono ad intercettare e guidare quanto di 
nuovo si viene formando fuori del Pci e più in generale fuori 
dei partiti storici, nella società italiana. In una parola, «il ’68» 
degli studenti, «il ’69» degli operai. In realtà, il ’68 degli studenti 
parte lungo, comincia ad esserci già nel ’67. Lo si può far prin-
cipiare a Pisa nel febbraio, con l’occupazione dell’Università 
e le Tesi della Sapienza; e si può capire, la Sapienza è la Scuola 
Normale, da Gentile in poi il selezionatissimo vertice della gio-
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vane intelligencija universitaria. Ma, venuto novembre, conti-
nua nella cattolicissima trento – dove qualcuno, con grande 
scandalo dei nativi, ha pensato di immettere il corpo estraneo 
di un corso, addirittura, di Sociologia, con tutte le attenzioni del 
caso al moderno, anzi alla più stringente attualità e alla politica; 
e poi, parallelamente, sul filo dei giorni, all’Università Catto-
lica del Sacro Cuore a Milano – l’ambiziosa e ormai cresciuta 
creazione ideologica di padre Gemelli – e a palazzo Campana, 
sede della facoltà di Lettere di torino, tra i figli degli azionisti 
e i nipoti di Piero Gobetti e dell’«ordine Nuovo». Dopo di 
che, questa nuova forma di occupazione dilaga ovunque e con 
il ’68 si estende dalle università alle scuole medie superiori. Una 
ricerca di visibilità e una propagazione mimetica dei bisogni e 
del moto, si capisce, come avviene nei movimenti che captano 
segnali nell’aria. Come gli operai nell’occupazione delle fab-
briche nel 1920, gli studenti occupano le loro fabbriche, che 
sono o dovrebbero essere le fabbriche del sapere: un sapere 
contestato, nei contenuti, nei metodi, nel suo stesso significato 
sociale. Contestazione: parola d’epoca. No alla riforma gover-
nativa della scuola, no al sistema, no all’integrazione nel sistema. 
Da Berkeley – in California – alla Sorbona di Parigi, e anche 
qui in Italia, un’intera generazione di «figli» si mette in rotta 
con la generazione di «padri». Sul grande sfondo internazionale 
della guerra in Vietnam – il piccolo popolo in rivolta che mette 
sotto scacco la grande potenza imperiale –, della rivoluzione 
vittoriosa del «presidente Mao tse-tung», che governa la ster-
minata Cina, della memoria del Che, Ernesto «Che» Guevara, 
vittima-eroe del movimento rivoluzionario mondiale, ucciso in 
Bolivia dalla reazione internazionale nel ’67. Nulla è a priori 
scritto, nulla accade fatalmente, prendiamoci la città, prendiamo 
in pugno la nostra vita. Confusionari, scalmane giovanili, poi 
passa – osservano da destra i più benevoli; ma anche capelloni, 
teppisti, teddy boys. Soggettivisti, anarco-sindacalisti – senten-
ziano da sinistra i più dotti e ortodossi. E – peggio – quando 
la contestazione blocca tutto, impedisce la continuazione delle 
lezioni, sceglie come bersagli illustri professori, magari anche 
baronirossi – «fascisti, squadristi».
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Dunque: noi siamo noi, e siamo diversi. Ci possono essere, e 
ci sono, ragionamenti e progetti e «contro-corsi» – nelle facoltà 
occupate e autogestite – sull’università, sulla scuola, sul rapporto 
studenti/operai, sul Capitale di Marx, sul nesso presente/futuro, 
sul passaggio dall’università per pochi all’università di massa. 
Primario è però questo collettivo sentirsi ed esibire la propria di-
versità, da parte di questi giovani uomini e giovani donne, rispet-
to alla società adulta; capelli lunghi, barbe incolte, eskimo, nuovi 
gusti musicali, elementi di lessico gergale, occupazioni, giorni e 
notti fuori di casa, tutto deve segnalare questo: non siamo come 
voi e non lo vogliamo essere. Si parlerà, fra non molto, di fine 
del ’68 e di riflusso nel privato: in realtà la dimensione esistenzia-
le è primaria sin dal principio e usa la politica per legittimarsi. 
Naturalmente, quando i bisogni esistenziali riguardano decine o 
centinaia di migliaia di persone, questo conta e ha già di per sé 
valenza pubblica, incide cioè su come si concepisce e come si sta 
nella società. tutte quelle ragazze fuori di casa, di notte, senza 
più le inibizioni, gli orari e i controlli familiari – macché delle loro 
nonne – anche delle loro madri o sorelle maggiori. Il femmini-
smo non è mai stato prima un modo di vedersi e di comportarsi 
a tal punto diffuso, divenuto pratica quotidiana. Vasti, inusitati 
spazi sociali si aprono al cambiamento. Si parla di «rivoluzione 
sessuale». Un’avvisaglia in questo senso si era già avuta nel marzo 
’66, con l’inchiesta pre-sessantottina sui comportamenti sessuali 
dei coetanei svolta dal giornale studentesco di un liceo «bene» 
di Milano, il borghesissimo «Parini»: sorpresa generale, scanda-
lo grande, ne straparla tutta la stampa; chi sono, chi li conosce 
questi sconosciuti che sono poi i nostri figli? I giovani redattori 
finiscono sotto processo e ci vuole un giudice autorevole e di 
larghe vedute per mandarli assolti. Che qualcosa si muova, nel 
costume e nella interpretazione dei codici, lo prova anche – altra 
avvisaglia – dall’altra parte dello Stivale, il gesto modernizzatore 
di Franca Viola: la ragazza siciliana che, rompendo con la tradi-
zione, rifiuta il «matrimonio riparatore» e denuncia lo spasiman-
te per rapimento e violenza carnale. I giudici le danno ragione 
e l’uomo si becca 11 anni (dicembre ’66). E nonostante questo, 
però, ancora nel ’67 un’indagine della agenzia statistica Doxa 
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fa sapere che l’89% delle Italiane è fermo a un’immagine di sé 
e della condizione femminile che ritiene superfluo, e anzi non 
desiderabile, che la donna abbia un’opinione politica.
L’azione di rottura svolta dalle avanguardie femminili si ac-
compagna – e si può quasi dire faccia tutt’uno: sono due fronti 
complementari della questione italiana – con l’azione di rottura 
delle avanguardie cattoliche. I «cattolici del dissenso» sono par-
te del movimento. Le ragioni morali di scandalo – per le classi 
diseredate, per la povertà del terzo mondo dei colonizzati ed ex 
colonizzati, per l’insensibilità dei ricchi e il conformismo bor-
ghese – non trovano meno motivi di innesco nei vangeli religiosi 
che nei vangeli politici. «Viva Marx, viva Lenin, viva Mao tse-
tung», ma – anche se non lo va gridando nei cortei – viva anche 
un cristiano tutto d’un pezzo come don Milani, il rinnovatore 
dell’idea di scuola e l’antagonista dei cappellani militari, consi-
derati una scandalosa appendice bellicista del potere costituito. 
Non può essere un caso che tante cose muovano da regioni e 
istituzioni che sono state e sono il baluardo del cattolicesimo 
tradizionale. C’è un ’68 di matrice cattolica, ci saranno – fra tanti 
gruppi di «Nuova Sinistra» che rimandano a Marx – anche il 
gruppo dei «Cristiani per il socialismo» e un bel po’ di preti ope-
rai insofferenti di una Chiesa che appare schierata dalla parte 
dei padroni. Qualche cardinale di curia, con il coro interessato 
dei soliti «atei devoti», non ha atteso il ’68 per inchiodare i «co-
munistelli di sacrestia» alla loro vanesia e irresponsabile natura 
di Giuda della fede e delle convenienze. Già nel ’45, del resto, 
la Chiesa di papa Pacelli era dovuta intervenire duramente per 
soffocare sul nascere il movimento dei cattolici comunisti.
GLI ANNI DELLA P38 E DELLE BoMBE
Venuta con gli anni Settanta la stagione della violenza e delle 
azioni terroriste, non mancheranno i percorsi personali di matri-
ce religiosa, magari cognomi noti, che non ti aspetteresti e fanno 
fare un soprassalto, di figli di ministri democristiani. Analisti 
sociali e storici riferiranno certe scelte «assolute» e certi tratti 
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integralisti proprio a bisogni di testimoniare in proprio e a un 
moralismo congenito, ignaro di adattamenti e mezze misure. 
