Logo Passei Direto

Statuti_e_gride_in_tipografia_2023

Ferramentas de estudo

Material
Study with thousands of resources!

Text Material Preview

LUCA CERIOTTI 
 
STATUTI E GRIDE IN TIPOGRAFIA* 
 
 
Per me che la guardo dall’esterno, la bibliologia è un’arte difficilissima, 
un’arte che cammina sul filo del rasoio, dovendo stare in bilico su un 
piede solo, costretta a distinguere passo passo tra l’osservazione acuta 
della minuzia rivelatrice e l’accumulo indiscriminato di una congerie 
di altre minuzie, utili soltanto a sé stesse, anzi, il più delle volte inutili 
del tutto. È un’arte del discernere, del prevedere i bisogni, gli interessi 
e le curiosità future dei frequentatori di quegli studi che s’incentrano 
sul prodotto tipografico. Davvero importerà a qualcuno se, poniamo, 
questo esemplare consta di due carte in più, intercalate ai fascicoli 
terzo e quarto, di quante ne risultano in quegli altri che già conosce-
vamo? Quando questa notizia potrà annunciarsi, nel suo piccolo, de-
terminante? Dio sta nei dettagli, ma anche il diavolo sta nei dettagli, 
dicono e si contraddicono celebri aforismi e tanta saggezza popolare. 
Mi è capitato più di una volta, anche mentre tenevo in mano un 
libro di scienza del libro, ma per la verità mi è capitato pure tante altre 
volte, tenendo in mano libri di molte altre discipline, a cominciare da 
quella che per contratto dovrei coltivare anch’io, di pensare a I conqui-
statori dell’inutile, il libro di un grande alpinista, Lionel Terray, sa-
voiardo per adozione, che oggi a maggior ragione mi sarebbe potuto 
tornare in mente, dato che nel volume che stiamo presentando grazie 
a Mathieu Caesar si accenna anche alla Savoia, oppure a Eroberung des 
Nutzlosen, cioè La conquista dell’inutile, il diario che Werner Herzog 
tenne mentre girava Fitzcarraldo, il film sull’idea grandiosa e strampa-
lata di costruire un teatro d’opera nel cuore dell’Amazzonia, e su 
quella ancora più folle e visionaria di spingere una nave oltre il valico 
di una montagna tropicale. Sono perciò piacevolmente stupito e solle-
 
* Presentazione del volume Con la penna e con il torchio. Scritture politiche e normative 
di prìncipi e città nell’Italia centro-settentrionale della prima età moderna, a cura di Davide 
Martini e Marco Francalanci, Milano, Archivio di Stato, 2023 (= «Annuario dell’Ar-
chivio di Stato di Milano», 2021), tenuta presso l’Università Cattolica di Milano il 
16 maggio 2023. 
2 LUCA CERIOTTI 
 