Naturalmente, questo non vuol dire che ci si ritrovi di fronte 
alle solite «tre Italie» e che, per intero, l’Italia militante in senso 
cattolico e l’Italia militante a sinistra si rimettano a contesta-
re l’Italia delle istituzioni, che è poi ormai, fondamentalmente, 
proprio l’Italia cattolica. tanto più che i contestatori pretendo-
no di muoversi in territori più vasti e si riconoscono in orizzonti 
internazionali. Comunque, le giunture e le scissioni di fondo di 
una storia nostrana, che viene da lontano, traspaiono. E la natu-
ra non effimera, le radici di lunga durata di questi processi tro-
veranno conferma anche nel pullulio attivistico di sigle fasciste 
che rivendicano bombe e stragi degli anni Settanta: come ordi-
ne nero nel maggio ’74 per l’attentato contro la manifestazione 
antifascista di piazza della Loggia a Brescia (8 morti e 101 feriti) 
e – violenza ancora più indiscriminata e «stragista» – nell’agosto 
dello stesso ’74 sul treno Italicus (12 morti e 48 feriti).
Il ’68 era già uscito in proprio dalle aule e dalla critica alla 
«scuola di classe», soprattutto con l’opposizione di massa, in 
tutto il mondo occidentale, alla guerra nel Vietnam, giudicata 
la prova provata dell’imperialismo capitalistico e però anche 
della gloriosa possibilità dei popoli di opporvisi. Quando so-
praggiunge, con il ’69, l’«anno degli operai», diventa normale 
per buon numero di studenti mobilitarsi sotto diverse bandiere 
– tutte rosse, ma con sigle diverse – per andare a fare picchetti, 
volantinaggio, azione di proselitismo politico davanti alle porte 
delle fabbriche, quando, al cambio di turno, una fiumana di 
operai esce e un’altra entra. Di «rapporto organico studenti-
operai» avevano molto parlato anche gli studenti politicizzati 
di qualche anno prima, ora però gli operai non sono più figure 
libresche e petizioni di principio. E il rapporto esiste per dav-
vero, nei centri industriali, non senza screzi fra i giovani dei 
«gruppi» e i funzionari sindacali delle Confederazioni – peggio 
se Cgil – considerati ormai dei burocrati, anzi dei bonzi; e una 
«cinghia di trasmissione» rispetto a un Pci dato per perso alla 
causa del proletariato: non più compagni, non più comunisti, 
ma – con neologismo sprezzante – picisti. Un esito simbolico a 
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vasto impatto di questa divaricazione crescente fra generazioni 
e formazioni politiche che pure si richiamano alla classe operaia 
sarà la «cacciata» di Luciano Lama dall’Università di Roma. Il 
potente segretario del più grande sindacato italiano, la Cgil – 
che nasce dalla scelta di «confederare», e quindi contemperare, 
gli interessi delle diverse categorie –, ha scelto di fare un comizio 
alla Sapienza, per ribadire, dal suo punto di vista di migliorista, 
il legame fra movimento operaio e istituzioni della cultura pub-
blica: siamo ormai nel febbraio ’77, e il ’77 è come un nuovo ’68 
più violento ed estremo. Finisce a fischi e sassate, gli studenti au-
tonomi non lo lasciano parlare. Non è un episodio soloromano. 
Gli autonomi vanno diventando egemoni negli atenei, dove già 
il movimento sessantottino ha fatto piazza pulita dei vecchi or-
ganismi rappresentativi. Ma esiste o no un gruppo organizzato 
– Autonomia con la A maiuscola –, cioè un partito della violenza 
insurrezionale allo stato nascente, come sostengono i giudici? 
In particolare Pietro Calogero, che a Padova nel 1979 ritiene 
di averne individuato la testa pensante in un illustre studioso 
della facoltà di Scienze politiche: il professor Antonio Negri, 
più noto come toni Negri – cattolico militante negli anni Cin-
quanta, poi socialista di sinistra, poi leader di Potere operaio, 
infine riferimento, appunto, degli autonomi. oppure no, non 
esiste un centro che diriga, anzi la fase attuale è proprio quella di 
una violenza diffusa, che nessuno ordina e coordina, ma sgorga 
spontanea dalla società come replica di classe dei proletari e dei 
ceti – quali gli studenti dell’università di massa – in via, come si 
dice, di proletarizzazione?
La divisione per decenni è pura convenzione e anche gli anni 
Settanta – verso il cui finale siamo già corsi in proiezione – si 
possono far cominciare prima. Chi «antipatizza» col ’68 e il ’69 
e scuoteva il capo allora può sostenere poi che – con la loro 
violenza endemica e diffusa, oltre che con gli attentati e le vere 
e propri stragi – gli anni Settanta siano proprio la prosecuzione e 
lo sviluppo, sempre più cupo e sanguinoso, di quegli «eccessi» e 
sregolatezze giovanili. Ma se ne può additare una data d’esordio 
più discriminante, con uno stacco preciso: il 12 dicembre 1969. 
Con le misteriose bombe fatte rovinosamente esplodere – alla 
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cieca, a chi la tocca la tocca – in pieno centro di Milano, nel-
la Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana: 12 cadaveri e una 
moltitudine di feriti, svenuti, inebetiti fra quella gente accanto 
agli sportelli per i loro affari d’ogni giorno. Una nuova dimen-
sione di scala e un salto di qualità, la «perdita dell’innocenza» 
– lamenteranno molte memorie di quella data spartiacque: come 
se da lì entrassero in gioco circostanze diverse e forze miste-
riose, incontrollabili. E non è che l’inizio: piazza della Loggia 
a Brescia, stazione di Bologna, treno Italicus, aereo di Ustica, 
l’elenco non è esaurito e siamo già a centinaia di morti, uomini 
e donne qualsiasi, pescati a caso nel mucchio in una tetra e in-
spiegabile lotteria della morte. Stragi, politica delle stragi, entra 
nell’uso la parola stragismo. Firmate o no, rivendicate o no – 
da sigle politiche conosciute o mai sentite –, un anonimato di 
fondo, il sospetto, il mistero le circondano. Non vengono quasi 
mai risolte in via definitiva; i processi indiziari si trascinano, si 
arenano, riprendono inconcludenti nel corso dei decenni. Ma 
un possibile senso dell’operazione è proprio questo, diffondere 
interrogativi e lasciarli irrisolti: chi sono? Cosa vogliono? Chi 
c’è dietro? E soprattutto, frase ritornante e impotente di ogni 
dopo-strage: a chi giova? In assenza di certezze, ciascuna parte 
politica e anche, per conto suo, ciascun cittadino può darsi d’i-
stinto la risposta che gli viene, dettata dalle sue paure e dai suoi 
pregiudizi. Chi dice gli anarchici – che in passato le bombe le 
buttavano davvero – e chi dice la Cia, o i più nostrani «servizi 
deviati» dello Stato, in combutta con questi o con quelli; chi 
pensa subito ai comunisti e chi pensa subito ai fascisti. Grosso 
modo, l’opinione diffusa finisce per assestarsi così: gli attentati 
all’uomo-simbolo sembrano la scelta dei terroristi di sinistra; le 
stragi indiscriminate, quella dei terroristi di destra. È un giu-
dizio politico. Prove, però, o prove definitive e inequivocabili, 
che reggano e si affermino in via giudiziaria, è difficile che ce ne 
possano essere; e comunque le indagini sono eterne e intanto 
ciascuno si orienta come può. Il risultato è l’insicurezza, la diffi-
cile assuefazione a uno stato d’allarme permanente.
Esemplare è quanto succede, appunto, dopo le bombe di 
Milano. Parte subito l’accusa agli anarchici: «è lui!» – sparano 
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a grandi titoli e fotografie i giornali. Poi, alle lunghe, si ricono-
scerà che non è «lui»; peggio ancora, che un altro anarchico 
sotto interrogatorio è volato giù senza motivo dalle finestre della 
questura, restando senza vita al suolo; ma intanto, più o meno 
intenzionalmente, si è fatto un certo tipo di «educazione civica», 
rinsaldando valori e disvalori, criminalizzando l’opposizione at-
traverso i suoi componenti più esposti. È più facile attaccare 
gli anarchici – che sono pochi e invisi a quasi tutti – che non 
i comunisti, i partiti e i sindacati. È anche più credibile: nelle 
dottrine e nella storia degli anarchici gli attentati ci sono stati. 
Ma il segnale delle istituzioni può apparire indiscriminatamen-
te dato: attenti, compagni, che la prossima volta tocca a voi. 
Nell’opinione pubblica eccitata e impaurita da una informazio-
ne pressoché a senso unico, molti non fanno distinzioni: sento-
no anarchici e capiscono comunisti. Comunisti vecchi e nuovi, 
ortodossi e critici, Sinistra storica e gruppi di Nuova Sinistra: 
tutti assieme, nello stesso sacco. Il riflesso d’ordine – al centro 
e fra le destre – è abbastanza indiscriminato e mette a rischio 
decenni di ragionevolezza, di dialogo con i «ceti medi» e con i 
cattolici, nel partito di togliatti e nelle organizzazioni correlate. 
Come autodifesa, per la necessità di separarsi e distinguersi, un 
riflesso d’ordine si diffonde allora anche nel corpo del mag-
gior partito della sinistra. Si crea così una spirale politica che 
contraddistinguerà gli anni Settanta: più il Pci si industria di 
mostrarsi legalitario e affidabile a chi sta alla sua destra, e sem-
pre più appare «venduto» e inaffidabile alla sua sinistra. È il 
dramma delle «due sinistre»: un dramma che, visto da destra, 
si può naturalmente rovesciare in positivo, logorando identità e 
modificando equilibri. Il compromesso storico verso cui a me-
tà degli anni Settanta spingono i rispettivi partiti Berlinguer e 
Moro è una specie di rinnovato e più ampio centro-sinistra che, 
come quindici anni avanti il primo nei riguardi dei socialisti, 
può essere visto e può funzionare in due opposte maniere: far 
entrare anche i comunisti nella «stanza dei bottoni» per realiz-
zare le famose «riforme di struttura» o – non riuscendoci – per 
fargli smarrire la loro ragione d’essere e logorarne il radicamen-
to sociale. «Né con lo Stato né con le BR» proclamano intanto 
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i gruppi radicali, tipo Lotta continua, che non ci stanno con 
questo far corpo con le istituzioni, tutti indistintamente uniti 
contro il terrorismo, partiti e sindacati, padroni e operai; so-
no inclini a scorgere negli autori delle violenze dei «compagni 
che sbagliano»; e immaginano una «terza via», però sempre più 
stretta e sempre più difficile da individuare e da tenere. Perché, 
insomma, sono rosse o non sono rosse le misteriose formazioni 
che si autodenominano Brigate Rosse? All’inizio – mentre le 
destre incalzano e reclamano condanne senza se e senza ma – gli 
apparati e i militanti del Pci si sono sforzati di crederle e farle 
passare per «fasciste» o per «provocatrici». Rimandano invece 
all’album di famiglia – constata in un discusso articolo del ’78 su 
«il manifesto» la cofondatrice del gruppo e del giornale Rossana 
Rossanda. Naturalmente, origini e intenzioni non garantiscono 
da infiltrazioni e strumentalizzazioni da parte di «poteri occul-
ti». Ancor oggi – che c’è tutta una bibliografia specializzata – 
non c’è una visione univoca su come siano veramente andate le 
cose, in particolare, nel punto più alto della guerra allo Stato: al 
di là di chi ha materialmente premuto il grilletto, chi ha voluto 
togliere di mezzo Moro, il tessitore del «compromesso storico»? 
E si ricomincia con le illazioni: a chi giova? Matrici epercorsi 
individuali possono essere vari. A ridosso c’è il pullulio di grup-
pi e schegge della sinistra estrema all’interno dei quali alcuni 
decidono o sono forse lì lì per compiere il grande passo: uscire 
dalla legalità, riesumare le armi e gli spiriti del ’45, riallacciarsi 
alla Resistenza armata, alzare sempre più «il livello dello scon-
tro»: una sinistra pedagogia della violenza, che va dai sequestri 
di giudici e dirigenti di fabbrica a scopi dimostrativi, intimida-
tori o di autofinanziamento, alle «gambizzazioni» di personaggi 
simbolici – come Indro Montanelli, l’influentissimo fondatore e 
direttore del «Giornale», l’anti-«Corriere» –, fino all’uccisione 
di commissari di polizia (Luigi Calabresi, considerato respon-
sabile della «defenestrazione» dell’anarchico Giuseppe Pinelli), 
giornalisti (Walter tobagi, Carlo Casalegno), magistrati (Emilio 
Alessandrini, Guido Galli), giuristi (Vittorio Bachelet), dirigenti 
d’azienda (Giuseppe taliercio): spesso i più efficienti, non di ra-
do anche i più democratici, coloro che proprio per questo sono 
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– agli occhi dei brigatisti – rei di confondere le idee ai proletari, 
rendendo meno odioso il volto dello Stato: quello «Stato delle 
multinazionali» quale viene teorizzato e descritto dagli illeggi-
bili volantini di rivendicazione fatti trovare, dopo ogni azione, 
in una cabina telefonica, o in un cestino della spazzatura o in 
altro luogo indicato da telefonisti anonimi. Sono pesanti e mal 
riusciti esercizi dottrinari. La comunicazione vera è ben altra, 
usa altri linguaggi, parla per gesti, e parla forte e chiaro. Via dalle 
piazze! Via i giurati popolari dalle giurie! Basta con le parole! 
La rivoluzione non si processa!
I misteriosi guerriglieri dimostrano di essere bene informa ti, 
molto organizzati e di poter colpire chi, quando e dove voglio-
no. Il controllo del territorio, conteso a Sud nelle aree meno 
sviluppate dalle organizzazioni mafiose, vede gli organi dello 
Stato messi alla prova, soprattutto nelle aree industriali del 
Nord, dal brulichio segreto che repentinamente esplode con 
azioni micidiali, di questi gruppi di fuoco: preannunci e tappe 
di avvicinamento, nelle intenzioni, all’ora X dell’insurrezione e 
al nuovo partito comunista, il «partito armato». C’è un «anti-
Stato» di natura mafiosa che serpeggia e va sottomettendo al-
meno tre regioni meridionali – la mafia in Sicilia, la ’ndrangheta 
in Calabria, la camorra in Campania – facendo enormi affari: 
dall’industria del pizzo, con l’ingiunzione ai commercianti di 
pagare una forma di protezione – con il ricatto che se non paga 
senza storie gli si brucia il negozio e lo si manda in rovina – alle 
tangenti sui lavori pubblici; ai crescenti profitti derivanti dal 
controllo del mercato della droga e poi con il moderno business 
della spazzatura. Paradossalmente, l’«anti-Stato» proletario che 
i rivoltosi di estrema sinistra pretendono di inverare sulla punta 
delle loro P38 finisce per indurre passività politica e compor-
tamenti omertosi, l’esatto contrario di una «democrazia» attiva 
e partecipata. In fabbrica, nei posti di lavoro, chi «sa» deve far 
finta di non sapere; a chi vede qualcosa, indovina, intuisce che 
quel certo compagno di lavoro potrebbe avere fatto il salto ed 
essere membro di un gruppo armato, conviene far finta di nulla, 
se no passa per «spia» e «delatore», uno che tradisce la propria 
classe. «Colpirne uno per educarne cento» – si trova scritto con 
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la vernice a grandi caratteri nel contraddittorio murale che co-
stella le pareti di scuole, università, fabbriche. E questa peda-
gogia spicciola, non immemore della «rieducazione» attuata in 
Cina da giovanissime Guardie Rosse, può voler dire bruciare la 
macchina di un avversario – docente, caporeparto, poliziotto –, 
compiere gesti intimidatori contro dei simboli, ovverosia non 
solo contro individui specifici, ma contro i rappresentanti di 
una «specie» giudicata ostile a quel «Dio in terra» che viene 
ad essere, nel linguaggio acceso della mobilitazione, la classe 
operaia. Come in guerra, quando si spara sulla divisa, non sul 
singolo, che non si conosce. E, in particolare, come nella guerra 
dei Gap. Il coraggio e la solitudine del gappista – che è il parti-
giano scelto che ha il coraggio di sparare da vicino sul bersaglio 
umano che gli è stato assegnato, alla schiena o guardandolo negli 
occhi – è il modello e il mito di questi esecutori di giustizia, quali 
si sentono, per conto del proletariato, e non comuni assassini 
come li percepiscono gli altri. Naturalmente, molto sta a vedere 
se la guerra c’è o se la figurano loro: vale a dire – sul piano im-
mediatamente politico allora, sul piano storico poi – quanto le 
avanguardie siano esigue o rappresentative, isolate e chiuse in 
se stesse oppure effettivamente legate a molti e capaci di inter-
pretare bisogni e attese diffusi.