vato che un simile pensiero non mi abbia quasi mai lambito mentre 
mi preparavo su questo volume, che a priori mi pareva particolarmente 
esposto al rischio dell’informazione minima e risibile, quella che a 
sproposito enfatizza i grani di miglio della sciocca erudizione, anche 
nella misura in cui, oltre che interessarsi ai vistosi in folio che quasi 
sempre cullano le edizioni di statuti, si è occupato parimenti di varie 
tipologie del cosiddetto materiale minore: gride, bandi, proclami, 
editti, fogli volanti, materiale d’affissione. Del piccolo e del minusco-
lo, dell’occasionale, del transitorio, dell’effimero per antonomasia. 
Schivato il pericolo dell’irrisorietà, la lettura mi ha reso, all’oppo-
sto, alcune idee di fondo che gli esperti, tra loro anche gli autori dei 
saggi qui raccolti, ricordano avere radici talvolta assai lontane, es-
sendo già echeggiate in certi interventi di Armando Petrucci, per 
esempio, oppure in alcune belle pagine di Ugo Rozzo, ma che a me e 
a quelli come me, che esperti lo sono poco o nulla, suonano tuttora 
inconsuete e nuove. Eviterò pertanto, qui e adesso, di soffermarmi 
sull’apporto specifico dei singoli contributi compresi in questa rac-
colta d’atti congressuali, tanto più che, tra la Premessa che vi hanno 
apposto i curatori e, soprattutto, la postfazione aggiuntavi da Antonio 
Castillo Gómez, un’indicazione precisa di tali contenuti mi sembra 
essere già accessibile ampiamente. Accennerò, invece, a un paio di 
quelle suggestioni di carattere generale di cui dicevo, sperando che, 
come hanno colpito me, solletichino ugualmente l’attenzione di chi 
ora mi sta prestando ascolto. 
La prima idea è che, almeno nel campo del diritto, i libri corrono 
dietro alla realtà, non riescono mai ad anticiparla. Talvolta, nell’istante 
stesso in cui le sillogi giuridiche escono dalle stampe, arrivano quasi 
ad affiancarla, ma nell’istante successivo stanno già cominciando, 
nuovamente, ad attardarsi. Sembrerebbe un’iniziativa brillante e defi-
nitiva, quella di raccogliere le leggi e poi di riprodurne a stampa la 
raccolta, dunque di moltiplicarla, così facilitandovi un approccio ra-
pido e diversificato. Ma il quadro normativo, come fissato dall’azione 
tipografica, all’indomani di quest’ultima di solito si scopre già invec-
chiato dalla promulgazione di un nuovo articolo di legge. Per analo-
gia, affiora alla memoria ciò che si usava dire dei quotidiani: che non 
c’è niente di più vecchio del giornale del giorno prima o, come pare 
fosse solito ripetere Indro Montanelli, che il giornale di ieri può an-
cora servire, tutt’al più, per incartare il pesce. 
STATUTI E GRIDE IN TIPOGRAFIA 3 
 
Quando osserviamo le collezioni di testi prescrittivi, la scena è cer-
tamente più sfumata. All’atto pratico, lo scostamento tra l’insieme 
delle leggi racchiuse nel volume a stampa e quelle ora correnti non 
prenderà forse e sùbito le dimensioni di un divario eclatante. Se tale 
fosse avvertito dai giuristi, non credo che tuttora si stamperebbe, e si 
venderebbe, di anno in anno una nuova edizione (aggiornata) del Co-
dice civile, per esempio: sarebbe fatica sprecata, sarebbe insensato ri-
peterla periodicamente. Comunque sia, coloro che praticavano e pra-
ticano il diritto per mestiere, ma se vogliamo anche il suddito di un 
tempo e ora il cittadino, siccome a nessuno è lecito invocare l’igno-
ranza della legge, si suppone che debbano e dovettero tenersi a giorno 
rispetto al complesso normativo, andando oltre la raccolta delle 
norme, che, nel caso di specie, è quella statutaria. 
Anche alla luce di questa constatazione, con una formula tran-
ciante Francesco Salvestrini – dopo avere assodato come per certi versi 
fosse più comodo disporre, o predisporre ex novo un testo mano-
scritto, perché «l’impressione tipografica contrastava con la possibilità 
di chiosare e, quindi, aggiornare gli statuti» (p. 11) – stabilisce che tali 
allestimenti tipografici «poco aggiunsero alla conoscenza, e nulla alla 
vigenza della legge» (p. 8); e che, anzi, quelle tirature furono connotate 
da così «scarsa utilità pratica» che nemmeno restava «giustificata la 
spesa necessaria» a confezionarle (p. 11). Altri studiosi che hanno con-
ferito il loro apporto a questi atti ricorrono talvolta a locuzioni più 
smussate. Marco Francalanci, per esempio, vi allude conservando una 
distinzione tra «testi normativi aperti» e «testi chiusi a stampa» già 
esplicitata in un articolo da lui offerto a «La bibliofilia» nel 2019, col 
quale mi pare possa allinearsi la sua ulteriore riflessione svolta du-
rante il convegno di cui ora, sebbene in essa ci si concentri non più 
sull’intero ventaglio delle edizioni di testi normativi, bensì sullo spe-
cifico e poco dissodato campo delle gride pubblicate a stampa nello 
Stato di Milano, gride sinora poco studiate, sebbene quasi chiunque 
stimi di saperne abbastanza per le quattro cose che ne ha letto nel 
Manzoni. Monica Bocchetta, invece, per fare un altro esempio, ravvisa 
nella decisione di mettere in stampa gli statuti di Rimini e di alcuni 
centri marchigiani di medie dimensioni i caratteri di una situazione 
in cui, «venuta meno la valenza strettamente giuridica, sempre mag-
giore peso aveva assunto il valore politico e simbolico di testimone 
dell’identità cittadina» (p. 215). 
4 LUCA CERIOTTI 
 