Questo supposto «esercito del proletariato» allo stato nascen-
te è naturalmente tutto su base volontaria. Entrare stabilmente 
in clandestinità implica però far proprie rigide regole di com-
portamento e di ingaggio che trasformano i volontari in militi 
«regolari» sottoposti a regole ferree. Accanto ai gruppi ristretti 
di «regolari» che compiono l’azione programmata impugnando 
la mitica P38 o il mitra, e poi si ritirano nell’ombra degli appar-
tamenti brigatisti acquistati o affittati sotto falso nome – senza 
più frequentare nessuno del mondo dei «normali», neppure i 
familiari più stretti – esiste una fascia più vasta di «irregolari» 
che conducono una doppia vita, mantenendo rapporti con il 
mondo e la vita di prima. Sono questi elementi di raccordo, non 
entrati in clandestinità, che frequentano ancora i luoghi di lavo-
ro e devono provvedere a far propaganda e individuare nuovi 
possibili adepti. Il guerrigliero – prescrive Mao sulla base della 
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esperienza della rivoluzione in Cina – deve potersi muovere fra 
il popolo con la naturalezza di un pesce nell’acqua del mare. Ma 
in concreto – non in Cina, ma nella diversissima Italia degli anni 
Settanta e ottanta – come ottenere queste condizioni ambientali 
favorevoli? I pesci-brigatisti, in una grande fabbrica, non si sa 
mai bene quanti possano essere, poche unità o anche nessuno; 
ma prima di incontrare i sicuramente contrari – o per rispetto 
della legge, o per una linea politica contrapposta, o semplice-
mente per paura – c’è probabilmente da mettere in conto una 
fascia possibilista o non pregiudizialmente ostile e una galassia 
di comportamenti più incerti e attendisti: prima di tutto la «zona 
grigia» dei molti e a priori «non so-non vedo-non sento», di chi 
«tiene famiglia». I molti, poi, che non hanno mai fatto e non 
vogliono far politica. Altri che «stiamo a vedere», «non si sa 
mai». Altri ancora, infine, che la rivoluzione l’hanno sognata da 
giovani, coltivano dentro di sé la nostalgia e il rancore per l’«oc-
casione perduta» e magari non riescono a escludere proprio al 
cento per cento che ora, grazie a questi giovani ribelli, sia venuta 
la volta buona. Una casistica differenziata e una contabilità che 
di preciso non si può fare, come si capisce: sono atteggiamenti 
sfumati e mutevoli – indicibili, poi, nella memoria – e in una geo-
grafia politica differenziata nello spazio e nel tempo. Che non 
riguarda solo gli operai in fabbrica. Attendismo e contiguità e, 
beninteso, opportunismo e reticenza, possono esserci – o essere 
sospettati di esserci – in ogni professione: insegnanti, giornalisti, 
avvocati, magistrati non esclusi. In questa situazione sfuggente, 
si abbattono con fragore esemplare due avvenimenti: 16 marzo 
del ’78, il sequestro dell’onorevole Moro – con lo sterminio sul 
posto della scorta –, la detenzione per 55 giorni in «prigioni del 
popolo» segrete e infine il ritrovamento del suo corpo crivel-
lato di colpi nel baule di un’auto, beffardamente abbandonatain pieno centro di Roma a mezza strada fra via delle Botteghe 
oscure – sede del Pci – e piazza del Gesù – sede della Dc. I due 
pilastri del «compromesso storico», frutto convergente dell’a-
zione di Berlinguer e di Moro, che in quegli stessi giorni porta al 
quarto governo Andreotti: ancora una volta un monocolore dc, 
e affidato al più abile esponente della destra interna, uomo di 
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assoluto affidamento per il Vaticano e per gli alleati, ma questa 
volta con una inedita maggioranza di «solidarietà nazionale» e 
di «emergenza» per salvare le istituzioni (Pci, Psi, Psdi, Pri). 
Il secondo avvenimento, di diverse proporzioni, ma a suo mo-
do anch’esso emblematico, è – dieci mesi dopo – l’uccisione di 
Guido Rossa: l’operaio dell’Italsider di Genova, iscritto al Pci e 
alla Cgil, che ha visto, ha capito e, invece che far finta di niente, 
è andato a far denuncia ai carabinieri. Lo aspettano al mattino 
davanti a casa e lo ammazzano a rivoltellate nella macchina con 
cui sta recandosi al lavoro (gennaio ’79). Lo volevano far fuori 
o – come sosterrà uno dei responsabili – lo volevano «solo» 
gambizzare, e la sua morte è stata un errore, l’eccesso di zelo o 
il doppio gioco di un singolo? Fatto sta che, da allora, l’«o di 
qua, o di là» diventa ancora più drastico. Conta meno che nulla 
la soggettività rivoluzionaria, cioè che loro, quelli che sparano, 
si sentano tanto di sinistra e amanti del popolo. oggettivamente, 
restringono gli spazi di libertà per tutti. E tutti sono messi in 
grado di capire che, sul fronte delle fabbriche, sono proprio il 
partito e il sindacato a montare la guardia all’ordine repubblica-
no, disposti a pagare i prezzi che ci sono da pagare, per «battere 
il terrorismo», anche in termini di «leggi eccezionali».
L’impegno delle forze di sinistra a battersi, nonostante tutto, 
per la difesa di «questo» Stato – reinvestendo affetti, impegno 
e azione politica sulla Costituzione e la Repubblica nata dalla 
Resistenza – si manifesta anche, a metà fra queste due date, con 
la salita al Quirinale di quello che si rivelerà un grande e ama-
tissimo presidente della Repubblica: il socialista Sandro Pertini. 
Antifascista della prima ora e coraggioso capo-partigiano – è 
fra i membri del Clnai che nell’aprile ’45 hanno firmato la con-
danna a morte di Mussolini –, il compagno-presidente non dà 
credito alcuno alla pretesa dei brigatisti di essere l’avanguardia 
armata di una grande opposizione di popolo. E lo dice forte e 
chiaro, com’è nel suo costume.
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IL NUoVo PSI DI BEttINo CRAXI
Rispetto a questo tragico ’78, dobbiamo ora retrocedere di poco 
nel tempo, per riprendere il filo di un’altra storia di trasforma-
zioni che si avvia. È il luglio del ’76 quando un giovane leader 
impaziente, Bettino Craxi, porta una nuova generazione al pote-
re nel Partito socialista, ripetendo l’eterno conflitto vecchi/gio-
vani e il rito dell’uccisione del padre, con una specie di colpo di 
Stato interno che mette da parte Nenni e Francesco De Martino. 
Due altri gesti simbolici hanno appena movimentato la scena 
politica, in vista delle elezioni politiche anticipate del 20 giugno: 
il «Corriere della Sera», più progressista di quanto non sia mai 
stato nella sua lunga vicenda di interprete degli orientamenti 
della borghesia, ospita un’intervista a Enrico Berlinguer per far 
dire al segretario del Pci le parole che in tanti, anche al centro, 
hanno voglia di sentire: il Pci non mette più in discussione le 
alleanze e la collocazione internazionale dell’Italia, anzi, si sente 
più protetto sotto l’ombrello della Nato. È il 15 giugno del ’76, 
un passaggio cruciale nei lunghi affrontamenti della guerra fred-
da. Che, finalmente, la sua esclusione pregiudiziale dal governo 
centrale abbia fine e il Pci, rispetto alla Dc, stia per realizzare 
il sorpasso? E, prima ancora, non venga più considerato a pri-
ori inabilitato a farlo? Dal «Giornale» – il quotidiano milanese 
fondato nel ’74 da Indro Montanelli e da altri redattori come 
secessione e protesta contro l’opportunismo e i cedimenti a si-
nistra imputati al «Corriere» – l’influente opinionista insiste a 
pronunciarsi con una immagine che gli è cara: «turarsi il naso» 
e votare Dc. Bisogna farsene una ragione: il partito dei preti può 
farci sbuffare, ma tiene buono il popolo e rappresenta tuttora 
la miglior difesa dei moderati, anche se laici e mangiapreti. È 
l’ennesima tappa del clericalismo degli atei – l’interessata specie 
degli atei devoti –, una dimensione costitutiva nella storia poli-
tica e mentale del nostro paese, un tracciato di lungo periodo. 
Il voto assegna il 39% alla Dc; 5 punti sotto resta anche questa 
volta il Pci e – ben più sotto di questo 33,8% – ristagna al 10,2% 
il Psi: meno di un terzo dei «cugini». Il senso del «craxismo» ne-
gli anni ottanta sta nel tentativo di ricuperare terreno su questi 
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ormai dichiarati rivali a sinistra, conquistando, cioè togliendo 
alla Dc, il ruolo di perno di ogni possibile schieramento e pro-
ponendosi come partito della «modernizzazione» e della «go-
vernabilità»: una parola, questa, che entra da protagonista nel 
linguaggio politico e conta ormai più delle vecchie pregiudiziali 
di sinistra e di destra. Dove è possibile, il Psi rompe con il Pci, le 
giunte di sinistra appartengono tendenzialmente al passato, ma 
l’essenziale è esserci, controllare il potere, con la spregiudicata 
politica detta dei «due forni» che a seconda delle circostanze fa 
tranquillamente andar per pane – e cioè al governo – a Roma 
con la Dc e in periferia con il Pci. Ci sono così dei momenti in 
cui questo nuovo Psi, onnipresente, è in un modo o nell’altro al 
governo nel 90% dei capoluoghi di provincia, premiando il par-
tito assai più in termini di potere esercitato che di effettiva rac-
colta di voti. La spregiudicatezza del nuovo pragmatico leader – 
che nei congressi di partito diventa segretario per acclamazione 
e non nasconde malumori per le lungaggini della democrazia 
parlamentare e propensioni per una riforma dello Stato in senso 
presidenzialista – emargina i vecchi militanti e crea una nuova 
leva di dirigenti, un partito degli amministratori. Proudhon, in 
luogo di Marx, e Garibaldi – dei cui cimeli Craxi si fa sapere 
collezionista, in concorrenza con il repubblicano Giovanni Spa-
dolini – sono all’inizio le bandiere di quello che si accredita ben 
presto come un post-ideologico partito degli affari: con qualche 
accenno in chiave di possibile «socialismo tricolore», che strizza 
l’occhio e prova a ricuperare consensi anche a destra.
Dopo 36 anni di presidenze democristiane, è però Spadolini 
il primo non democristiano che entra a palazzo Chigi, alla testa 
di quello che nella formulistica dei «pastoni» politici di telegior-
nali e giornali – l’articolo da Roma dove si fa il punto sulla gior-
nata politica – si chiama il «pentapartito»: e cioè i quattro vecchi 
partiti centristi degli anni Cinquanta completati con il nuovo e 
arrembante alleato, il Psi. Spadolini è un giornalista-professore-
politico, ex direttore del «Corriere della Sera», studioso di cose 
risorgimentali, atlantista di ferro e in particolare intransigente 
amico degli Stati Uniti e dello Stato di Israele. Fra i primi segna-
li, l’installazione dei missili Cruise a Comiso, in Sicilia, che ri-
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conferma lo stretto incardinamento dell’Italia nelle gerarchie di 
comando e nei vincoli di dipendenza dell’alleanza occidentale. 
Il leader repubblicano governa due volte, da metà 1981 alla fine 
dell’82, in uno scenario politico arroventato. Si prolunga dagli 
anni Settanta uno stato endemico di violenza politica, non si fer-
mano gli attentati omicidi a giudici, giornalisti e politici da parte 
di diverse sigle di estrema sinistra, mentre sigle neofasciste e 
neonaziste rivendicano le stragi di massa, sullo sfondo oscurodi 
segnali e trame attribuibili alle operazioni segrete dello spionag-
gio internazionale; ma il nuovo decennio fa venire in luce anche 
trame reazionarie di natura golpista, come quelle attribuite a una 
loggia massonica segreta, la P2 (Propaganda 2), scoperta in to-
scana, ma ramificata in tutta Italia, che è capeggiata da un ricco 
avventuriero, Licio Gelli, già fascista repubblicano e implicato 
in reti spionistiche, autore di un cosiddetto «piano di rinascita» 
legato a una stretta repressiva e al ripristino forzato dei valori 
d’ordine. Il ritrovamento di una lista con centinaia di nomi di 
iscritti a questa P2 – fra cui spiccano i capi dei servizi segreti, de-
cine di generali, una buona quarantina di parlamentari – mette 
in moto inchieste politiche e giudiziarie, inclini a sminuire o ac-
centuare la portata e il senso dell’affiliazione: «solo» una volgare 
rete di interessi e di collusioni, da Massoneria degenerata, per 
fare affari e incrementare carriere? o molto più di questo, una 
ramificata e potente cospirazione contro lo Stato, che dal ’77 
riesce per esempio a infiltrare e porre sotto il proprio controllo 
un organo di orientamento della classe dirigente quale il «Cor-
riere della Sera»? ovvero, più in generale, il riaffiorare sopra 
la linea di galleggiamento di una «quarta Italia» – l’abbiamo 
chiamata così – nostalgica del regime autoritario e nel nome e 
con la copertura dell’anticomunismo disposta a tutto, pur di af-
fossare definitivamente la Costituzione repubblicana e sterzare 
nettamente a destra, verso una modernizzazione autoritaria? Le 
indagini sono al tempo stesso frenate e avvelenate dal fatto che 
sono in molti a poter additare e colpevolizzare qualche proprio 
avversario, sparando nel mucchio – fra politici, editori, giorna-
listi, uomini di spettacolo, professionisti – e «facendo i nomi». 
Davanti alla commissione d’inchiesta parlamentare presieduta 
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da tina Anselmi – ex partigiana, democristiana, nel 1976 primo 
ministro donna della storia italiana – affiora persino il solito 
nome dell’onnipresente Giulio Andreotti, come riferimento 
politico di alto bordo: quello stesso Andreotti che negli anni a 
venire sarà processato con pesanti imputazioni di rapporto con 
la mafia. In Sicilia, da sempre, la mafia è un potere in proprio 
che rende collusi o sospetti di essere collusi gli uomini di gover-
no, cambiando spregiudicatamente i suoi riferimenti quando gli 
equilibri di potere cambiano. Ma Andreotti non è semplicemen-
te un sindaco, un capocorrente o un candidato in cerca di voti. 
Fra gli iscritti alla P2, il nome che la successiva storia del paese 
si incaricherà di rendere il più strategico e chiacchierato è quello 
di Silvio Berlusconi, allora giovane imprenditore rampante, fra 
imprese edili e il nuovo straordinario business delle televisioni 
private, che si sta facendo largo economicamente all’ombra po-
litica di Craxi.
Questi riesce a coronare il suo progetto di rompere gli equi-
libri ponendo al centro del sistema il Psi quando il presidente 
Pertini gli affida l’incarico di formare il nuovo governo: è l’a-
gosto 1983. A novembre la Camera approva l’installazione dei 
missili a Comiso; partono le obiezioni e le mobilitazioni, una 
catena umana da Catania a Sigonella manifesta contro i Cruise; 
nel messaggio di fine anno, Pertini stesso – non immemore delle 
antiche propensioni pacifiste del socialismo – ha parole di sim-
patia per questi giovani oppositori della politica di equilibrio del 
terrore, tipica della guerra fredda. Eppure il presidente della Re-
pubblica e il presidente del Consiglio, in questo momento, sono 
tutti e due socialisti. Laceranti permangono dunque le divisioni 
del paese, se sulla pace e la guerra, le convenienze e gli obblighi 
in questione di alleanza e di collocazione internazionale possono 
affiorare atteggiamenti così diversi persino all’interno dello stes-
so partito, e di un partito che ricopre ruoli di così alta responsa-
bilità. E però non si tratta solo della alternativa secca fra pace e 
guerra, ma anche – più concretamente – del modo in cui stare in 
una alleanza: quella alleanza occidentale i cui patti segreti e im-
plicazioni e cessioni di sovranità agli organi dirigenti, e in ultima 
analisi agli Stati Uniti, i brigatisti hanno probabilmente cercato 
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di strappare a Moro negli interrogatori a cui lo hanno sottoposto 
nella «prigione del popolo»; e forse per questo i capi democri-
stiani si sono preoccupati di sconfessarlo a priori, dichiarando 
«non ascrivibili» a lui le parole delle lettere che manda un po’ 
a tutti nell’intento di salvarsi. Durante quei 55 giorni il partito 
di Craxi ha cercato invano di aprire la via a qualche forma di 
trattativa con i detentori del prigioniero: inutilmente. Prevale lo 
statalismo, diversamente motivato ma convergente, del partito 
della fermezza – Dc, con il Pri, e Pci, più la grande stampa – che 
non intendono concedere patenti politiche a quelli che devono 
rimanere semplici criminali; e non si tratta coi criminali. Dive-
nuto lui presidente del Consiglio, l’uomo forte del nuovo Psi ha 
di nuovo il problema di differenziarsi sia dall’americanismo, sia 
dall’antiamericanismo. Il socialista non è così fervido e pregiu-
dizialmente amico come il repubblicano Spadolini, per esem-
pio, rispetto agli Stati Uniti e allo Stato di Israele; vuole buoni 
rapporti con i Palestinesi, gli interessano gli Arabi, cerca una 
politica mediterranea dell’Italia, sganciata anche dai dettami 
della Nato. Consonanze ci sono semmai con qualche apertura 
di ministri degli Esteri di governi democristiani – del resto il suo 
ministro degli Esteri è proprio Andreotti; oppure con la «politi-
ca estera» dell’Eni, quando la guidava Mattei, un democristiano 
che aveva fatto la Resistenza, che non ha paura di sfidare le «Set-
te sorelle», ovvero le grandi aziende statunitensi che controllano 
nel mondo il mercato degli idrocarburi. L’aereo di Mattei ca-
de nel 1962 in circostanze rimaste sempre imprecisate. C’è un 
bel film di Rosi, con una grande interpretazione di Gian Maria 
Volontè, che dà corpo e perpetua i dubbi sulla vera natura di 
quell’incidente: certo, faceva cattivo tempo, però... Uno dei tan-
ti misteri irrisolti che pesano, in sottofondo, sulla coscienza del 
paese, e alimentano sospetti e ricatti. Ebbene, forse il momento 
di maggiore consenso di cui si rende protagonista quel possibile 
nuovo baricentro politico del paese ha per scena proprio la base 
di Sigonella; per innesco la questione palestinese; e per sfondo 
i rapporti dell’Italia con gli Stati Uniti. Che cos’è l’Italia, un 
paese alleato, ma con autonomia e dignità di Stato sovrano, o la 
piattaforma di lancio delle armi di un impero sovranazionale? In 
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fondo, è la grande questione sottaciuta, che dalla politica estera 
si ripercuote sulla politica interna e che percorre sotto traccia 
l’intero dopoguerra. tutto avviene, con ritmo serrato, nel giro 
di un solo mese, nell’anno – 1985 – in cui sale al Quirinale, al 
primo scrutinio, il democristiano sardo Francesco Cossiga. Il 7 
ottobre un gruppo di palestinesi si impadronisce di una nave da 
crociera italiana, la Achille Lauro. C’è un morto, ed è un vecchio, 
uno statunitense, un ebreo: triplice motivo di esecrazione, per 
chi, comunque, terrebbe per gli Stati Uniti e la causa di Israele, 
mentre non riconosce o sminuisce la causa palestinese e ne in-
chioda a un ruolo di «terroristi» i partigiani. Con la mediazione 
dell’olp – l’organizzazione per la liberazione della Palestina – i 
passeggeri vengono rilasciati. L’altra metà dell’accordo rischia 
di non realizzarsi poiché l’aereo su cui viaggiano i membri del 
commando palestinese viene intercettato, il 10 ottobre, da ae-
rei militari Usa e costretto a scendere nella base di Sigonella. 