Insomma, in un modo o nell’altro tutti i contributor di questi atti 
mi pare che nella sostanza tendano a sottolineare il forte portato sim-
bolico attribuito in passato, e chissàquanto consciamente, alla stampa 
degli statuti. Sotto certa prospettiva, è come se affermassero che gli 
statuti a stampa sono una reificazione della Legge regolatrice della 
convivenza tra i membri della società civile. Sono un’icona, come lo 
era quel famoso manoscritto medievale contenente gli Instituta, che 
non ricordo più dove veniva mostrato al popolo di là da una grata: 
inavvicinabile e illeggibile, però esistente. Sono l’ipostasi della Legge; 
o, quantomeno, sono intuìti come tali, pur consistendo in un sim-
bolo ossimorico: annunciano infatti un ordinamento giuridico che 
non è più tale esattamente, perché già riformulato da altre leggi. 
Comprendo che questa interpretazione, per quanto ricorrente tra 
gli specialisti, di primo acchito possa essere avvertita come parados-
sale. Si opinerà infatti che la trasmissione, a stampa o manoscritta che 
sia, delle parole della Legge dovrebbe servire proprio a trasmettere la 
Legge. Ma è pur vero che svariate edizioni di statuti si rivolgevano a 
contesti comunitari davvero troppo ristretti per legittimare, anche 
sotto il profilo della redditività di un’intrapresa commerciale, l’allesti-
mento di un’edizione a stampa. Mi riferisco a quei territori tuttora o 
già sovrani, ma grandi come una pòlis, come una pillola di Stato, 
tutt’altro che vasti come un impero, alle cui poche migliaia di abitanti 
davvero non si capirebbe come potrebbe essere stata di giovamento la 
disponibilità di decine e decine di copie di un’edizione statutaria, se 
non al fine di dimostrare urbi et orbi l’esistenza di loro propri statuti. In 
altre parole, se l’intenzione prioritaria fosse stata quella soltanto di 
permettere a qualsiasi interessato di accedere al dettato della norma-
tiva vigente, la prosecuzione attenta, cioè chiosante e postillante, della 
tradizione manoscritta sarebbe stata lo strumento forse più efficace. 
Ma, poiché la volontà fu quella di asseverare, dentro e fuori la compa-
gine sociale soggetta agli statuti e alle altre norme di pari livello, l’esi-
stenza di un soggetto della produzione normativa e delle disposizioni 
da questo emanate, la stampa a caratteri mobili rappresentò una va-
lida risposta di fronte all’esigenza di accrescere quanto più possibile i 
momenti di enunciazione di tale capacità legislativa. O, per altri versi, 
di rendere manifesta l’inclusione di qualcosa o di qualcuno nell’ordi-
namento legiferato grazie appunto a quella potestà di dettare norme. 
Furono un segno di autonomia, una sanzione di identità, una confer-
STATUTI E GRIDE IN TIPOGRAFIA 5 
 