Siamo al centro del dramma – lo psicodramma per i detrattori, 
increduli di frontea quanto inopinatamente osano gli Italiani. I 
carabinieri infatti impediscono che i militari statunitensi si im-
padroniscano dei palestinesi. Abu Abbas, dirigente olp in Ita-
lia, e i suoi uomini possono così ripartire. Il 12 ottobre il governo 
statunitense invia una nota di protesta; il 16 i repubblicani esco-
no dal governo perché non condividono le scelte indipendenti 
del governo Craxi-Andreotti; Craxi ne prende atto e presenta le 
dimissioni, denunciando però le «ingerenze» Usa nelle scelte di 
uno Stato sovrano; poi vola negli Stati Uniti e, il 24, si riconcilia 
con il presidente, che è il repubblicano di destra Ronald Reagan; 
tornato in patria, Craxi nel dibattito alla Camera trova modo di 
far rilevare che il risorgimento dei popoli ha i suoi prezzi e che 
Arafat è oggi il Mazzini dei Palestinesi. Spadolini e non pochi 
altri inorridiscono al paragone, ma Craxi ritira le dimissioni e il 
governo si riguadagna la fiducia.
È uno di quei momenti in cui la storia è a un bivio e altre 
strade appaiono non escluse, rispetto a quella poi effettivamen-
te presa. Il socialista tricolore di Sigonella ha titoli, infatti, per 
piacere sia a sinistra che a destra. Invece che rompere a sinistra, 
sarebbe potuto forse diventare, con un anticipo di decenni, il 
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capo di un grande partito socialdemocratico e uno statista? Non 
è che un momento, poi le cose andranno per tutt’altro verso. 
Mentre si moltiplicano da parte del Pci i segni di una scelta in 
senso socialdemocratico e riformista (XVII congresso, Firenze, 
aprile ’86), decidono di lasciare il Psi di Craxi – appena rieletto 
segretario con oltre il 93% dei voti – alcuni dei suoi dirigenti 
più stimati. Fra questi, torna a candidarsi con il Pci anche An-
tonio Giolitti – nipote dello statista liberale – sancendo così la 
nuova identità del partito dalle cui dipendenze staliniste si era 
allontanato nella durissima «crisi d’Ungheria» del ’56. Ma è or-
mai tardi per un reincontro; concorrenzialità e frattura fra i due 
partiti del fu-«movimento operaio» sono andate troppo oltre. I 
socialisti della stagione dominata da Craxi, poi, impegnati come 
sono a mostrarsi moderni e compatibili con il sistema, vedono 
come il fumo negli occhi la pretesa di essere diversi – più onesti, 
più corretti, più rigorosi di tutti gli altri – teorizzata a suo tempo 
da Berlinguer e rimasta parte della identità del Pci anche con i 
successori.
FINE DEI PARtItI StoRICI
Le inchieste giudiziarie, i processi nei tribunali e le campagne 
mediatiche degli anni Novanta – tutto ciò che prende nome di 
«tangentopoli» e «Mani pulite» – confermano il rancore reci-
proco per questa diversità. Socialisti e democristiani – per non 
dire i socialdemocratici, rimasti in Italia non molto più di un 
aggregato clientelare, al di là dell’ideologia apparentemente 
vincente e dell’illustre fondatore, Giuseppe Saragat – vengo-
no presi ripetutamente con le mani nel sacco. tutto comincia a 
Milano – nella culla e nella capitale della «modernità» socialista 
– quando nel febbraio del ’92 viene arrestato in flagrante, men-
tre riceve una tangente, il presidente del Pio Albergo trivulzio: 
un burocrate come tanti altri, messo su dal suo partito, il Psi, 
per l’usuale lottizzazione dei posti di potere negli enti pubbli-
ci. Niente di che, la modesta cifra di 7 milioni di lire (c’erano 
ancora le lire, non l’euro). Ci si vende dunque per poco! Ma 
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questo «parla» e si crea un effetto cascata: così, a quanto pa-
re, fan «tutti». tangentopoli! Corrotti e corruttori finanziano 
il partito con le tangenti, cioè una percentuale sugli affari che, 
come amministratori, riescono a procurare. È illecito, lo sanno 
tutti, ma è diventata pratica abituale, e anche questo sembrano 
saperlo tutti: come una tassa da pagare ai partiti politici invece 
che allo Stato. Ma – ci si difende – una cosa è rubare per sé, 
una cosa rubare per il partito. Sono i «costi della politica» – si 
sbuffa, avendo l’aria di rammaricarsene, ma appena un poco. Il 
rancore di Craxi e dei suoi si impenna constatando che, men-
tre amministratori e politici socialisti e democristiani cadono 
come birilli, un uguale trattamento i giudici non lo infliggono 
in genere ai comunisti: perché noi siamo diversi e non prendia-
mo tangenti – assicurano questi. Naturalmente, chi governa ha 
più potere ed è quindi più esposto a tentazioni. Ma la famosa 
diversità – ribattono i socialisti, con la schiuma alla bocca – de-
riva solo dal fatto che i comunisti si sono sempre imbattuti in 
giudici compiacenti, che fanno finta di non vedere. Le invettive 
furenti del futuro presidente del Consiglio Berlusconi contro i 
«giudici comunisti» nascono anche di lì: quando lui è uno de-
gli imprenditori – della «Milano da bere», secondo uno slogan 
pubblicitario degli anni d’oro del craxismo – che ruotano attor-
no a un ombrello politico che d’improvviso fa acqua. Le vicende 
giudiziarie scavano fratture profonde fra gli ex compagni di una 
sinistra ormai divaricata. Nonostante tutto, nel giugno del ’92, 
si avvia un governo di nuovo a guida socialista, stavolta con la 
presidenza di un giurista – il dottor sottile –, Giuliano Amato, 
che è stato il vice di Craxi: continuità nella discontinuità. Si 
succedono intanto gli avvisi di garanzia, nei confronti in par-
ticolare dei segretari amministrativi dei partiti, gli addetti alla 
borsa, che, nel tessere la tela fra mondo della politica e mondo 
degli affari, ci mettono la faccia e la firma. Un avviso di ga-
ranzia non è ancora un’accusa, e tanto meno una condanna; lo 
dice la legge e a parole lo sanno e lo ripetono tutti, ma la gente 
non sta poi tanto a sottilizzare: i capri espiatori e le decimazioni 
saranno anche discutibili in qualche caso particolare, ma quan-
do ci vuole ci vuole. C’è una ondata di sdegno e di rancore e 
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un’opinione pubblica sempre più frastornata ed emotivamente 
coinvolta in quello che appare un «repulisti» ad opera di giu-
dici determinati ed onesti, finalmente decisi a colpire il marcio 
dovunque si annidi. E non sono – quasi nessuno dei membri del 
pool di Milano, come si prende a chiamarlo – giudici comunisti, 
toghe rosse, e per forza iscritti alla corrente di sinistra dell’Asso-
ciazione magistrati, «Magistratura democratica» (Md). Questo 
amano crederlo e gridarlo, negli anni successivi, gli inquisiti per 
corruzione o a rischio di esserlo negli anni Novanta; e quei mol-
tissimi che si sono intanto dimenticati di essersi spellati le mani 
ad applaudire Antonio Di Pietro e Francesco Saverio Borrelli, il 
procuratore di Milano fattosi garante delle inchieste e la punta 
di diamante delle indagini. In realtà – come non è avvenuto in 
tutte le Procure – si sono create proprio qui, nella capitale non 
più «morale» ma certamente commerciale del paese, gli anticor-
pi e le condizioni, istituzionali e personali, per un’opera sistema-
tica di contrasto all’illegalità diffusa e per una rimonta ispirata 
al principio di legalità fatto valere. Giustizialismo – si oppone 
dagli uni – in un clima insanguinato da alcuni suicidi di inquisiti 
in carcere. No, semplicemente il principio di legalità – si replica 
da chi si riconosce nell’operato dei giudici. La legalità, la legge 
veramente uguale per tutti – come sta scritto nei tribunali, ma è 
diventato per molti una barzelletta. E – storicizzando il rapporto 
fra magistratura e politica – bisogna pur capire la stupefazione 
dei potenti, di poter andare sotto processo e addirittura finire in 
carcere anche loro, come qualunque povero diavolo. Di norma, 
non era andata e non va così: cane non mangia cane. I giudici 
non vanno mitizzati e non si tratta di una lotta fra buoni e catti-
vi. Dalle liste della Loggia P2 il Venerabile Gelli – che in tutti i 
settori ha fatto incetta di pezzi da novanta – risulterebbe poter 
contare per i suoi piani su una componente della magistraturaintorno addirittura al 40%. Ma anche la Costituzione – si può 
osservare – aveva visto crescere in parallelo una legalità di prin-
cipio e una diversa legalità di fatto. È quello stesso principio e 
controllo di legalità da ristabilire, costi quello che costi, che fa 
sì che, a Palermo e nelle zone ad alta intensità e omertà mafio-
sa, siano anche giudici di cui non sono ignote le idee politiche 
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personali di centro e di destra, come Giovanni Falcone e Paolo 
Borsellino, a diventare il simbolo di una finalmente intrapresa 
lotta per la riconquista del territorio allo Stato; e alla fine i mar-
tiri, visto che tutt’e due muoiono in clamorosi attentati di mafia 
(maggio e luglio del ’92). Ma siccome sono il Pci e i suoi deri-
vati (dal febbraio ’91, il Pds, Partito democratico della sinistra) 
ad animare e portare la gente alle dimostrazioni di massa della 
«società civile» nel nome della Costituzione e per il ripristino 
della legalità, ecco che i legalitari di varia provenienza e colore 
possono finire per ritrovarsi dalla stessa parte: la parte delle per-
sone perbene, che si sente come una coalizione di volonterosi, 
estranea o trasversale rispetto ai partiti, e cui potrebbe attri-
buirsi l’etichetta pensata anni avanti da Berlinguer per un Pci 
«di lotta e di governo». Il quale Pci, intanto, non c’è più, poiché 
l’ultimo segretario, Achille occhetto, ha ritenuto conclusa la sua 
storia con la fine dell’Unione Sovietica: paradossale ammissione 
di colpa – postuma – di un partito che, nonostante le sue origini 
internazionaliste e i suoi legami con l’Urss, ha di fatto esercitato 
nella Resistenza e nel dopoguerra un ruolo nazionale da prota-
gonista nel radicare e difendere la democrazia in Italia.