ma di potere come anche, sotto l’aspetto individuale, una dichiara-
zione di appartenenza. Come dire, in relazione soprattutto a quest’ul-
timo aspetto: i libri che coprono le spalle all’azzeccagarbugli hanno 
una loro funzione, anche se i suoi interlocutori non sono in grado di 
leggerli o di capirli, e persino lui, ammesso che ne sia davvero capace, 
comunque non ha alcuna voglia di farlo. Sono lì a dire qual è il ruolo 
di un individuo entro uno specifico sistema. Sarebbe ingenuo credere 
che i libri servono soltanto ad essere letti o in subordine, come diceva 
un mio amico architetto, a coibentare gli edifici, o ancora, come vo-
leva e vuole certa gente poco raccomandabile, ad alimentare i falò 
nelle piazze. Servono nondimeno a dire chi siamo e cosa possiamo e 
vogliamo fare, sia individualmente, sia in quanto membri di un 
gruppo sociale. Data anche questa finalità, ne consegue che l’autorità 
legiferante non sarà stata necessariamente isolata nel desiderare la 
messa in stampa degli statuti. 
Dall’osservazione che ho appena esposto discende, tra l’altro, an-
che l’urgenza di indagare, edizione per edizione, quale ne fu la com-
mittenza: ufficiale, privata, mercantile, ibrida rispetto a queste prove-
nienze? Ma tornerò più avanti, per altra via, su questo importante 
aspetto. Intanto, una seconda considerazione che vorrei svolgere ri-
guarda propriamente il materiale minore, giuridico e non, al quale 
sarebbe da aggiungere, per la verità, anche quella massa di oggetti, che 
oggi ricondurremmo forse alla generica categoria della modulistica, i 
quali, pur essendo prodotti di tipografia, si allontanano drastica-
mente da quell’idea classica dell’oggetto-libro che rappresenta il nu-
cleo storico e fondante delle discipline del libro e della stampa. 
Per molti decenni, dopo che in qualche modo si era finalmente 
fatto strada un certo desiderio di preservarli, lo stesso che ci spinge a 
conservare parecchie altre carabattole della storia – più indietro nel 
tempo li si buttava o li si usava appunto per incartare il pesce, com’è 
arcinoto che accadde anche ai documenti dell’archivio della Congre-
gazione del Santo Ufficio, quando, dopo che Napoleone li aveva fatti 
portare a Parigi e in seguito, restituiti alla Santa Sede, mancò il denaro 
per rispedirli indietro, si decise di venderli come carta straccia a un 
gruppetto di pesciaioli – ci siamo abituati a scovare questo materiale 
minore dapprima offerto sulle bancarelle delle fiere di brocantage, più 
tardi valorizzato dai corniciai e dai commercianti di incisioni. Non è 
molto, invece, che se ne postula una conservazione ‘alta’ e ordinata, 
che pure comprende la schedatura bibliografica di ogni singolo pezzo 
6 LUCA CERIOTTI 
 
(e ne sia prova il fatto che può tuttora succedere, come Matteo Fadini 
qui a p. 162 ci racconta essergli accaduto, che a seguito della scheda-
tura analitica di una piccola miscellanea contenente ventisette edi-
zioni cinque e seicentesche, se ne incontrino ben tre tuttora «ignote 
ai maggiori repertori»). Ma ci sono parecchi motivi che in realtà ci 
spingono a riconoscere un valore storico in questi oggetti. Uno che 
vorrei sottolineare, e che emerge, seppure in interlinea, da molti saggi 
di questo volume, si lega al fatto che furono proprio questi materiali 
routinari a consentire, in quei tanti luoghi che non furono mai capi-
tali della stampa, la sopravvivenza di un’officina tipografica. Nelle 
stanze di queste officine, di tanto in tanto si stampava un libro, ecce-
zionalmente si produceva persino una qualche edizione di pregio, ma 
il grosso del lavoro, quello che faceva quadrare i conti e permetteva la 
prosecuzione dell’attività, era dato proprio dalla stampa di editti, pro-
clami, bollettini… cioè dal mettersi in stretta relazione col potere co-
stituito grazie al riconoscimento dello status di stampatori camerali, 
ducali, regi, apostolici, ufficiali, come di volta in volta venivano indi-
cati i privilegiati di questa risma. Il che mi sembra dare corpo a una 
metafora, che nella sostanza intende ricordarci come di solito non 
può sostenersi una cultura alta, se non laddove sia ben consistente un 
sostrato materiale, concretamente economico, a darle corpo. Dun-
que, a dispetto della «enormity of archival loss» che ha riguardato, nel 
suo complesso, questa categoria di oggetti – ho tratto l’icastica defini-
zione dal contributo di Stephen J. Milner e Simona Giordano (p. 40) 
– è proprio questo genere di stampati, che presi ad uno ad uno ci 
paiono di così poco conto, ad avere reso possibile in tante circostanze 
e in molte piazze periferiche il consolidarsi di una presenza tipografica 
non episodica. Potrebbe essere anche questo un lato del prisma di 
quella che, con felice antifrasi, Stefano Cassini chiama «la vitale esi-
stenza delle pubblicazioni effimere» (p. 268). Se questa è la strada, mi 
dico anche, può darsi che si debba rivedere pure il concetto di impor-
tanza bibliografica, che forse leghiamo eccessivamente alle edizioni ‘di 
grosso peso’, quando invece potrebbe essere messo proficuamente in 
relazione anche con il concetto di ripetizione (sia nel senso del numero 
delle copie prodotte, che in quello che coinvolge il numero dei fruitori 
per copia, lettori o uditori che furono). 
Comunque sia, l’immagine che abbiamodel passato mondo delle 
tipografie è un’immagine distorta. Di fronte alle perdite enormi che 
hanno caratterizzato la vicenda dei fogli volanti, molti dei quali, com’è 
STATUTI E GRIDE IN TIPOGRAFIA 7 
 