Gli avvisi di garanzia raggiungono nel dicembre del ’92 lo 
stesso capo del Psi, che pochi mesi dopo lascia la segreteria. 
I giudici non sembrano guardare in faccia nessuno e la classe 
dirigente dei partiti che hanno governato per oltre quarant’anni 
l’Italia è falcidiata. Così, accanto alla supplenza esercitata dai 
giudici per risolvere i problemi creati e lasciati irrisolti dai po-
litici, si fa ricorso a un’ulteriore supplenza chiamando in causa 
un’altra autorevole istituzione della Repubblica, la Banca d’Ita-
lia. E Carlo Azeglio Ciampi – con il suo nome risorgimentale, 
apparentemente vetusto e quasi fuori luogo in quel clima av-
velenato – diventa capo di un governo «tecnico» (aprile ’93), 
con esponenti di Dc, Psi, Psdi, Pli, Pri e, per pochi giorni, del 
Pds (evoluzione autocritica del Pci) e dei Verdi; del resto, l’im-
magine del banchiere livornese è quella dell’uomo preparato e 
«perbene», che incrocia quindi quel bisogno diffuso di onestà 
ristabilita; e che si possa dire di lui che ha fatto la Resistenza nel-
le file del ricostituito esercito italiano, e venga dalla componente 
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moderata del Partito d’Azione – quella più vicina ai repubblica-
ni che ai socialisti – non guasta, poiché gli regala una posizione 
di nuovo «centro», con un passato dignitoso e un futuro cre-
dibile. Sono queste le condizioni e il senso della sua successiva 
salita al Quirinale, con un alto gradimento nell’esercizio delle 
sue funzioni paragonabile a quello del presidente Pertini prima 
e del presidente Napolitano poi.
GLI UoMINI NUoVI
I più giovani fra i lettori potrebbero anche sentirsene fuori, ma 
gli altri sono stati negli ultimi venticinque anni coinvolti in una 
spaccatura del paese praticamente a metà, fra berlusconiani e 
anti: c’è stato chi amava furiosamente Silvio – la personalizza-
zione della politica e l’americanizzazione del linguaggio com-
portano anche queste semplificazioni – e chi altrettanto furiosa-
mente lo detestava. Naturalmente, se vogliamo capirci qualcosa, 
dobbiamo sospendere le ostilità e ragionare di chi è Berlusconi, 
e dei come e dei perché si fa il tifo per lui o contro di lui. Dal 
1994, quando è sceso in campo, al 2011 è stato a lungo lui il 
presidente del Consiglio, anzi il premier, come prendono a dire 
i fautori del passaggio dalla repubblica parlamentare a una pre-
sidenziale. Perde due volte le elezioni – cedendo il posto a due 
governi della coalizione di centro-sinistra presieduti dall’ex de-
mocristiano Romano Prodi e a due dall’ex comunista Massimo 
D’Alema (fra maggio ’96 e aprile 2000 e fra maggio 2006 e mag-
gio 2008). Ma Berlusconi è un combattente e ha sempre la forza 
di tornar su. Mentre scrivo, di nuovo non è più a palazzo Chigi 
(anzi, a palazzo Grazioli, perché lui governa da casa sua: altro 
vistoso segno di privatizzazione della politica); è nato alla fine 
del 2011 il «governo dei tecnici» presieduto dal professor Mario 
Monti – subito SuperMario nel teatrino dei media –, ma nessuno 
potrebbe giurare che Berlusconi e il berlusconismo siano finiti; 
e lui è il primo a dichiararsi ancora in pista. Soprattutto, il ber-
lusconismo potrebbe essere stato e rimanere un’impronta nel 
costume pubblico, qualche cosa di più dell’espressione di un 
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voto che va e che viene: pragmaticamente – come teorizzano i 
modernizzatori della politica in chiave post-ideologica: non più 
l’alternativa di concezioni generali, ma una semplice alternan-
za di programmi e di personale politico all’interno ormai dello 
stesso sistema e del mercato come supremo regolatore del vivere 
sociale.