noto, non esistono più, in nessuna copia, le opere di grandi dimen-
sioni hanno resistito assai bene al tempo, talvolta persino più dei mo-
numenti in muratura. Per limitarmi a un paio di dati che provengono 
da altrettanti contributi al volume che ora stiamo presentando, di ol-
tre il trenta per cento delle copie dell’edizione cinquecentesca degli 
statuti della Valtellina è nota la collocazione in sedi pubbliche e certa-
mente altri esemplari, non censiti, dobbiamo ritenere giacciano in più 
d’una raccolta o collezione di privati (p. 250). Quasi il venticinque per 
cento è, d’altro canto, la parte tuttora rimasta, in biblioteche pubbli-
camente catalogate, dell’edizione degli statuti postincunaboli di Fano 
(p. 218). Di un infinito numero di bandi, invece, ci è nota la passata 
esistenza solo indirettamente, attraverso la citazione che ne fanno ta-
luni altri richiami legislativi, oppure le cronache e altre consimili fonti 
coeve. Ne viene che, quando si perlustra il fondo antico di qualche 
bella biblioteca di tradizione, ci si sente come calati in una conforte-
vole atmosfera nobilitata per lo più da edizioni ricche e preziose. Ma 
è solo un’eco distorta dell’aria vivace e frizzante che si respirava allora 
negli spazi legati all’esercizio dell’attività tipografica, spazi popolati so-
prattutto da una miriade di stampe d’occasione. È come, direi, 
quando si percorrono le vie di una città d’arte e sembra che i secoli 
andati, a giudicare dai loro residui più evidenti, siano stati tutto un 
affastellarsi di palazzi sontuosi e di magnifici edifici, quando invece la 
stragrande maggioranza delle abitazioni erano casupole e catapecchie, 
che per la loro stessa natura fragile e trascurata poco o nulla hanno 
potuto resistere alle ingiurie del tempo. 
Un’ultima riflessione riguarda la dimensione delle tirature. Mo-
nica Bocchetta ricorda ottanta copie degli statuti di Fano tirate nel 
1508 da Gershom Soncino (p. 218), ma il numero aureo si direbbe 
essere il cento: cento sono gli esemplari rilevati da Salvestrini a propo-
sito degli statuti di Arezzo, per i quali si era impegnato Simone Nardi 
nel 1536 (p. 12); cento sono pure quelli dei già sopra citati statuti della 
Valtellina prodotti nel 1549 da Dolfino Landolfi, qui riconsiderati da 
Luca Montagner (p. 249); cento quelli cartacei degli statuti di Perugia, 
con l’aggiunta di altri quattro in pergamena, promessi da Girolamo 
Cartolari nel 1522 ai rappresentanti del governo cittadino, dei quali 
ci parla Maria Alessandra Panzanelli Fratoni (p. 276). Sono tutti casi 
cinquecenteschi, ma anche per il secolo precedente il range è all’in-
circa lo stesso: non più di cento, anzi meno, come ci spiega Alessandro 
Tedesco (p. 149), sono le copie che si fecero dell’edizione incunabola 
8 LUCA CERIOTTI 
 
degli statuti bresciani allestita da Tommaso Ferrando tra il 1472 e il 
1473; attorno al centinaio è la quantità ipotizzabile anche per gli Sta-
tuta Lucae del 1490, sui quali si sofferma Davide Martini (p. 67). Que-
ste cento unità, paragonate all’insieme dei manoscritti che si scrivono 
e trascrivono uno per uno, e che però comunque nel tempo si accu-
mulano uno sull’altro, sono tante, oppure sono ancora poche? Ba-
stano, eccedono oppure sono insufficienti rispetto allo scopo di san-
cire universalmente l’esistenza di un ordinamento giuridico? 
Ancorché trasversalmente, mi sembra che in questo modo si ri-
proponga una domanda centrale nelle relazioni del convegno che que-
sti atti intendono testimoniare, domanda composita, ma che, in una 
o l’altra prospettiva, si riaffaccia nell’esperienza di molti studiosi: a 
cosa servono le edizioni a stampa degli statuti? chi le acquista? chi le 
commissiona? Talvolta la committenza è pubblica, cioè istituzionale, 
ed è questo il caso in cui più chiaramente si intravede l’intento di 
proclamare la presenza efficace di un’autorità alla quale soggiace, o si 
vuol far soggiacere un’intera collettività (l’espletamento cioè di una 
funzione comunicativa non dissimile dal conio di emblemi, motti ed 
effigi sulle facce delle monete, oppure dall’allestimento di complessi 
apparati effimeri in occasione delle più importanti solennità e ceri-
monie). In altri casi emerge invece la partecipazione, talvolta persino 
preponderante, di soggetti privati: gruppi di intellettuali, per lo più 
giuristi, che si propongono di smerciare nelle università il grosso delle 
copie delle raccolte normative delle quali hanno sovvenzionato la 
stampa; tipografi che si accollano quasi tutti gli oneri finanziari 
dell’impresa, o perché fiduciosi del buon esito commerciale della 
stessa, oppure perché sperano di conquistarsi, grazie a questo non pic-
colo sforzo, il favore e la protezione delle locali istituzioni; ‘mecenati’, 
persino, che individuano, nella stampa degli statuti propri dei luoghi 
su cui desiderano mettere le mani, uno strumento di legittimazione 
implicita delle loro ambizioni. A seconda di quale è stata di volta in 
volta la committenza, ne risulterà anche una diversa distribuzione de-
gli esemplari prodotti, che potranno essere le scansie delle raccolte 
librarie dei professionisti del diritto, oppure i banchi di lavoro dei 
pubblici ufficiali, i luoghi di ufficializzazione della sovranità, le case 
dei notabili in grado di favorire, come pure di ostacolare, un avvicen-
damento al potere, e così via. Il quadro d’insieme è, dunque, così va-
rio, che il primo insegnamento da trarne diviene certamente quello 
STATUTI E GRIDE IN TIPOGRAFIA 9 
 
di evitare le facili generalizzazioni, di procedere anzi mettendo in can-
tiere lo studio approfondito caso per caso. 
Per finire, vorrei tornare sulla faccenda, alla quale avevo fatto 
cenno aprendo questo mio intervento, della minuteria erudita, quella 
vacua e quella pregnante, che la ricerca storico-bibliografica suole met-
terci a disposizione. Da storico ‘generalista’, come sono, ho sempre 
ritenuto gli studi che riguardano le vicende passate dei libri e dei loro 
artefici ricche di fascino, ma anche di forza ermeneutica. Di dettaglio 
in dettaglio, questi contributi riescono ad aprirci le porte delle tipo-
grafie, delle botteghe dei librai, di alcune stanze delle case private con 
una ricchezza di particolari capace, con un po’ di fantasia, di farci ‘tor-
nare nel passato’, come ci è concesso solo rispetto a ben pochi altri 
àmbiti della vita quotidiana delle generazioni remote. Ci porta alla 
presenza di uomini d’altri tempi, mentre, per esempio, costoro sono 
intenti nel proprio lavoro o nel decidere come impostarlo. E, non di 
rado, permette di renderci conto che la loro esistenza, spirituale e ma-
teriale, fu differente da come ce l’aspettavamo. L’emozione, nella ri-
cerca storica, o letteraria, o umanistica che sia, e anche semplicemente 
nello studio e nella lettura, nasce quando ci si accorge che le cose non 
stanno ‘come dovrebbero’, scopriamo cioè che sono diverse da come 
sembravano, oppure da come immaginavamo che fossero state. Nasce 
dalla sorpresa e dallo stupore. Sembra una sciocchezza, a dirla ad alta 
voce, ma un po’ di queste sensazioni me le ha donate anche un libro 
algidamente specialistico, tutto teso a indagare le «scritture politiche 
e normative di prìncipi e città nell’Italia centro-settentrionale della 
prima età moderna», come è quello che oggi è al centro della nostra 
attenzione. Mi ha dato idee e informazioni che non mi aspettavo. Un 
grazie, dunque, ai suoi autori, e ai suoi curatori.