Scendere in campo, fare il tifo, squadra, gioco di squadra, Forza 
Italia, gli Azzurri...: sono tutte espressioni prelevate dal linguag-
gio sportivo e ormai trasferite nel linguaggio politico. Non a ca-
so. Apposta. Per dare subito un segnale della propria freschezza 
e diversità rispetto al gergo della «politica politicante», che parla 
astruso proprio per non farsi capire dalla gente. E invece: sono 
come voi, mi piace il calcio, il mio vero giornale è la «Gazzetta 
dello Sport». Berlusconi ha buone antenne, conosce la capacità 
di aggregazione e mobilitazione dello sport e specialmente del 
calcio. Da molti anni sborsa quattrini per fare grande e vincente 
il Milan, una delle due squadre della sua città: la Milano da bere, 
dove come imprenditore edile ha costruito il grande quartiere 
di super-lusso «Milano 2» e come imprenditore dell’etere ha 
posto le basi delle sue fortune televisive attaccando il mono-
polio pubblico, sull’onda del senso di libertà comunicativa che 
davano all’origine le radio e le televisioni private: una radice 
«sessantottina» e libertaria derivata poi in senso aziendalista e 
commerciale. A proposito di identità sportive: date le divisioni 
fra le diverse tifoserie, non è che «essere del Milan» potesse nuo-
cergli? «Un uomo solo al comando, è una maglia bianco-celeste, 
è Fausto Coppi!» – decantava nel dopoguerra il commentatore 
del Giro d’Italia. Ma qui sarebbe come dire: «Un uomo solo al 
comando, è una maglia rossonera, è Silvio!». E chi la maglia la 
preferisce bianconera, o nerazzurra, o granata, o anche aran-
cioneroverde? Evidentemente i guru dei sondaggi – senza dei 
quali l’uomo non fa un passo – lo hanno rassicurato. Si è visto 
infatti che non importa. La Juve è proprietà degli Agnelli, ma 
si può essere bianconeri anche se si viaggia in Volkswagen o in 
Peugeot, e non su Fiat. E anche i soldi della famiglia Moratti, 
che si passa di padre in figlio l’Inter, non puzzano più che tanto 
di petrolio. Avercelo, anzi, un miliardario per padrone! È quello 
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che sognano i tifosi delle squadre che non hanno per presidente 
un miliardario – di quelli che fanno vincere scudetto e Coppa 
Campioni – o se ce l’hanno è un miliardario di serie B, che limita 
le possibilità di acquistare grandi giocatori, condanna a vendere 
agli squadroni i giovani del vivaio, e fa volare basso. Ebbene, il 
passaggio cruciale è proprio questo: scendendo in campo con 
un suo famoso discorso recitato quasi confidenzialmente, in tv 
– come se confessasse a ognuno di noila storia della famiglia e 
sua personale, mentre stava in realtà parlando a milioni di spet-
tatori – uno dei due o tre uomini più ricchi del paese ci ha detto 
(è la famosa frase di apertura): «L’Italia è il paese che amo». Ed 
è come ci stesse dicendo: vi compro io. Compro io l’Italia. Sarà 
la prima delle mie aziende. «Forza Italia». Primo nome – sem-
plice e chiaro – dell’agglomerato di forze che, con straordinaria 
rapidità, riesce a mettere insieme, a presentare alle elezioni e a 
far vincere. Con i «suoi uomini», i «suoi» pubblicitari, i dirigenti 
delle «sue» televisioni, i «suoi» avvocati. «Partito personale», 
«partito di celluloide», «partito di plastica» – lo sbeffeggiano gli 
avversari e i critici, spiazzati da tanta diversità rispetto alle for-
mazioni politiche sin qui normali e a una selezione del personale 
così sprezzantemente altra rispetto alle scuole e ai movimenti 
giovanili di partito. Senza accorgersi che Berlusconi – oltre che 
i propri trionfi imprenditoriali e le sue pratiche padronali – ven-
de anche leggerezza e volubilità. «Allegria!» – era il motto di 
chiusura in tutte le trasmissioni del più grande intrattenitore 
televisivo del dopoguerra, l’italo-americano Mike Bongiorno, 
dominatore dell’etere con Lascia o raddoppia? e gli altri suoi 
quiz a premi, prima con la televisione pubblica, poi con la televi-
sione commerciale: cioè Mediaset, cioè Berlusconi, di cui Mike 
diventa un amico personale e un potente testimonial, accanto 
a tanti altri uomini e donne dello spettacolo, sino a quella cari-
catura della devozione, golosamente ritratta dai comici, che è il 
giornalista Emilio Fede, conduttore fino al 2012 del telegiornale 
più berlusconiano di tutti, il tg4. Con tutto un indotto di fiducia 
e di accreditamento di questa figura così nuova di imprenditore 
prestato alla politica – il sorridente e fortunato uomo del fare –, 
che si travasa dai personaggi televisivi agli spettatori e alle spet-
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tatrici: fondamentali, le spettatrici! Le donne in Italia votano 
solo dal 1946: hanno imparato a farlo seguendo i consigli del 
parroco, in maggioranza, votando per la Chiesa, prima ancora 
che per la Democrazia cristiana. Alla metà degli anni Novanta, 
i voti dei grandi partiti che Mani pulite ha sbaragliato, sono in 
libera uscita; e i valori, le attese, i desideri, i bisogni che non 
vengono più seminati in sacrestia e in sezione, fra il popolo che 
prega e il popolo che lotta, possono derivare dalla nuova scatola 
magica davanti alla quale le casalinghe, e non solo loro, passano 
– passiamo – diverse ore al giorno. È – quella della televisione 
commerciale incentrata sulla pubblicità e sulla stimolazione ai 
consumi – una moderna alfabetizzazione a una democrazia di 
massa legata ai bisogni indotti e al piacere del consumo; ma 
anche da parte della Rai, sempre meno incline a intendere di-
versamente il «servizio pubblico», di cui rimangono poco più 
che il nome e il canone annuale da pagare. Si dice che, dalle rive 
dell’Adriatico e del Mediterraneo, interi popoli, specie le giova-
ni generazioni, abbiano detto no all’austerità e alle ristrettezze 
del proprio paese e si siano fatti emigranti perché abbagliati 
dall’opulenza di vita degli Italiani, comunicata anche a loro da 
Rai 1 e poi da Canale 5, già prima delle tv satellitari. Ebbene, 
all’interno dell’Italia, è come se ci fosse, psicologicamente, una 
migrazione interna, dove anche i ceti popolari e i più poveri si 
trasferiscono a vivere – in sogno – la vita dei ricchi. Dal comuni-
smo al consumismo – possono deprecare, scuotendo tetramente 
il capo, i più tradizionalisti fra coloro che hanno e mantengono 
prospettive politiche di sinistra. Ed è proprio così. I consumi 
sostengono l’economia e fanno girare il mondo. Il mondo ca-
pitalista, beninteso. Ma non ce n’è un altro – nemmeno come 
speranza e come attesa – dopo la caduta simbolica del muro di 
Berlino nell’89 e la sparizione del «contro-mondo» sovietico, 
spappolatosi in schegge di nazionalismo offeso e sempre più 
improbabili aspiranti «nazioni» con gruppi dirigenti di destra. 
Anche il Pci si è dato fallito.
E allora, se contano successo e soldi, avere un miliardario 
per capo – capo del partito, capo del governo, senza più tante 
distinzioni, badando al sodo – non è la cosa più logica di questo 
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mondo? Lui ce l’ha fatta! È ricco, potente, pieno di donne, è 
quel che tutti vorrebbero essere: così pensano in molti e – può 
sorprendere, ma è proprio così – in molte. Compensazioni psi-
cologiche. Quaranta o cinquant’anni dopo la fame e le favole 
attinte dai pubblici popolari nei rotocalchi del dopoguerra, gli 
Italiani e le Italiane stanno molto meglio; non si è però esaurita 
la voglia di favole; si sognano solo sogni diversi, case di lusso, 
macchine veloci, vacanze esotiche, fare la modella e la velina, 
diventare famosi per un giorno andando in televisione. L’uomo 
nuovo Berlusconi è capace di simboleggiare tutto questo e di 
parlare a tutti: ai grandi ricchi perché è uno di loro (no alla tassa 
patrimoniale! tormentone del 2011 e 2012); ma anche a chi si 
arrangia a sopravvivere tirando la carretta, e si consola e spera, 
venendo a sapere dalle cronache che neppure lui è sempre stato 
ricco: faceva il cantante sulle navi intrattenendo i crocieristi, 
vendendo simpatia, con sorrisi, battute e canzoni. Berlusconi 
appare come un fortunato e uno predestinato a vincere, consola 
le nostre miserie, è «come noi» e al tempo stesso infinitamente 
più ricco e potente di noi. Nei suoi centocinquant’anni di vita 
come Stato unitario l’Italia è stata governata da conti, marchesi, 
possidenti terrieri, avvocati, professori, maestri: quando mai da 
un cantante che ha saputo arrampicarsi nella scala sociale sino 
a diventare un grande imprenditore? Sembra di stare «in Ame-
rica», col mitico venditore di giornali diventato presidente. Ma 
poi – altro valore aggiunto – se uno è già così ricco, che bisogno 
avrebbe di rubare ancora? Usciti allora allora dal clima univer-
sale di sospetto nei confronti dei politici che rubano – per il 
partito o per sé, ma per chi si sente scippato non fa differenza 
– questa sembra una via d’uscita pratica. Mettersi nelle mani dei 
ricchi: hanno già, hanno dimostrato di sapere far soldi, ora ru-
beranno un po’ meno degli altri. (È già il soffio dell’antipolitica, 
che soffierà sempre più gagliardo negli anni Duemila.)
Non c’è solo la bravura nell’interpretare lo spettacolo della 
politica; c’è il tempismo nell’entrata in scena. Erano appena ve-
nute giù le ideologie dominanti del Novecento. Sgominati dalla 
corruzione la Dc e il Psi, fa harakiri, fra 1989 e 1991, il Pci, che 
pure si è salvato dai giudici: morte le ideologie, fine delle grandi 
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narrazioni, non ci sono più gli operai, le classi sociali, la destra 
e la sinistra. Il frasario degli anni Novanta è pieno di queste 
disinvolte liquidazioni del Novecento, a suon di frasi fatte con-
tro la iattanza dell’uomo, che ha preteso di cambiare il corso 
naturale delle cose e fare la storia. Ed è qui, in questo clima di 
tramonto delle grandi speranze collettive, che si inserisce con 
assoluta tempestività questo miliardario determinato, vincente 
e sorridente: fate come me! – è come se dicesse. Guardate me. 
Arricchitevi. Fate la bella vita, o per lo meno sognatela. Certo, 
se siete dei rampanti, se volete vincere, non c’è da star lì solo 
a guardare i talk show dal divano di casa, vivendo in maniera 
indiretta e vicaria le vite più interessanti o meno anonime degli 
altri. Bisogna darsi da fare. A individualismo di massa, partito 
liberale di massa: questa l’idea, nei primi anni, quando anche 
alcuni intellettuali scivolano all’ombra del «nuovo Principe» 
scommettendo sulla nuova formazione anche in senso dottri-
nario, aspirano cioè a dare un’anima al partito-azienda. Libe-
ralismo e ancor più liberismo, cioè individualismo

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